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La schiavitù non e’ contro la legge naturale…


Cominciamo con la schiavitù, una infamia che, secondo un luogo comune piuttosto diffuso, sarebbe stata eliminata grazie all’avvento del cristianesimo. Ora, ciò non è affatto vero.

La schiavitù scomparve gradatamente nel Medioevo, anche se mai del tutto, venendo sostituita dalla servitù della gleba, per ragioni economiche e sociali che poco hanno a che vedere con la diffusione della nuova religione. La Chiesa per parte sua, oltre a ritenere normale lo sfruttamento dei servi della gleba, e il loro asservimento ai feudatari laici ed ecclesiastici, giustificò l’uso degli schiavi.

L’affermazione di Paolo nella Lettera ai Galati, secondo cui “non vi è più giudeo né greco, né schiavo né libero”(7), di solito citata a riprova di quell’uguaglianza fra gli uomini che sarebbe stata predicata dal cristianesimo, riguarda, come al solito, l’altra vita. In questa, raccomanda Paolo nella Prima Lettera a Timoteo, “quanti sono sotto il giogo schiavi, d’ogni onore stimino degni i propri padroni… E quelli che hanno i padroni credenti, non li disprezzino, per il motivo che sono fratelli, ma piuttosto li servano bene” (8).

Anche il vescovo Ignazio, all’inizio del II secolo, avvertiva che gli schiavi convertiti al cristianesimo “non devono insuperbire, bensì compiere ancor più diligentemente il proprio lavoro di schiavi in onore di Dio” (9).

Nemmeno i dottori della Chiesa del IV e V secolo che pure, come vedremo, avevano una posizione “avanzata” in tema di proprietà privata, misero in discussione la schiavitù, definita da Sant’Ambrogio “un dono di Dio”.

E Sant’Agostino, scrive lo storico tedesco Karlheinz Deschner nella brillante opera polemica Il gallo cantò ancora. Storia critica della Chiesa, “si attiene tanto più saldamente a questa istituzione, che ritiene fondata sulla naturale ineguaglianza degli uomini. Da un lato può consolare gli schiavi, definendo come voluto da Dio il loro destino, dall’altro far presente ai padroni l’utilità terrena che deriva loro dall’influenza ecclesiastica sugli schiavi!” (10). E quando gli schiavi cristiani chiedono l’emancipazione, Agostino li richiama bruscamente all’ordine…

Anche san Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, possedeva gli schiavi e accettava la schiavitù avvertendo che “tutti siamo uguali per natura… ma un’incomprensibile distribuzione pospone alcuni ad altri a seconda che variano i meriti” (11).

Il massimo cui si spinse fu, come scrive nella sua Storia del Cristianesimo Ernesto Buonaiuti, che pure guarda con simpatia a questo papa, di temperare “la condizione degli schiavi, avvicinandoli a quella dei servi della gleba” (12). Il che implicitamente sottolinea quanto ampiamente dimostrano tutta la storia del Medioevo e dei movimenti ereticali sorti per invocare la “riforma” della Chiesa e cioè che l’inumano sfruttamento dei servi della gleba era normalmente praticato e ritenuto giusto anche dai papi più riformatori.

Ancora nel XIII secolo poi San Tommaso, la cui filosofia è stata dichiarata dalla Chiesa verità “perenne”, giustificava il mantenimento della schiavitù.



Collocava altresì i salariati “fra i miseri e la gente sozza” e sosteneva che a nessuno è lecito andare oltre la propria condizione (13).

Nel XVI secolo la posizione della Chiesa si modificò in quanto si tese a vietare la riduzione in schiavitù dei cristiani, ad esempio degli indios convertiti forzosamente e che era comunque lecito adibire ai lavori forzati … Ma la schiavitù non fu condannata. Papa Nicolò V invitò a fare schiavi i musulmani, che erano “infedeli”, e con gli stessi argomenti fu poco dopo legittimata la tratta dei neri dall’Africa anche da fra Bartolomé de Las Casas, che pure scrisse un’appassionata denuncia del genocidio consumato dagli spagnoli a danno degli indios.

La Chiesa cattolica non fu dunque la prima a bandire la schiavitù. In compenso fu l’ultima. Il 20 giugno 1866, quando ormai le idee illuministe e i nuovi sviluppi del capitalismo avevano portato a vietare la tratta e la guerra di secessione aveva abolito la schiavitù anche negli Stati Uniti, papa Pio IX scriveva nella sue Istruzioni: “La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Possono esserci molti giusti diritti alla schiavitù e sia i teologi che i commentatori dei canoni sacri vi hanno fatto riferimento....



Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato." (14)







… L’abolizione della proprietà privata, invece, sì


Wojtyla, nella sua autocritica, non si è autocriticato perché la Chiesa ha insegnato per secoli secoli in materia di schiavitù quello che, almeno dal Concilio Vaticano II, è reputato falso. Ha anzi beatificato Pio IX, sostenitore di questa dottrina oltre che fautore, come vedremo nella seconda parte, della pena di morte. In compenso, riprendendo la lezione Leone XIII, ha giudicato contraria “alla legge naturale e divina” (15) l’abolizione della proprietà privata, ossia di quella proprietà che alcuni possono avere solo a patto che la maggioranza ne sia priva.

Nei primi secoli molti padri della Chiesa ritenevano doversi predicare l’eguaglianza fra gli uomini e conseguentemente la condivisione della proprietà e delle ricchezze. “Chi ama il suo prossimo come se stesso”, dichiarava Basilio, “non possiede più del suo prossimo” (16). “Nella suddivisione della ricchezza terrena”, diceva Gregorio da Nissa, “uno che si appropria di una quantità più grande danneggia quelli con i quali deve dividere” (17). “Il ricco o è ingiusto o è erede di un ingiusto” (18), secondo Gerolamo.

E Giovanni Crisostomo sosteneva l’esatto contrario di quanto affermò più tardi la Chiesa e cioè che “la comunanza dei beni è per la nostra vita la forma più adeguata che non la proprietà privata, ed è conforme a natura” (19).

Ma già nel V secolo, osserva Deschner nel libro che abbiamo citato, “i papi erano i più grandi latifondisti dell’Impero romano” (20).

Con papa Gregorio Magno (fine VI secolo) la Chiesa era ormai una grande potenza politica ed economica. Di qui la difesa strenua della proprietà, che allora era soprattutto la proprietà terriera, e quindi il diritto a sfruttare i servi della gleba, anche contro quanti periodicamente chiedevano il “ritorno” alla povertà evangelica. Per quanto si sa, solo un papa, Pasquale II, all’inizio del XII secolo, dichiarò che la Chiesa doveva rinunciare alle sue ricchezze e al suo potere. Ma ciò sollevò una protesta così violenta della curia che il papa dovette fare una precipitosa marcia indietro. Pasquale II dichiarò... che aveva scherzato, cioè che le ricchezze e il potere sono necessarie alla Chiesa per perseguire i suoi scopi “spirituali”. E tale è la posizione che la Chiesa ha mantenuto fino ad oggi.

Solo alla fine dell’Ottocento, di fronte al diffondersi delle idee socialiste, Leone XIII ritenne necessario affrontare la “questione sociale”, nel tentativo di conciliare alcune concessioni agli “operai” intese a neutralizzare l’influenza delle idee marxiste, con la difesa della proprietà privata - che ricevette proprio allora sanzione ufficiale. “Questo conte Pecci”, scrive polemicamente Deschner nel testo già citato, “fu tutt’altro che amico della piccola gente: proprio nella enciclica su citata [la Rerum Novarum] ribadisce: ‘Prima di tutto, dunque, è necessario partire dall’ordine dato e immodificabile delle cose, per cui nella società civile non è affatto possibile l’equiparazione di alto e basso, di povero e ricco’ “ (21).

Si delineò così la “dottrina sociale” della Chiesa, terza via fra liberismo e socialismo, riproposta da Giovanni Paolo II con la Centesimus annus (1991) e che condanna come lesiva della persona umana l’abolizione della proprietà privata.









Ateismo e faccia tosta


La Centesimus annus ci dà anche due significativi esempi della malafede papale. Il primo è costituito dalla definizione di “proprietà privata”. Wojtyla, sulla scia di Leone XIII, definisce la proprietà privata “il diritto di possedere le cose necessarie per lo sviluppo personale e della propria famiglia”(22): ma il papa sa bene che non è questa la proprietà privata che i socialisti intendono abolire, bensì quella dei mezzi di produzione, che rendono possibile acquistare e sfruttare il lavoro di chi è privo di ogni proprietà.

Così Wojtyla difende come diritto naturale il sistema capitalistico e il possesso di terre e fabbriche, contrabbandandolo come possesso delle “cose necessarie al proprio sviluppo personale e della propria famiglia”.

Con ancora più olimpica faccia tosta Giovanni Paolo II ci spiega che l’errata concezione della società professata dai socialisti discende dal loro ateismo, a sua volta “strettamente connesso col razionalismo illuministico” poiché “la negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e di conseguenza induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità della persona” (23). Come a dire che invece nel Medioevo o nella Spagna dell’Inquisizione, fondate sull’affermazione di Dio, esisteva un ordine sociale che esaltava la dignità della persona...

L’arrogante smemoratezza dei crimini commessi dalla Chiesa in nome di Dio non in qualche sporadico caso ma per quindici-sedici secoli, caratterizza anche Joseph Ratzinger, il quale alla vigilia di diventare papa esortava a comportarsi come se Dio esistesse “anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio” (24) (si noti per incidens l’arrogante sicumera di questa definizione degli atei: come se noi definissimo i credenti “quanti non arrivano a capire che Dio non c’è”).

Della stessa qualità l’affermazione con cui Wojtyla chiude l’enciclica: “Lotta di classe in senso marxista e militarismo hanno le stesse radici: l’ateismo e il disprezzo della persona umana” (25).

Il papa naturalmente non dice quali siano le radici delle crociate, delle sanguinose guerre di religione, dell’evangelizzazione forzata degli indios, tutte cose ispirate alla fede in Dio e piene di rispetto per la “trascendente dignità della persona umana”...





[Modificato da kelly70 06/06/2007 15.03]




La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
Apocalisse Laica
Le religioni dividono. L'ateismo unisce


Il sonno della ragione genera mostri (Goya)