00 18/10/2014 20:10

di Giuseppe Panissidi

Sembra trascorso qualche anno appena dal 1764, or sono due secoli e mezzo esatti, dalla pubblicazione di un’opera capitale del pensiero moderno: “Dei delitti e delle pene”, di Cesare Beccaria. Sorgeva, esito maturo di un lungo cammino, una nuova Civiltà giuridica, a più conforme misura dell’umano, fonte e segno dei più significativi e ri-fondanti progressi della tradizione culturale e civile dell’Occidente.

L’umanità apprendeva verità pressoché insospettate, ovvero che il “fine” della sanzione penale non è quello di affliggere o di “remunerare”,

occhio per occhio, dente per dente. Il fine precipuo della pena è, invece, quello di impedire ai colpevoli di compiere ulteriori delitti, nel contempo inibendo ai non colpevoli di commetterne a loro volta. Le pene, dunque, debbono essere sempre commisurate ai delitti, secondo un criterio rigoroso di “proporzionalità”, se anche approssimativa, in ragione del danno subito dalla collettività, del vantaggio che comporta la commissione di quello specifico reato e della tendenza generale dei cittadini a consumare devianze della medesima specie. La punizione, insomma, “violenza” dello Stato, dev’essere “la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a' delitti, dettata dalle leggi", e pertanto non deve mai risolversi in un fine a sé stessa, ma deve realizzare finalità essenzialmente “pubbliche”. Quale “extrema ratio”, si deve ricorrere ad essa solo quando manchino strumenti idonei di controllo sociale, e “politico”, possiamo tranquillamente aggiungere, alla (fosca) luce di un degrado nazionale che sembra (sembra) irreversibile.

A tale scopo, va da sé, appaiono indispensabili forme organizzate, su base istituzionale, di “prevenzione indiretta”, imperniata sull’istruzione pubblica, non solo scolastica, l’ordinato assetto di una magistratura indipendente e, certamente, anche il “diritto premiale”. Senza, tuttavia, trascurare l’ambito cruciale delle riforme economico-sociali, pre-condizioni del miglioramento delle condizioni di vita delle classi sociali disagiate e, non di rado, oppresse da ineguaglianze intollerabili, non giustificabili neppure in termini economico-sociali, oltre che morali. Presupposti, questi, indefettibili, per evitare di “assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti, argomenta Beccaria, mentre stigmatizza la “lusinga dell’impunità” per ogni “danno fatto alla nazione”, a tutela e presidio della quale, appunto, è posta la pena.

Questo ampio ma essenziale preambolo ci conduce direttamente allo scopo della presente riflessione.

Sono state appena depositate le motivazioni della recente assoluzione di un ex premier, imputato nel caso Ruby in ordine ai delitti di concussione costrittiva e prostituzione minorile. Orbene, non giova precisare che “la minima pena possibile”, indicata come “giusta”, anzi criterio di giustizia, da Beccaria, non equivale all’”assoluzione” del reo, com’è facilmente intellegibile anche nella scuola materna.

Ci sorprende, assai poco ammirati, la confusione dilagante in queste ore su e tra importanti organi d’informazione. L’imputato di quel processo doveva rispondere del delitto di “concussione a carattere costrittivo”, in ordine al quale era stato incriminato dal pubblico ministero, posto in stato d’accusa dal giudice preliminare e condannato in primo grado dal tribunale. Non è mai stata in discussione una diversa interpretazione della sua condotta antigiuridica, ad esempio rientrante nella previsione della legge Severino, dal momento che la prima condanna, pur successiva a quella legge, non ne discende in alcun modo. E sul punto il giudice dell’impugnazione mostra di non avere alcun dubbio: non è formulabile un’ipotesi di “induzione”, vale a dire persuasione, di penale rilievo, ad opera dell’imputato nei confronti del funzionario della questura di Milano. La sola ipotesi plausibile consiste nella “costrizione”. Che però non sussisterebbe, rimanendo, appunto, una semplice congettura, non suffragata da elementi sicuramente probatori. E’ giocoforza osservare quanto segue.

Se la Corte riteneva che l’imputato non ha costretto nessuno a compiere alcunché, ma si è limitato a svolgere un’attività persuasiva, a rigore di ordinaria logica giuridica l’imputazione avrebbe dovuto comunque essere derubricata al reato di “induzione”, di cui alla Severino. Quindi, in assenza di un elemento costitutivo del reato, il vantaggio ossia del funzionario, l’assoluzione avrebbe dovuto pronunciarsi con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.

In alternativa, l’imputato avrebbe dovuto essere sanzionato in ordine al delitto di “abuso d’ufficio”, ampiamente e testualmente emergente dalle stesse motivazioni, posto che, secondo dottrina e giurisprudenza convergenti e costanti, può sempre essere comminata una condanna per un reato diverso da quello contestato in origine e per cui è processo, alla sola e ovvia condizione che non vi sia un “immutatio”, o mutamento, del “fatto” contestato all’imputato. Di più. Nel caso di un “fatto” diversamente configurato, si può comunque procedere, previa contestazione del medesimo all’imputato e alla sua difesa, anche in sede dibattimentale. Fin qui l’ordinamento dello Stato di diritto, in uno dei suoi assi strategici portanti: la giurisdizione penale.

E tuttavia, il profilo che maggiormente sgomenta, concerne la linea logico-argomentativa assunta ed esposta con mirabile chiarezza dal giudice del gravame.

Nessuna costrizione. Infatti, nessuna pistola fu puntata alla tempia di nessuno. Se non ché, questa illuminata – e illuminante – Corte di giustizia si diffonde in un’inquietante descrizione del funzionario della questura, il quale, di fronte a un tranquillo tentativo di “persuasione”, sia pure senza tornaconto personale, scivola, prostrato, in una tipica sindrome da agitazione psicomotoria. Ora, delle due, l’una. Se la sua “libertà di autodeterminazione” era intatta, non si comprende la ragione del crollo emozionale, icasticamente descritto a tinte accese dal giudice estensore delle motivazioni. Se, viceversa, come la descrizione del suo “status” dimostra, quella libertà era intaccata e sospesa, allora ne consegue che egli versava in stato di “concussione”.

Un concusso senza concussore? Singolare, davvero. Si obietta che non era stato formalmente “intimidito”. Più che giusto, ma soltanto qualora per “intimidazione” riduttivamente si intenda una minaccia esplicita e affini, per dirla con Totò, fino alla mano armata e alla “violenza privata”, oppure fisica. Se, invece, con il lemma “intimidazione” ragionevolmente significhiamo anche, se non in primis, l’esercizio abusivo di un potere potentissimo in capo all’imputato, tale da suscitare quel “metus publicae potestatis”, o soggezione di fronte al potere pubblico (dello Stato), quell’esercizio abusivo di per sé palesemente attesta una “mens concussiva”. E’, dunque, patente che di concussione costrittiva si tratta.

Ciò è tanto vero che, opportunamente, nessun provvedimento è stato mai adottato nei confronti del funzionario, pubblico ufficiale soggetto al codice di disciplina e ai doveri di “disciplina e onore”, sanciti dall’art. 54 della Costituzione. Invero, quel potere abusato dal soggetto attivo del reato, il secondo potere dello Stato, non ha bisogno di minacciare, né di digrignare i denti, e non ha bisogno neanche di “prospettare danni”. Men che mai di persuadere, come usa tra passanti o tra pari. Chiede e, a scanso di equivoci, interloquisce in prima persona, il potere nella voce, nel nome, nell’identità. Poteri notoriamente adusi ad avanzare cortesi “proposte che non si possono rifiutare”, senza esplicite minacce.

A questa medesima conclusione, peraltro e paradossalmente, perviene il giudice de quo, nel momento in cui (seraficamente) rileva che l’imputato non aveva necessità di utilizzare lo “strumento” esplicito della minaccia. Quod demonstrandum.

Con tutta evidenza, la Corte d’Appello di Milano non è nata ieri, per cominciare a camminare oggi. Se ci è permesso, vorremmo invitare quell’alto consesso di giustizia a interrogarsi sul significato della recentissima dichiarazione dell’imputato che evocava, una volta di più, “l’uso politico della giustizia”. Con l’intenso auspicio che l’uomo non intendesse riferirsi al processo in argomento, dal quale esce (provvisoriamente) assolto nel dispositivo, ma condannato nelle motivazioni. Un individuo riconosciuto responsabile di tutto, ad eccezione delle… imputazioni. Un individuo comodamente ignaro dell’età di fanciulle compiacenti, fino alla manzoniana “notte degli imbrogli e dei sotterfugi”, quando casualmente l’apprende. E prima? Non è provato che la conoscesse. Rectius: nulla “è provato” di ciò che poteva/doveva determinare la conferma della condanna.

Sublimi alchimie.

Peccati, una certa stampa farnetica, non reati. Il nostro Beccaria già metteva in guardia dalla pericolosa confusione tra reati e peccati, poiché gli uomini non possono “punire quanto Iddio perdona, e perdonare quanto Iddio punisce. Epperò, stigmatizzava con ancora maggior vigore il tentativo subdolo e mistificatorio di gabellare le violazioni della legge penale per “malizie del cuore”, peccati, per l’appunto.

Stranezze. Anche perché si tratta dell’ex premier di Arcore, il medesimo soggetto che lanciava ameni epiteti di “mafiosità” contro altri magistrati, nelle stesse ore in cui questi gli concedevano l’affidamento in prova ai servizi sociali. Magistrati immemori, evidentemente, del presupposto minimale necessario per una misura alternativa al carcere: (almeno) un incipit di “ravvedimento”. Niente male, come “ravvedimento. Con il pregio della “contestualità”, in aggiunta a valanghe di raggelanti invettive pregresse.

Onore, tuttavia, al Presidente del collegio giudicante dell’impugnazione. Dopo avere (doverosamente) firmato la sentenza, si è clamorosamente congedato dalla magistratura, enfin. E suona come la più implacabile delle condanne, per quanto a posteriori. Non soltanto nei confronti dell’imputato. Il Capo dello Stato non ha nulla da dire e da fare a salvaguardia della dignità, indipendenza e autonomia della magistratura, nonché dell’onore dei singoli magistrati? Ivi compresi i martiri della giustizia, ai cui congiunti pure consegna onorificenze. Oppure il garante supremo della Carta, nonché Presidente del CSM, è “immune” anche da questi vincoli, forse perché strettamente “funzionali”?

Questi magistrati d’Appello hanno, però, un merito indiscutibile, che si farebbe male a sottovalutare, dati gli odierni chiari di luna. In modo conclusivo, hanno chiarito al popolo e alla nazione quanto sia grottesca la sola ipotesi che un uomo da “postribolo” assurga al rango di “padre della patria”, ri-fondatore di Stati. Può aspirare ad “altro”, semmai, come (molto) altro il Paese gli ha consentito di raggiungere. Vedi caso, ad ulteriori visite al Nazareno, inteso come luogo meramente fisico e pseudo-politico. Di certo non spirituale, a dispetto dell’indubbia nobiltà della parola. Può aspirare, cioè, a relazioni empatiche con un disperato premier in carica, il quale, in penosa minoranza assoluta nel Paese reale, e con complicità molteplici, ma degne di miglior causa, fa – pretende di fare – delle sue pulsioni di arrembaggio la stella polare di una grande nazione. Appassionatamente insieme, direbbe Platone, “non sanno, neppure loro, chi sono”.

In compenso, di certo sanno di che natura e, soprattutto, contenuto sia il famigerato “patto del Nazareno”, che tanta curiosità continua a suscitare. Siano gentili, non ci costringano a rivolgerci al valoroso Presidente dimissionario della Corte d’Appello di Milano, grande uomo e grande magistrato, “soggetto soltanto alla legge”, secondo impone la Costituzione, specie a quanti giurano su di essa. È nata – memento – dall’antifascismo e dalla Resistenza. Per un popolo libero, che vuole rimanere tale. Governati che si vergognano di governanti che non si vergognano.

(17 ottobre 2014)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/dei-delitti-e-delle-assoluzioni-riflessioni-sullaffaire-ruby/

 





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