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18/11/2009 11:20 | |
da www.capperi.net/degregorio.html
Quando uno Stato può dirsi laico
di Faustino de Gregorio*
15/11/04
L’insistenza di molti lettori ed amici mi ha convinto a riformulare, seppur brevemente, quanto già trattato qualche tempo fa sul principio di laicità dello Stato. In quella circostanza, senza ripercorrere per intero quanto già detto, affermavo che Stato laico è lo Stato aconfessionale, che rifiuta di dare sanzione giuridica alle norme etico religiose proprie di una particolare confessione e respinge la tendenza delle istituzioni religiose a stabilire un controllo sul potere politico e a modellare la società civile sulla matrice della propria ideologia. Al tempo stesso, però, riconosce politicamente l’esistenza delle istituzioni religiose e l’importanza fondamentale dei principi e dello spirito religioso per la vita della comunità politica, recependo dalla religione la sua funzione ispiratrice in quanto essa aiuta a scoprire e a realizzare i valori naturali e temporali. Aggiungevo anche che lo Stato laico affonda le sue radici nel “secolo dei lumi” e si trova in rapporto di derivazione con il liberalismo della restaurazione. Il liberalismo classico, dunque, si limita a separare i due poteri, ma continua ad essere convinto che spetti al cristianesimo la facoltà di fornire i fondamenti etici della vita associata. La natura dello Stato liberale, laico e costituzionale, appare a molti settori del cattolicesimo una disgregazione dell’intero assetto sociale, una separazione ingiustificata della politica dalla morale ed anche della morale dalla religione. Alle cose sopra dette (e già dette, lo ripetiamo, nelle precedenti riflessioni) aggiungiamo che negli anni passati la Chiesa Cattolica continua ancora a proporsi come società organica onnicomprensiva, in modo da assorbire in sé gran parte della sfera civile e politica, oltre a configurarsi, in termini istituzionali, come società monolitica e compaginata intorno al papato: in termini ideologici, diviene depositaria di un sistema dottrinale capace di offrire risposte ed orientamento a tutti i singoli problemi del mondo e della società contemporanea. In contrapposizione all’atteggiamento della gerarchia cattolica si sviluppano, in gran parte d’Europa, tendenze “cattolico – liberali”. Ai cattolici moderati che si proclamano “cattolici con il Papa, liberali con lo Statuto”, rispondono gli intransigenti: “cattolici e basta!”. Quella di cui discutiamo è l’epoca dell’anticlericalismo in Inghilterra, Francia Germania, Belgio e, soprattutto, della nostra Italia. In Inghilterra, per esempio, il movimento cattolico liberale agisce, nell’Ottocento, con il preciso scopo di acquisire parità di diritti, libertà di esistere nei confronti della maggioranza anglicana e protestante. Un momento senz’altro importante delle cose che andiamo dicendo è quello in cui, siamo nel 1848, nasce la rivista cattolica < > che, sotto la direzione di Lord Johon Acton (nipote dell’Acton primo ministro di Ferdinando II di Napoli), rivendica l’uguaglianza politica e civile per tutti i cattolici inglesi. Come si può facilmente immaginare, ben presto la pubblicazione della rivista venne sospesa per le insistenti pressioni esercitate dalle Autorità ecclesiastiche, come pure accadrà per altre due riviste : “The Home and Foreing Review” e “Dublin Review”. In Germania il movimento cattolico doveva affrontare il problema di coloro i quali, studenti, professori, storici e studiosi in genere, rivendicavano libertà scientifica nelle discussioni, in quanto la libertà di ricerca era vincolata dalle severe direttive di Roma che, per esempio, esigevano una interpretazione letterale del testo biblico, escludendo ogni acquisizione scientifica che non fosse in sintonia con il testo stesso, in contrapposizione a quegli scenziati protestanti che continuavano indisturbati e in piena libertà la loro ricerca scientifica. Si chiedeva, insomma, in nome di una libertà di pensiero e di opinione, un giusto equilibrio nelle direttive imposte dalla Santa Sede. A Francoforte nel 1848 l’Assemblea cattolica isola i radicali e vota una mozione: ”Ogni società religiosa mette in ordine e amministra i propri affari autonomamente, restando tuttavia sottomessa alla legge dello Stato come ogni società”. Una formula equa che verrà riproposta nel 1919 a Weimar, ma che soprattutto è indicativa di quanto veloce sia stata la separazione dal vecchio Stato giurisdizionalista confessionale. Come a tutti noto, il Congresso di Vienna (1815) aveva riunito Belgio e Olanda in uno Stato unico, sotto il trono di Guglielmo I d’Orange, il quale diventa re di due popoli diversi per carattere, per religione, per aspirazioni, dal momento che in Belgio i cattolici vedevano il loro Paese annesso ai Paesi Bassi notoriamente di rigida confessione calvinista. In seguito, e precisamente nel 1830, il Belgio riuscì a conquistare, con una rivoluzione, la propria indipendenza e ad avere una propria Costituzione alla quale non poco contribuì il movimento dei cattolici liberali accentrati intorno alla nota Scuola di Malines, guidata da Engalberto Sterck, promotore ed ispiratore del principio della separazione legale dello Stato dalla Chiesa. I riferimenti storici appena delineati si sono resi necessari in quanto è in questo clima di violenti conflitti ideologici e istituzionali che si pongono le basi della successiva evoluzione della laicità. In ambito cattolico, il persistere di nuovi assetti politico – istituzionali liberali e borghesi, pone al cattolicesimo problemi pratici prima che teorici, di adeguamento, per intenderci, allo status quo. Nascono quindi i movimenti cattolici laicali operanti nel sociale e rapidamente proiettati nella lotta politica. Sorti in prospettiva di conquista cattolica della società civile ed in posizione di stretta subordinazione gerarchica, tali movimenti finiscono per rappresentare un fattore dinamico nei rapporti tra Stato e Chiesa e offrono una possibile via d’uscita alle chiusure integraliste, riattivando un canale di collegamento che sembrava agli occhi di tutti interrotto. E’ opportuno precisare altresì che il periodo storico che va dalla metà del XIX secolo ai giorni nostri, segna, in materia ecclesiastica, - nei rapporti tra Stato e Chiesa - , il trapasso dall’esclusivismo confessionale al pluralismo religioso. Questo lungo percorso si snoda, senza soluzione di continuità, attraverso alcune tappe fondamentali, ciascuna caratterizzata da diversi indirizzi di politica ecclesiastica e prende avvio intorno al XIX secolo, quando la legislazione ecclesiastica piemontese rimane condizionata dall’influenza di una politica liberale e separatista.
Tuttavia, l’evoluzione storica della legislazione ecclesiastica verso il riconoscimento del principio di uguaglianza e libertà subisce una brusca inversione di tendenza durante il ventennio fascista.
Nel regime viene ristabilita la contrapposizione statutaria tra religione di Stato e gli altri culti. Alla condizione di ammissione patria dei culti acattolici, subentra un regime di discriminazione religiosa che segna il passo, con conseguente involuzione dei principi di politica ecclesiastica in tema di accoglienza delle varie confessioni e del loro riconoscimento. Mussolini nei suoi discorsi sottolineava come “nell’unità religiosa è riposta una delle forze del popolo”, per cui “comprometterla o anche solo incrinarla è commettere un delitto di lesa maestà”. La religione cattolica apostolica romana, massimo fattore d’unità popolare, divenne allora, per il Duce, un valido strumento per improntare il suo potere a princìpi assolutistici e totalitari. La regolamentazione statale ecclesiastica si andò sempre più decisamente distaccando da quelle che erano le basi ideologiche agnostiche, separatiste e spesso giurisdizionaliste ed anticlericali che l’avevano caratterizzata sino a mantenere una identità di posizione di fronte ad ogni credenza e confessione.
Le minoranze religiose, pur passate da culti “tollerati”, secondo la dizione albertina, a culti “ammessi”, secondo la nuova dizione, furono oggetto di una apposita legge e, quindi, privati della condizione di libertà della quale avevano goduto dall’unità d'Italia sino all’instaurazione del regime.
La legge 24 giugno 1929 n. 1159 e il successivo regolamento di attuazione di cui al r.d. 28 febbraio 1930 n. 289, segnavano di fatto la fine della libertà di culto pubblico e della libertà di proselitismo.
Le leggi ecclesiastiche del periodo fascista introducevano strumenti di controllo, spesso e volentieri preventivi, sulle attività dei culti “ammessi”, dal momento che il carattere totalitario del regime, allora imperante, rendeva prioritarie esigenze di polizia. Mussolini discrimina gli ebrei privandoli dei loro diritti di cittadini; ostacola, sino a perseguitarla, ogni attività espansionistica degli evangelici, ritenendo che: ”in essi è diffuso un senso profondo di ostilità al fascismo ed è quindi necessario seguirne attentamente l’attività”. Andiamo a concludere. Il cammino della legislazione ecclesiastica in direzione della libertà in materia religiosa, dopo l’involuzione fascista, riprende impulso, oltre ad un univoco indirizzo, nei principi fondamentali della Costituzione repubblicana in base al nuovo ordinamento democratico dello Stato. La Chiesa, nelle intemperie della seconda guerra mondiale, aveva contribuito alla “resistenza”. Il partito dei cattolici, la Democrazia Cristiana, faceva parte del Comitato di liberazione nazionale; quanti erano perseguitati da parte del regime fascista avevano la possibilità di rifugiarsi nei conventi. Alla vigilia delle elezioni per l’Assemblea costituente nessuna voce si elevò per denunciare i Patti Lateranensi o per proporre una politica ecclesiastica contraria alla Chiesa Cattolica. Era questa, per intenderci, l’atmosfera politica che si respirava negli anni 1946 – 1947 e che portò alla formazione delle norme costituzionali per la disciplina del fenomeno religioso e la riconferma dei Patti Lateranensi. Il pluralismo garantito dalla Costituzione del 1947 non concerne solo la libertà di scelta degli individui, ma anche il diritto all’esistenza, alla organizzazione, alla funzionalità delle varie istituzioni senza le quali non sarebbe possibile l’effettivo esercizio della libertà di scelta individuale. Omettendo tutta una serie di accadimenti storici e dandoli per pacifici, giungiamo ad affermare che la particolare posizione che è attualmente riservata dal nostro ordinamento alla Chiesa cattolica ha sollevato un acceso dibattito dottrinale sulla qualificazione dello Stato italiano in materia religiosa, alla luce dello stato attuale delle relazioni tra Stato e Chiesa cattolica, in considerazione anche delle norme legislative relative alle confessioni di minoranza oltre a quelle inerenti la libertà di coscienza e di religione. Lo Stato democratico italiano, avendo proclamato in modo chiaro in ordine al principio di libertà in materia religiosa e riconosciuto il pluralismo confessionale, può essere considerato Stato laico e separatista o, alla luce della privilegiata posizione riconosciuta alla Chiesa cattolica dall’art. 7 Cost., merita, piuttosto, ancora la qualifica di Stato confessionale? Per intenderci, in uno Stato che da un lato proclami ed attui la libertà religiosa individuale e la pari libertà di tutte le confessioni religiose, e, dall’altro, detti e realizzi un trattamento di particolare favore nei confronti di una confessione religiosa in quanto religione della maggioranza dei propri cittadini, può dirsi confessionale? Ed ancora, fermo restando che la particolare posizione riconosciuta alla Chiesa non vìola il principio di libertà religiosa, la proclamazione e il pratico rispetto di essa può considerarsi indice di confessionismo? A questi interrogativi, le risposte non sono affatto pacifiche, anche per le difficoltà di attribuire significati univoci a concetti del tenore di “confessionismo” e “laicità” attribuiti allo Stato (invito gli interessati a leggere il bel libro di un brillante e acuto professore di materie ecclesiasticistiche, Mario Ricca, Legge e intesa con le confessioni religiose. Sul dualismo tipicità / atipicità nella dinamica delle fonti, Torino, 1996). Il valore assoluto della laicità, quale principio portante del nostro ordinamento giuridico, non è affermato dalla Costituzione, allo stesso modo di come la Costituzione non accoglie alcune disposizione in favore del confessionismo. Il principio si deduce, tuttavia, dal combinato disposto degli articoli costituzionali riguardanti il “fattore religioso” oltre che dalla adesione ottenuta da parte della dottrina e della giurisprudenza. Per cercare di comprendere in che cosa si concretizza questa laicità, già Jemolo sosteneva che fosse “la qualificazione di una società civile e di un’organizzazione statale fondata sull’uguaglianza dei diritti degli appartenenti a tutte le confessioni e degli atei”. La laicità, secondo la dottrina ecclesiasticistica che ha cercato di dare non solo una interpretazione, ma anche una definizione, è un valore necessario alla coesistenza di uomini di diversa ideologia e si configura nell’indipendenza ed autonomia dell’autorità civile rispetto a qualsiasi gerarchia religiosa, nell’aconfessionalità dell’ordinamento e neutralità in materia religiosa, nel riconoscimento di valore supremo di libertà religiosa, in un sistema separatista. La laicità è, dunque, un concetto che si presta, come abbiamo cercato di rappresentare al lettore, a più definizioni, pur sostanziandosi, in definitiva, in una precisa ideologia, e cioè che lo Stato laico non è, come potrebbe credersi, uno Stato ideologicamente neutrale, bensì uno Stato che, respingendo ogni residuo di confessionalismo, assume una precisa connotazione ideologica. Sorge naturale la domanda se l’attuale ordinamento giuridico, i principi accolti dalla Costituzione, la legislazione secondaria vigente in materia religiosa e la nostra stessa società manifestino in modo palese oppure no forme di confessionismo latente, che inevitabilmente naufragano, sino forse a contraddirla, con la astratta concezione di laicità dello Stato della quale stiamo discutendo. Ove si ritenga che la qualifica di Stato confessionale competa a quegli ordinamenti in cui è presente una confessione privilegiata, quand’anche ciò non determini una compressione o limitazione ad altre confessioni, non v’è dubbio che questa caratteristica connoti lo Stato italiano di oggi: si pensi agli articoli 7 e 8 della Costituzione, i quali non pongono sullo stesso piano tutte le confessioni, o alla legge 222/85, che introduce una regolamentazione che pone gli enti ecclesiastici in una posizione differente rispetto a quelli delle altre confessioni, o, ancora, al settore dell’insegnamento della religione nelle scuole o alla riserva di giurisdizione nelle cause matrimoniale. Non certo per eludere il problema, bensì per giungere al termine di queste brevissime e superficiali note, si può concludere dicendo che, il riconoscimento costituzionale del pluralismo confessionale e della libertà religiosa, così come l’affermazione della laicità quale principio supremo dell’ordinamento da parte della giurisprudenza costituzionale, non sono, di per sé, elementi sufficienti a definire lo Stato attuale laico, in quanto manca l’incompatibilità logica tra pluralismo religioso e confessionismo ed anche perché la libertà in materia religiosa, per me non sembra identificarsi con il concetto di laicità. In quanto qualificazione di uno Stato democratico e pluralista, l’attuale confessionismo non può condurre a violazioni del principio di libertà di tutte le confessioni e in ciò si distacca dal confessionismo degli Stati assoluti. Lo Stato attuale non si arroga il diritto di definire il concetto e la portata dei principi confessionali, lo abbiamo detto più volte in queste righe, ma in esso il confessionismo trova spiegazione nel rispetto cui lo Stato ritiene di essere tenuto verso il sentimento religioso della maggioranza dei cittadini e non per il valore strumentale che esso può avere ai fini propri dello Stato in quanto Stato.
*Professore Associato di Storia del diritto canonico e di Diritto ecclesiastico
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