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BIGFOOT

Ultimo Aggiornamento: 26/02/2012 15:00
26/02/2012 12:38
 
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Le leggende echeggiavano su una vastissima zona geografica, dal Caucaso all'Himalaya, dal Pamir alla Mongolia, fino ai confini estremi della Russia. Nell'Asia centrale vengono chiamati Mehteh, o yeti, mentre le tribù orientali usano la parola Almas. Pare che il primo riferimento a questi esseri ampiamente diffuso in occidente sia stato il rapporto, datato 1832, di B.H. Hodgson, ambasciatore inglese residente presso la corte reale del Nepal, dove si racconta come i cacciatori del posto e i nativi in genere, temessero fortemente la presenza di un "uomo selvatico", con il corpo ricoperto di peli. Più di mezzo secolo dopo, nel i 889, fu la volta del maggiore L.A. Waddell. Mentre stava esplorando l'Himalaya, a quota 5000 m, si era imbattuto in alcune grosse impronte, ben impresse nella neve fresca. I portatori locali, spaventati, gli dissero, senza esitazione, che si trattava del recente passaggio di uno yeti, una creatura feroce propensa ad attaccare l'uomo per cibarsene. Il modo migliore per sfuggirgli era scendere a valle, perché lo yeti aveva capelli così folti e lunghi che, scendendogli sugli occhi nel corso della discesa, gli impedivano di avere una buona percezione visiva. Nel 1921 i componenti di una spedizione guidata dal colonnello Howard-Bury, impegnata nell'aprire per la prima volta un'ascesa sul versante settentrionale dell'Everest, avevano osservato a debita distanza, nei pressi del valico di Lhaptala, alcune creature scure, contrastanti con il candore della neve, che i portatori tibetani indicarono subito come yeti. Nel 1925 N.A. Tombazi, membro della Royal Geographical Sociely, riferì di aver tentato invano di fotografare sul ghiacciaio Zemu un essere che si muoveva goffamente su due gambe. Purtroppo, nel momento in cui era pronto allo scatto, questo era svanito nel nulla. E così, con questo ritmo, leggende e testimonianze si sono intrecciate fino ai nostri tempi, sempre connotate da quel tono di mistero e di lieve dubbio bastevoli per consentire alla scienza di rigettare ogni cosa, parlando di sogni a occhi aperti, inganni e mistificazioni. La fotografia scattata da Shiplon nel 1951 ebbe un'eco straordinaria proprio perché era stata presa dal componente di una spedizione scientifica, che non avrebbe avuto alcun motivo di raccontare frottole. Oltre tutto poi, l'immagine parlava da sola e non necessitava di alcun commento. Almeno così veniva da immaginare. Invece il Dipartimento di storia naturale del British Museum non la pensava così, tanto che uno dei suoi più illustri rappresentanti, il dottor T.C.S. Morris-Scott denunciò al mondo scientifico che la sua idea era ben diversa e che l'orma fotografata apparteneva a una creatura, l'entello himalayano, che i locali chiamavano langur. La sua decisa affermazione si fondava sulla descrizione di uno yeti fatta dallo sherpa Ten Sing, il quale parlava di una creatura poco più alta di 150 cm, dall'andatura eretta, il cranio a punta conica e una folta pelliccia rossastra. Secondo Morris-Scott questa descrizione collimava alla perfezione con quella del langur. La principale obiezione a questa osservazione stava nel fatto che anche il langur, come la maggioranza delle scimmie, procede quasi sempre a quattro zampe e vanta cinque dita molto allungate, compreso quello prominente che non è mai arrotondato. Alla fine, l'ipotesi venne rigettata dagli stessi colleghi di Morris-Scott e presto dimenticata. L'enigma dell'uomo delle nevi continuava pertanto a restare tale. Un'ipotesi un poco più fantasiosa è quella proposta dallo zoologo olandese Bernard Huevelrnans, esposta in una serie di articoli apparsi a Parigi nel 1952. Egli ricordava che nel 1934 il dottor Ralph von Koenigwald aveva scoperto in un'antica farmacia cinese di Honk Kong alcuni antichissimi denti; la tradizione cinese attribuisce alla polvere di dente particolari doti terapeutiche. Fra quei denti c'era un molare di tipo umano, grande almeno due volte quello di un normale gorilla adulto, idea che suggeriva fosse appartenuto a una creatura alta circa 6 m. Alcuni approfondimenti rivelarono che il mostruoso gigante - divenuto noto in tutto il mondo col nome di gigantopithecus - si era estinto da circa mezzo milione di anni. Per Huevelrnans, dunque, l'impronta che Shipton aveva fotografato doveva appartenere a un erede, chissà come sopravvissuto, del gigantopithecus. La sua teoria venne snobbata e solo pochi colleghi si degnarono di prenderla in considerazione. Nel 1954 il giornale «Daily Mail» finanziò una spedizione al fine di catturare (o per lo meno riuscire a fotografare) uno yeti. Dopo 15 settimane di inutili sopralluoghi, tutto si era concluso senza il minimo successo, se solo si fa eccezione per un'informazione decisamente importante. La spedizione aveva scoperto che in molti monasteri tibetani erano conservati scalpi di yeti, considerati preziose reliquie. In alcuni casi una visione diretta aveva consentito osservazioni affascinanti. Erano tutti lunghi e conici, simili a una mitra vescovile, e ricoperti da un fitto pelame, compresa una specie di "cresta" nel centro, composta da capelli diritti. In un caso si era scoperto che lo scalpo gelosamente conservato era un falso, vale a dire era stato ottenuto con alcuni brandelli di pelle di animale cuciti insieme. Tuttavia, tanti altri risultavano ricavati da un solo pezzo di pelle. Frammenti di capelli prelevati da questi scalpi li rivelarono appartenenti ad animali sconosciuti. Insomma, anche se lo yeti non era stato catturato, erano comunque emerse prove più che sufficienti a dimostrarne l'esistenza. Ma niente da fare, neppure questa volta. Quando a Sir Edmund Hillary venne concesso, in segno di grande onore, di trattenere uno scalpo per qualche tempo - ricordiamo quanto l'oggetto fosse tenuto in alto riguardo presso i sacerdoti tibetani - Bernard Huevelmans ebbe l'opportunità di studiarlo a fondo. Disse che gli ricordava la sagoma della testa di una grande capra di montagna che aveva avuto modo di osservare a lungo in uno zoo negli anni prima della guerra. Questo tipo di caprone, grande e massiccio, vive anche in Nepal, la terra per eccellenza dell’abominevoli uomo delle nevi. Huevelmans ne aveva allora portato uno a fini di studio presso il Royal Institute di Bruxelles, dimostrando con una comparazione dettagliata che anche gli scalpi conservati dai preti tibetani appartenevano a questo genere di animale. La pelle era stata appiattita e lavorata col vapore, ma non si poteva parlare di un falso deliberato. Si trattava di un copricapo che veniva indossato dai sacerdoti celebranti nel corso di particolari riti. La tradizione era antichissima e risaliva a tempi sconosciuti. Gli scalpi risalivano a questi periodi, erano stati tramandati come scalpi di yeti e tutti continuavano a ritenerli tali. A questo punto, era diventata convinzione comune che la storia dello yeti altro non fosse che una leggenda. Eppure, anche questa volta si trattò di una conclusione affrettata. Certo, i tanti europei che si erano spinti alla ricerca della misteriosa creatura potevano anche essersi sbagliati nel sostenere di aver visto una cosa anziché un'altra; ma come si potevano liquidare con tanta facilità le impronte, avvistate e fotografate in abbondanza? Nel 1955 un francese, l'abate Bordet, ne vide addirittura tre serie. Nello stesso anno il capo di una spedizione, Lester Davies, ne filmò altre. Nel giugno del 1970, lo scalatore Don Whillans sostenne di aver scorto una creatura molto simile a una grossa scimmia sui contrafforti dell'Annapurna e nel 1978 Lord Hunt fotografò alcune nitide impronte. Nel frattempo anche in Russia cominciarono a venire allo scoperto alcune testimonianze. Nel 1958 il tenente colonnello Vargen Karapetyan pubblicò su un giornale moscovita a larga tiratura un ampio articolo sullo yeti - da quelle parti conosciuto come Alma - intervistando a lungo il più noto esperto del campo, il professor Boris Porshnev. Nel dicembre del 1941 la sua unità operativa stava combattendo contro i tedeschi invasori sul fronte del Caucaso, nelle vicinanze di Buinakst. Un giorno erano andati da lui alcuni partigiani, i quali lo avevano sollecitato ad andare a vedere un prigioniero appena catturato. Gli dissero però che avrebbe potuto osservarlo solo da lontano, perché non appena era stato ricoverato dentro una stanza al caldo si era denudato e aveva incominciato a sudare in abbondanza, per di più era pieno di pulci dalla testa ai piedi. Si trattava di un essere senz'altro diverso da una scimmia: nudo, sporco e spettinato, pareva sordo e spaesato, vacillante. Karapetyan aveva voluto egualmente avvicinarlo. Quando gli aveva scostato i lunghi capelli incolti dal viso per guardarlo in volto, la più netta impressione ricevuta era una silenziosa richiesta di pietà e aiuto. Era evidente che non capiva ciò che gli veniva detto. Alla fine Karapetyan se n'era andato, invitando il gruppo di partigiani che lo aveva in custodia a pensare che fare di quello strano uomo. Qualche giorno dopo gli era giunta la notizia che era scappato. Ovviamente, la storia puzza di bruciato, come si dice. Eppure, un rapporto del Ministero dell'Interno del Daghestan confermò ogni cosa, aggiungendo una nota decisiva in più. L'uomo selvaggio era stato giudicato dalla corte marziale e giustiziato come traditore. Nel gennaio del 1958 il professor Alexander Pronin, dell'Università di Leningrado, riferì di aver visto un Alma. Si trovava nel Pamir, quando ad un tratto aveva scorto, sullo sfondo delle rocce, una creatura ignota che si stava arrampicando. Aveva una sagoma umana, con lunghi capelli rossicci. Quando si era accorto della sua presenza, era rimasto a guardarlo per quasi cinque minuti, poi era scomparso. Tre giorni dopo, il contatto a distanza si era ripetuto in quello stesso posto. Per una serie di logici motivi, la dottrina marxismi non accettava l'idea dell'uomo selvatico, ma quando le notizie incominciarono ad accumularsi, l'evidenza non potè più essere negata. Dobbiamo a Boris Porshnev la raccolta di tutte le testimonianze di avvistamento di un Abominevole nel mondo russo, una serie di notizie di cui Odette Tchernine si è ampiamente servita per il suo notevole libro intitolato The yeti. Proviamo, adesso, a sintetizzare i fatti: la prova relativa all'esistenza reale di una creatura singolare chiamata yeti. Alma, Bigfoot, Sasquatch o "abominevole uomo delle nevi" è piuttosto acclarata e centinaia di segnalazioni inducono a credere non possa fondarsi soltanto su fantasie e immaginazioni. Se, dunque, un essere simile esiste per davvero, di che cosa potrebbe trattarsi? La professoressa Myra Shackley, assistente di archeologia presso l'università di Leicester, sostiene di saperlo.

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