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Ogni mattina, quando ci rechiamo all’edicola a comprare il giornale, si verifica un piccolo miracolo: in cambio di un pezzo di carta o di dischetti metallici di dubbio gusto l’edicolante ci consegna un giornale fresco di stampa. Che cosa fa in modo che i soldi abbiano valore e che li possiamo usare per comprare (quasi) qualsiasi cosa?

Una volta il valore dei soldi era legato all’oro: le banconote avevano un corrispettivo in oro e in teoria potevano essere “cambiate” con un quantitativo di quel metallo. Ci si può ovviamente chiedere che cosa ci facesse anche allora la gente con l’oro, ma ad ogni modo questa visione è ampiamente superata e le monete a corso legale non hanno più un corrispettivo in oro (1). Che cosa dà loro valore, allora? Secondo la teoria fondata dall’economista tedesco Georg Friedrich Knapp nel 1895 (“cartalismo”), a dare valore al denaro a corso legale sono le tasse.



Le tasse

Le tasse si devono pagare con moneta a corso legale, ed in questo modo se ne genera la domanda. Naturalmente, poi, sarà comodo usare questa moneta anche per ogni altra transazione, e la sua circolazione diventerà universale.

Secondo il cartalismo, la cui “versione moderna” ha nome MMT (Modern Monetary Theory) ed ha in Italia alcuni fautori molto aggressivi (2), la moneta è una “creatura dello Stato” e quindi uno Stato può spendere per i suoi fini senza bisogno di avere entrate corrispondenti. La spesa pubblica orientata all’aumento della produzione, sempre secondo i seguaci di questa teoria (tra cui James Kenneth Galbraith), permette allo Stato di fare deficit di bilancio, quasi senza limiti, senza un apprezzabile pericolo di inflazione sin quando non si arriva al pieno impiego. L’idea di base è che se la disponibilità di denaro aumenta nella stessa misura in cui aumenta la ricchezza della nazione, la moneta non si deprezza.



Poste e ferrovie

Troppo bello? Ovviamente ci sono delle controindicazioni, altrimenti non ci troveremmo nell’attuale situazione di crisi. Il problema è che quando lo Stato vuole “creare” dei posti di lavoro spesso crea soltanto del lavoro inutile. In Italia in qualche modo si è già realizzata questa politica negli anni sessanta - settanta, assumendo lavoratori non necessari in ambiente statale o parastatale. Le Ferrovie dello Stato ne sono state un esempio: il numero di addetti era enormemente maggiore di quanto sarebbe stato necessario. L’obbiettivo delle Ferrovie non era trasportare merci e persone, ma dare lavoro al maggior numero possibile di persone. Lo stesso discorso si potrebbe fare per le Poste Italiane, per molte altre aziende parastatali, per le strutture centrali di molti ministeri. Se si aumenta il denaro a disposizione senza aumentare la ricchezza sottostante, inevitabilmente si genera inflazione, non a caso arrivata a superare il 20% alla fine degli anni settanta.



Il debito pubblico

Secondo la MMT, poiché uno Stato può emettere moneta per le sue necessità, non avrebbe bisogno di chiedere denaro a prestito. In effetti, è improprio dire che si stia “prestando” denaro allo Stato quando si acquista un titolo pubblico: lo Stato potrebbe stampare il denaro. L’acquisto di un titolo di Stato può essere visto in modo del tutto equivalente come un impegno a non utilizzare quel denaro fino alla scadenza del titolo. L’emissione di titoli pubblici serve a diminuire la quantità di denaro in circolazione e quindi a controllare l’inflazione.

Il sistema dei titoli di Stato, peraltro, è una gigantesca fortuna per chi ha dei soldi da parte, che aumentano a svantaggio di tutti gli altri. L’enorme debito pubblico italiano è dovuto in buona parte agli interessi composti. Ci sono ancora in circolazione titoli trentennali emessi nel 1993 che fruttano il 9% di interesse lordo annuo (approssimativamente l’8% netto). L’inflazione cumulata dal 1993 è del 56% (per comprare quanto si comprava nel 1993 con 100 lire adesso ne servono 156 – nella nuova moneta circa 80€). Reinvestendo ogni volta gli interessi, 100 lire investite nel 1993 in questo titolo si sono trasformate in 466; il capitale si è triplicato al netto dell’inflazione (il calcolo è approssimato perché gli acquisti successivi devono essere fatti alla quotazione del momento, ma dà un’idea di massima).

Da dove arrivano tutti questi soldi? Da tutti gli italiani, che lavorano per pagare le tasse. Se per le esigenze del bilancio statale anziché emettere moneta si emettono titoli di Stato si dovrebbe usare estrema cautela, in particolare in caso di titoli a lunga scadenza. Oggi invece questo viene fatto in modo molto disinvolto, addirittura considerando una fatto positivo l’acquisto di titoli da parte di stranieri – il che implica che i soldi degli interessi non resteranno in Italia ma andranno all’estero.



I pagamenti dello Stato

Nel momento in cui scrivo (agosto 2013) un argomento molto sentito in Italia è il mancato pagamento da parte dello Stato dei suoi enormi debiti ai propri fornitori, valutati in 95 miliardi di euro (3). A causa di questi mancati pagamenti molte aziende sono fallite, o hanno dovuto chiedere soldi alle banche – che quindi, incidentalmente, ci guadagnano da questa situazione.

Un privato può non avere soldi e non riuscire a pagare i suoi debiti, ma come è possibile che uno Stato, che può stampare i soldi, non paghi quanto dovuto? Come può trincerarsi dietro il “non ci sono soldi”, se li può creare lui stesso? Se lo fa, ovviamente, è perché vuole controllare la quantità di soldi in circolazione per evitare l’inflazione, ma questo controllo dovrebbe essere fatto prima, all’atto della richiesta di beni o servizi.



Alberto Viotto
novembre 2013


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Vivo fra lo Stato Sovrano della Fica e la Repubblica Popolare del Cazzo