Le tecniche riproduttive comportano un rischio di gravidanze plurime. Pericolose per la salute della madre e degli embrioni, dipendono dall’impianto di più di un embrione nell’utero materno. L’incidenza è di circa il 25% dei trattamenti contro l’infertilità. Solo in Inghilterra sono morti 126 bambini che sarebbero vissuti nel caso di una gravidanza singola. Il trasferimento di più di un embrione è finalizzato ad aumentare le possibilità di avviare una gravidanza.
Ma secondo una ricerca di Yacoub Khalaf, del Guy Hospital di Londra, aspettare che l’embrione si sviluppi fino a diventare blastocisti (5 giorni invece che 3) garantirebbe una percentuale di successo elevata, evitando di correre il rischio di gravidanza plurime. In un colpo solo verrebbe abbattuta la credenza che impiantando un solo embrione non si abbiano molte possibilità di avviare una gravidanza e il rischio di nascite premature e di neonati gravemente sottopeso.
Addirittura lo Human Fertilisation and Embryology Authority sta valutando se intraprendere azioni disciplinari contro quei centri in cui le gravidanze multiple occorrano in oltre il 10% delle fecondazioni artificiali.
E in Italia? La legge 40 impone di trasferire 3 embrioni, non importa la costituzione della donna, il suo stato di salute e la sua età. È la legge, e non il medico, a decidere. Suscita poi una certa perplessità la ritrosia da parte delle istituzioni di comunicare i dati del registro sulla PMA, che verosimilmente stonerebbero con il tentativo di convincere che la legge 40 sia una buona legge e che non abbia causato danni superflui ed evitabili.
Articolo di Chiara Lalli pubblicato sul blog Bioetica
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