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La trasmissione dei Vangeli e la composizione del Nuovo Testamento

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    Madre Badessa
    00 20/12/2011 23:53
     

    I quattro EvangelistiNell' ambito di questo primo libro si impongono alla nostra attenzione ancora due questioni: 1. Come furono tramandati i Vangeli? 2. Come si pervenne al Canone del Nuovo Testamento?

    Il rappezzamento del testo evangelico.
    Solo l' ignoranza può negare il fatto che il testo del Nuovo Testamento, in questo momento della sua evoluzione, abbia subito una profonda modificazione, e sia stato sottoposto, in parte, a un processo di imbarbarimento formale.
    (Il teologo Jülicher, 591)
    Il testo originale va via via scomparendo; si notano sempre più numerose le contraddizioni fra i manoscritti di tradizione diversa e si cerca di appianarle: il risultato è un vero e proprio caos. (I teologi Hoskym e Davey) [...]


    Fino al XVIII secolo si affermava di possedere l' originale del Vangelo di Marco, anzi, addirittura in due copie, una a Venezia e l'altra a Praga; ed entrambe in Latino, lingua mai usata dagli Evangelisti. In realtà non esiste alcun originale: infatti, nella loro redazione originaria non sussistono né testi neotestamentari né, più in generale, testi biblici. D'altra parte non sono pervenute nemmeno le loro prime trascrizioni: esistono solo trascrizioni di trascrizioni di trascrizioni.

    Il testo attuale del N.T. è spurio, nel senso che è stato rappezzato dalle più diverse redazioni tramandate attraverso i secoli. Esso si basa 1) su manoscritti greci, 2) su traduzioni antiche e 3) su citazioni mnemoniche neotestamentarie dei Padri della Chiesa. Giustino, ad esempio, ne fornisce circa 300, Tertulliano più di 700, Origene quasi 18.000. Ma a sua volta la tradizione di queste opere presenta le più differenti garanzie di attendibilità.

    I più antichi manoscritti greci del N.T. a noi pervenuti, il Vaticanus e il Sinaiticus, risalgono solo al IV secolo.

    Il Vaticanus, poi, custodito nella Biblioteca Vaticana, non è completo e ha conosciuto più di un miglioramento. Le sue diverse lezioni - vi si riconosce l'attività di tre correttori - sono diventate note grazie all'opera del teologo tedesco Constantin von Tischendorf (m. 1874), precursore emerito della critica testuale neotestamentaria, viaggiatore instancabile e scopritore nel Monastero Caterino sul Sinai (1844 e 1859) anche del Codex Sinaiticus, che acquistò per lo zar Alessandro II.

    Fra i manoscritti greci più antichi, il Sinaiticus, (dal 1933 nel British Museum), è l'unico che contiene per intero il N.T. e persino due «Apocrifi», poi condannati dalla Chiesa, cioè l'Epistola di Barnaba e Il pastore di Erma. Come il testo del Vaticanus, anche quello del Sinaiticus fu messo insieme solo verso la metà del IV secolo, e in parte anche in modo del tutto arbitrario.

    Anche se assai frammentari, sono oggi molto più importanti dei manoscritti su pergamena quelli conservatici su papiro, ben più antichi in quanto risalenti al II secolo; ci sono, inoltre, traduzioni latine, siriane e copte fatte su testi greci, le più antiche delle quali risalgono anch'esse al II secolo (fra gli originali e queste traduzioni intercorre, in ogni caso, circa un secolo); si tratta, tuttavia, di trasposizioni condotte con grande povertà formale e incapaci di rendere le peculiarità e le sfumature del Greco, se non in modo assai rozzo.

    Nella stesura del testo greco assume grande rilievo il fatto che le parti più significative del N.T., i discorsi di Gesù, come è noto non furono espressi in Greco, ma in Aramaico, dialetto siriaco, e che così li tramandarono i suoi più antichi seguaci. Fu proprio dalle inflessioni di questo idioma parlato velocemente, non molto raffinato e di scarso prestigio, che Pietro venne riconosciuto nel cortile del Sommo Sacerdote (Mt. 26, 73).

    Poiché i Vangeli, come tutti i primi trattati cristiani fino alla fine del II secolo, quando si iniziò a scrivere anche in Latino, in Siriaco e (nel III secolo) in Copto, erano stati composti in Greco, sulla base delle parole di Gesù (cioè, delle parti più significative del N.T.) si trova già una «trasposizione»; non già, quindi, una traduzione di scritture omologhe in Aramaico, ma semplicemente la trascrizione di una tradizione orale! È evidente che non possono non essersi verificate modificazioni stilistiche ed ellenizzazioni proprio nelle locuzioni difficili o scomode. Gli studiosi, perciò, anche in questa traduzione delle espressioni di Gesù scorgono un problema da non sottovalutare.

    Solo pochissime parole di Gesù sono pervenute nel testo greco del N.T. nella loro forma aramaica originale, come il Talitha kumi con cui resuscita la figlia di Giairo (Mc. 5, 41), l'Effetha con cui avrebbe guarito il sordomuto (Mc. 7, 34), il Eli, Eli, lema sabchtanì, parole con le quali in Matteo e in Marco lamenta sulla croce d'essere stato abbandonato da Dio (Mt. 27, 46; Mc. 15, 34), oppure il termine Amen.

    La trascrizione dei Vangeli fu poi portata a termine non senza errori: per più di due secoli essi furono esposti agli interventi volontari o involontari dei copisti, e nella diffusione attraverso la pratica religiosa subirono, come dice il Teologo Feine-Behm, «molteplici modifiche del tutto naturali, ma anche amplificazioni o riduzioni arbitrarie»; glossatori e/o redattori ecclesiastici, come dimostra il teologo Hirsch, hanno «polito», «completato», «armonizzato», «affinato» e «migliorato» i testi, sicché, alla fine, come scrive il teologo Lietzmann, «ne è venuta fuori una jungla di lezioni contrapposte, di aggiunte, di omissioni» e, come afferma il teologo Knopf, «non siamo più in grado di determinare con sicurezza, e talora neppure con sufficiente approssimazione, il testo originario di numerosi passi». Nemmeno sotto questo aspetto il Cristianesimo presenta tratti originali, giacché anche gli antichi Egizi sottoposero ad analoghe migliorie i propri testi sacri.

    Come insegna la storia del testo, nel periodo più antico tali interventi furono perlopiù volontari, anche perché i Vangeli, come vedremo fra poco, per circa un secolo non possedettero il carattere di scritture sacre e inviolabili: subirono cancellazioni, aggiunte, parafrasi, e amplificazioni dei dettagli; il loro racconto era assai più ampio di quanto non fosse contenuto nelle copie corrette. Fino al 200 circa essi vennero trattati secondo le esigenze e i gusti di ciascuno, ma anche redattori più tardi continuarono a correggerli, a introdurvi nuovi miracoli o a esagerare quelli già presenti nei testi.

    Per porre fine a questo ineluttabile processo di imbarbarimento, nel 383 il Vescovo di Roma Damaso incaricò il dalmata Gerolamo di costituire un testo unitario della Bibbia Latina, nella quale non c'erano due passi di una certa consistenza che concordassero fra loro. Il segretario del Papa modificò la lettera del modello utilizzato per la sua «correzione» dei Quattro Vangeli in circa 3500 passi. La traduzione di Gerolamo, la Vulgata, fu per molti secoli respinta dalla Chiesa, che solo nel Concilio di Trento (sec. XVI) si decise a dichiararla autentica.

    Sia fra i manoscritti biblici veterolatini che fra quelli greci (di questi ultimi nel 1933 si conoscevano circa 4230 esemplari, nel 1957 addirittura 4680) non ce n'erano due che presentassero il medesimo testo; non esiste una concordanza di tutti i Codices nemmeno per la metà delle parole, nonostante la tradizione manoscritta abbia cercato di eliminare le discordanze (o forse proprio per questo!). Il numero delle varianti, cioè delle differenti lezioni, si aggira attorno a 250.000. Semplici differenze di interpunzione o di lettere dell'alfabeto (il che può già essere di per sé decisivo del senso) vi svolgono un ruolo importante quanto le varianti di intere frasi e capitoli. E dunque, il testo del «Libro dei Libri» oggi diffuso in più di 1100 lingue, è irrimediabilmente corrotto.

    Come divenne Canone il Nuovo Testamento?

    Fino alla metà del II secolo la cristianità non possedette un proprio libro sacro, per cui, per dirla con Nietzsche, era impegnata nell'inaudita farsa filologica di borseggiare gli Ebrei del Vecchio Testamento (Nietzsche, Morgenröte, I, 84), che per tutto il Cristianesimo ecclesiastico fu in un primo momento l'istanza scritturale più importante. La Prima Epistola di Clemente, composta a Roma verso la fine del I secolo e attribuita a un Vescovo romano, conta più di cento citazioni dal Vecchio Testamento e soltanto due riferimenti ai Vangeli, che vengono citati per la prima volta intorno al 140 dal Vescovo Papias, uno dei «padri apostolici», ma solo per affermare che preferiva la tradizione orale a quella scritta (In Eusebio, h.e. 3, 39, 4). E ancora verso il 160 Giustino Martire, nell'opera cristiana fino a quel momento di maggior respiro, si richiama quasi esclusivamente al V.T, e solo per calunniare indegnamente gli Ebrei.

    All'inizio godevano della medesima autorità solo le parole di Gesù, ma non i libri dove furono poi collocate, i quali solo verso la metà dei II secolo, quando la tradizione orale era ormai diventata sempre più inattendibile, furono equiparati al V.T. e quindi ad esso preferiti. Ed è a partire da questo momento che si cominciò a privilegiare i Vangeli poi «canonizzati» rispetto a quelli «apocrifi», facendone il «Vangelo» tout court.

    Per secoli la Chiesa ha polemizzato sulle dimensioni del Nuovo Testamento

    Vi sono contraddizioni e incongruenze dappertutto... Alcuni dicono: È valido ciò che viene letto in tutte le chiese; altri: Ciò che viene dagli Apostoli; altri ancora distinguono fra contenuti dottrinali simpatici o antipatici.
    (Il teologo Carl Schneider)
    Il titolo di Nuovo Testamento (lat. testamentum, gr. diathéke, ebr. berîth = alleanza) come definizione di una parte delle scritture cristiane del I e del II secolo appare per la prima volta nel 192 (In Eusebio, h.e. 5, 16, 3), anche se la Chiesa del tempo era ben lungi da una definizione unitaria delle sue dimensioni. Ciò è chiaramente dimostrato dall'abbozzo formalmente più antico degli scritti neotestamentari, cioè dal Canone rinvenuto nel 1740 dal bibliotecario milanese L.A. Muratori, di cui prese il nome ( = Canone Muratori), per molti aspetti il documento più significativo in assoluto della storia del canone neotestamentario. Creato a Roma o nei dintorni intorno al 200, esso rappresenta la posizione ufficiale della Chiesa Romana del tempo e attesta, tra parentesi in un Latino davvero miserabile assai prossimo a forme dialettali plebee, che la comunità cristiana di Roma non annoverava fra gli scritti del N.T. i testi seguenti: l'Epistola agli Ebrei, la Prima e la Seconda Epistola di Pietro, l'Epistola di Giacomo e la Terza Epistola di Giovanni, che oggi ne costituiscono parte integrante.

    Nel Canone del Dottore della Chiesa e Vescovo di Lione Ireneo (m. 202), uno dei più importanti teologi del Cristianesimo primitivo, all'incirca nello stesso periodo, mancano l'Epistola agli Ebrei, l'Epistola di Giacomo, la Seconda Epistola di Pietro, quasi certamente anche l'Epistola di Giuda e la Terza Epistola di Giovanni, che oggi fanno parte del N.T.

    Il Padre della Chiesa Clemente Alessandrino, che scrive fra il 190 e il 210, annoverava fra le Sacre Scritture il Vangelo degli Ebrei e il Vangelo degli Egizi, la Prima Epistola di Clemente, quella di Barnaba, la Didaché, numerose lettere apostoliche poi considerate apocrife, e molto probabilmente il Pastore di Erma, che anche Ireneo, il Tertulliano del periodo cattolico, Origene ed altri considerarono parte del N.T. (Iren., 4, 20, 2; Tert., de orat. 16). La Chiesa abissina lo considera ancor oggi parte integrante della propria Bibbia; ma tutti questi scritti oggi non appartengono alle Scritture del N.T.

    Questo per il periodo intorno al 200; ma un Canone della Chiesa africana, risalente al 360 ca., chiamato Canon Mommsenianus dal nome del suo editore, non considera appartenenti al N.T. l'Epistola agli Ebrei, quelle di Giacomo e di Giuda e, secondo una tradizione vulgata, nemmeno la Seconda Epistola di Pietro e la Seconda e la Terza Epistola di Giovanni.

    Come si vede, i giudizi in proposito oscillarono notevolmente per lungo tempo, si che in Occidente si decideva diversamente che in Oriente, gli uni annoverando nel «verbo divino» quel gli che altri respingevano e condannavano. La Chiesa occidentale, ad esempio, inseriva l'Apocalisse nel Canone, mentre quella orientale no. D'altra parte, questa accettava il Vangelo degli Ebrei, rifiutato nettamente dalla Chiesa occidentale. Fu solo intorno alla fine del IV secolo, precisamente nei Sinodi di Roma del 382, di Hippo Regius del 393 e di Cartagine del 397 e del 419, che vennero definitivamente determinati il contenuto e la dimensione del N.T.: d'ora in poi vennero considerati ispirati dallo Spirito Santo, divini e quindi privi di errori soltanto 27 Scritti (si sostenne, inoltre, anche la loro origine apostolica). Il termine tecnico di apocrifo divenne l'etichetta per definire tutto ciò che non vi era stato compreso e ciò che la Chiesa rifiutava della tradizione scritturale veterocristiana.

    Tuttavia, nemmeno in seguito mancarono incertezze e tentennamenti. L'Apocalisse, che in Oriente godeva in principio di grande considerazione, a partire dal IV secolo e fino all'VIII venne messa da parte; riuscì a stento a occupare l'ultimo posto fra gli Scritti neotestamentari; al suo declino contribuirono figure importanti della Chiesa, quali il Vescovo Dionisio di Alessandria, che ne misconosceva totalmente la derivazione giovannea, e il Vescovo Eusebio, autore di una storia della Chiesa 1.

    Il Nuovo Testamento, in ogni caso, divenne libro canonico e ispirato solo nel corso di lunghi secoli: è esso una creazione della Chiesa, e non la Chiesa una creazione del N.T, dato di fatto che venne ben presto capovolto. Il dottore della Chiesa Atanasio (m. 373), che la storiografia critica ha smascherato come falsario, fu il primo a stabilire con decisione i limiti del N.T., sostenendo contemporaneamente che il Canone da sempre esattamente determinato fosse stato creato dagli Apostoli e dai Dottori dell'età apostolica!

    Anche l'ampiezza del V.T. fu incerta per lungo tempo. Nel I secolo d.C. gli Ebrei, soprattutto le casate Hillel e Schammai, discutevano se Salomone e il profeta Ezechiele fossero parte della Sacra Scrittura. Anche il Cantico dei Cantici venne posto aspramente in discussione. Le dimensioni e i contenuti del V.T. furono stabiliti definitivamente in modo ufficiale nel Sinodo ebraico di Jammia intorno al 100 d.C. La definizione di «Vecchio Testamento deriva, poi, solo ed esclusivamente dal N.T. 2

    Infine, in tale situazione è ancora rilevante il fatto che per la cristianità primitiva gli scritti neotestamentari non erano né sacri né ispirati.

    I Vangeli non vennero considerati frutto di ispirazione divina.
    (I teologi Feine-Behm)
    Nel Concilio di Firenze (Bolla Cantate Domino del 4 febbraio 1442), in quello di Trento (IV Seduta dell'8 aprile 1546) e nel Concilio Vaticano (III seduta del 24 aprile 1870) la Chiesa Cattolica rese dogma di fede la dottrina dell'ispirazione divina della Bibbia che, com'è noto, non contiene in sé degli errori.

    Fra tutti i trattati neotestamentari, poi, solo l'Apocalisse (che entrò a stento nel Canone) avanza la pretesa di essere stata ispirata al suo autore direttamente da Dio e pretende di possedere la propria autorevolezza non in quanto libro canonico, bensì -sulla base di modelli ebraici -in quanto libro profetico. Essa pretende d'essere una profezia; per altro il compimento dei suoi vaticini, che in grandissima parte si riferivano a un tempo assai prossimo, non si è ancora realizzato 3.

    Nessun altro autore neotestamentario, poi, ha definito divina la propria produzione, neppure Paolo, il quale distingue espressamente e con grande chiarezza fra ciò che indica come derivante dal Signore e ciò che esprime come personale opinione, definendo inoltre la sua conoscenza come puramente «frammentaria» (1 Cor., 7, 10; 7, 12; 7, 25; 13, 12). Per quel che sappiamo, Paolo raccomanda solo una volta la lettura di un'epistola in una seconda comunità, e anche in questo frangente non parla di una diffusione in tutte le comunità o addirittura in tutta la Chiesa o fra i posteri (Kol., 4, 16).

    Come Paolo e gli altri autori delle Epistole neotestamentarie, nemmeno gli Evangelisti pretendono espressamente d'essere ispirati da Dio; è vero il contrario! Il prologo del Vangelo di Luca, laddove l'autore assicura «d'aver indagato accuratamente tutti i fatti fin dal principio», è la prova migliore del fatto che lo scrittore non era neppure lontanamente sfiorato dal pensiero dell'ispirazione divina.

    Né riteneva di compiere alcunché di eccezionale, se è vero che sin dal primo versetto ammette che «già molti» prima di lui avevano raccolto analoghe notizie, anche se non lo soddisfacevano perché non raccontate «fin dagli inizi e nella giusta sequenza». E dunque egli intendeva solo apportarvi miglioramenti tali da poter persuadere della «attendibilità» delle notizie insegnate il «nobilissimo Teofilo», per il quale scrive la propria opera (Lc., 1, 1 sgg.). L'Evangelista si presenta, dunque, non come un autore ispirato da Dio, ma come un epitomatore attento di storie ampiamente in circolazione, delle quali intende irrobustire la forza persuasiva.

    Su questo punto la Chiesa ha insegnato tutt'altro; e per rendere più palpabile la relazione con l'Aldilà è arrivata al punto di raccontare, qualche tempo dopo, che a Roma era precipitata dal cielo una lettera di Gesù. L'idea dell'Epistola celestiale, assai diffusa nell'antichità, fu una vera e propria manna per l'attività falsaria successiva.

    Per l'intera cristianità primitiva fino a tutto il II secolo la validità delle scritture poi accolte nel Canone neotestamentario si fondava semplicemente sull'uso che se ne faceva nel culto: in un primo momento venivano lette a scopi edificanti solo occasionalmente, per poi assumere un rilievo rituale regolarmente rispettato. Il loro numero non era concluso: nuovi scritti potevano aggiungersi e in effetti si aggiunsero.

    Le comunità, cui si rivolgeva Paolo, non consideravano le sue Epistole come rivelazioni divine, destinate alla posterità, ma le leggevano come lettere private (e in realtà tali potevano essere valutate). La loro scomparsa era considerata dai cristiani tanto poco rilevante, che in un secondo tempo non fecero altro che sostituire con dei falsi quelle mancanti. Soltanto quando sentirono la mancanza di Sacre Scritture proprie, le Epistole paoline assunsero un carattere canonico, come oggi viene ammesso anche da parte cattolica.

    Anche la perdita degli originali di molti Vangeli testimonia la scarsa rilevanza iniziale di questi libri; benché scritti su papiro - solo a partire dal III secolo si cominciò ad usare la pergamena - avrebbero dovuto assolutamente essere conservati.

    A questo proposito appare doveroso menzionare il comportamento di Marcione, il quale nella prima metà del II secolo riconosceva solo un Vangelo, cosa che sarebbe stata impossibile se i Vangeli avessero posseduto un'autorità divina. Per lui non era canonico nemmeno il Vangelo di Luca, al quale aveva dedicato un'opera di rielaborazione del testo, proseguita poi dai suoi discepoli. Allo stesso modo il Vescovo Papias, ortodosso, attivo intorno al 140, non riteneva che i Vangeli fossero Scritture sacre, concedendo la sua preferenza alla tradizione orale.

    Per i cristiani, dunque, i Vangeli non furono «intoccabili» ancora alla fine del II secolo, come attesta l'attività del siriano Taziano, discepolo di San Giustino, che aveva a lungo dimorato in occidente e anche a Roma, il quale, fondendo i quattro Vangeli tradizionali, costruì un Vangelo unico, una cosiddetta «armonizzazione dei Vangeli» definita Diatessaron (termine musicale che significa approssimativamente «quadruplice accordo», dalla quale si limitò a escludere tutti i parallelismi e le contraddizioni dei modelli 4. Quest'opera di grande rilievo vide la luce intorno al 170, prima che Taziano si allontanasse dalla Chiesa, e insieme con gli Atti degli Apostoli e le Epistole paoline restò in uso profondamente rispettata nella Chiesa siriaca fino al V secolo. La cristianità di Siria in un primo momento conobbe il Vangelo esclusivamente in questa forma, e per questa ragione riteneva suo fondatore proprio Taziano col suo Diatessaron.

    I quattro Vangeli, invece 5, gli esclusi, per secoli godettero in Siria di scarsa considerazione, mentre fu considerata canonica una III Epistola ai Corinzi, un falso costruito intorno al 180 da un prete cattolico d'Asia Minore. «Eretici» che non accettarono tale falsificazione come Scrittura Sacra vennero severamente censurati da S. Efrem. [Lo Heliand, la versione sassone antica del Vangelo risalente al IX secolo, che trasformò le narrazioni evangeliche in epos eroico, Gesù in un re popolare, i pastori in stallieri, le Nozze di Cana in una gozzoviglia sassone, altro non è se non una traduzione libera della versione latina del Diatessaron di Taziano].

    Subito dopo Taziano, anche il Vescovo Teofilo di Antiochia compose una Concordanza dei Vangeli (Hieron. ep. 121, 6 ad Algasiam). Altri Vangeli protocristiani, fra i quali è lecito annoverare anche l'opera di Luca, lasciano trapelare l'intento di sostituire gli Evangeli esistenti con tali Concordanze, allo scopo di evitare doppioni, discordanze letterali ed evidenti contraddizioni. Anche nei secoli XVI, XVII e XVIII, allorché le antinomie erano ormai divenute del tutto evidenti, furono composte Concordanze analoghe, né mancano nemmeno ai giorni nostri 6.

    Nel 1537 il teologo Andreas Osiander pubblicò un'opera particolarmente interessante, nella quale mise insieme i quattro Vangeli senza tralasciare o aggiungere alcuna parola e senza modificare l'ordine dei fatti. La loro inconciliabilità apparve del tutto evidente e allora si cercò di spiegare la diversità dei testi o delle azioni di Gesù con l'ipotesi ch'egli avesse tenuto o compiuto più di una volta rispettivamente i medesimi discorsi e le stesse azioni. Si ipotizzò, per esempio, che la cacciata dei mercanti dal Tempio fosse avvenuta tre volte: la prima all'inizio dell'attività pubblica di Gesù, come afferma il Vangelo giovanneo, la seconda il giorno del suo ingresso in Gerusalemme, come raccontano Matteo e Luca, e la terza il giorno dopo, come si legge in Marco. Ma ancora nel nostro secolo la Commissione Pontificia per gli Studi Biblici ha decretato la totale assenza di errori nella Scrittura, persino intorno a eventi «profani».


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    Note

    1 Eusebio, h.c. 7, 25, 1 sgg. Per la storia del Canone neotestamentario nel Medioevo e in età moderna vedi Leipoldt, Geschichte des neutestamentlichen Kanons, II, 1908. Cfr. inoltre Idem, ibidem, 1, 88 sgg.; 95 sgg; 243 sgg. Heiler, Urkirche u. Ostkirche, 99 e 538. Knopf, Einführung, 162 sgg.; Hennecke, 25 sgg. Nigg, Das ewige Reich, 71 sg. Goodspeed, A history of early Christian literature, 11; 15 sg.
    2 2 Cor., 3, 14: Antica Alleanza.
    3 Apc. 1, 3; 1, 10; 1, 19; 22, 18 sg. In proposito, Feine-Behm, 296 e 277. Leipoldt, Geschichte des neutestamentlichen Kanons, I, 108 sgg. Jülicher, 455 sg.
    4 Euseb., h.e. 4, 29, 6. In proposito Hennecke, 72 sgg. Leipoldt, Geschichte des neutestamentlichen Kanons, 1, 165 sgg.
    5 Eusieb.,h.e. 4, 29, 6. In proposito Hennecke, 72 sgg. Leipoldt, Geschichte des neutestamentlichen Kanons, 1, 165 sgg.
    6 R. Friedländer-Prechtl. Si ponga attenzione poi alla postfazione.

    http://www.homolaicus.com/storia/antica/deschner/appendice1.htm




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    00 21/12/2011 13:48
    Questo studio più che scientifico mi sembra ideologico. [SM=g27812]



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