Processo Ruby. Il vice-questore Iafrate considerato teste falso? Inaccettabile
Una sentenza choc. Il tribunale di Milano infligge all’ex premier Silvio Berlusconi una pena superiore alle richieste di un PM non certo docile, come la Ilda Boccassini. 6 anni chiesti dal Pubblico Ministero. 7 inflitti dalla Corte.
Tre donne sulla cui serenità erano già stati sollevati alcuni dubbi sino alla richiesta della difesa di spostare altrove il processo.
Ma l’aspetto che più di ogni altro sta facendo discutere in queste ore è l’aberrante ipotesi che tutti i testimoni della difesa (alcuni anche dell’accusa), 36 per la precisione, abbiano detto il falso. E’ questo che ipotizzano giudici del primo grado, ordinando la trasmissione degli atti alla Procura che potrebbe iscrivere tutti al registro degli indagati.
E nel raffronto telefonate intercettate/dichiarazioni rese al processo per qualcuno ci poteva anche stare. Ma pensare ad un complotto complessivo, tra escort e dintorni, fannulloni, scrocconi, politici, avvocati e poliziotti non può che suscitare qualche perplessità.
Una mossa che sul piano tecnico giuridico avrà come effetto quello di vanificare qualunque tentativo difensivo al processo di Appello se i presunti concussi che dicono di non essere concussi sono bugiardi e se le presunte mignotte che dicono di non aver mignottato sono bugiarde.
Sembra di rivivere un film già visto. Lo abbiamo visto al processo Contrada, dove 150 testi della difesa, tra cui diversi alti funzionari dello Stato, poliziotti, politici e magistrati, furono liquidati come testi poco attendibili poiché “legati da vincoli di pregressa collaborazione e amicizia all’imputato”.
Lo abbiamo rivisto con il processo Mori dove un intero gruppo di ufficiali in servizio dell’Arma dei carabinieri, tutti protagonisti della storia vera dell’Antimafia nazionale ed internazionale, sono stati bollati dalle parole del Pubblico Ministero come testi sostanzialmente inattendibili in quanto “parte integrante di un gruppo che ha perseguito obiettivi di politica criminale”.
Ma questa volta la particolarità sta nel fatto che sono i giudici “terzi ed imparziali” a ritenere che non solo qualche giovincella ospite di feste private, svoltesi tra quattro mura domestiche abbia mentito per favorire un moderno Mecenate, ma anche funzionari dello Stato come la dottoressa Giorgia Iafrate della Questura di Milano, abbia alterato la verità. E non un semplice giudizio di inattendibilità, ma addirittura l’ombra della commissione di un grave reato quale la falsa testimonianza.
D’altronde come giustificare altrimenti una concussione per costrizione che è costata a l’ex premier una condanna a 7 anni?
La sensazione che se ne ricava è che, pur di perseguire un obiettivo giudiziario (giudiziario?) i giudici di Milano, non si siano fatti alcuno scrupolo ad infangare un vicequestore della Polizia di Stato che ha come unica colpa quella di essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato e di aver voluto sino in fondo essere coerente con il proprio operato.
E questo ci deve far riflettere. Perché questa decisione, aldilà della sua valenza politica, aldilà della ulteriore spaccatura nell’opinione pubblica tra coloro che esultano e coloro che urlano al complotto politico giudiziario, è l’ennesima riprova della profonda deformazione della giustizia, soprattutto penale, e di quanto anche i giudici siano, nella migliore delle ipotesi, preda facile del sentimento popolare alimentato dalla mediaticità dei processi, perdendo così quella rigorosa terzietà ed obiettività che dovrebbe indurli a ragionare sulle carte del processo e non sulla simpatia o antipatia, anche politica, dell’imputato.
Allora ci si chiede se gli amanti della nostra Costituzione, come il grande Benigni, non si sentano violentati anche in questo giorno in cui il principio di terzietà dei magistrati è quantomeno rivestito da legittime ombre.
di Angelo Jannone © 2013 Qelsi
www.qelsi.it/2013/processo-ruby-il-vice-questore-iafrate-considerato-teste-falso-inacce...
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