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Parte III

La morale sessuofobica del cattolicesimo e il suo disprezzo per la donna sono vistose espressioni di quella negazione dei valori umani insita, come si è visto anche nelle precedenti sezioni, in molte dottrine della Chiesa e che rende del tutto infondata la sua pretesa di porsi come “guida”e punto di riferimento morale per tutta la società.



Nel giugno 2005, alla vigilia del referendum sulla procreazione assistita, il cardinal Ruini affermò che “la fede cristiana non è affatto ostile al corpo e alla sessualità, ma al contrario ci aiuta a scoprire pienamente il loro genuino valore" (1).

Al pari di altre affermazioni, tese a presentare il cristianesimo come religione degli oppressi, della giustizia sociale o della vita, si tratta di una grossolana bugia.







Una morale sessuofobica


Il cristianesimo si fonda sull’idea di un uomo “decaduto” per effetto del peccato originale (2) e tale decadenza si manifesta, secondo la Chiesa, soprattutto nei “disordinati” desideri del corpo e nel piacere, in primis quello sessuale, che il cristiano deve rifuggire e reprimere per elevarsi a Dio. Tale sessuofobia, estranea agli insegnamenti di Cristo, s’impose presto nella Chiesa e divenne tipica della dottrina cattolica, come dimostrano puntualmente sia un critico assai aspro del cristianesimo quale il tedesco Karlheinz Deschner, sia la teologa cattolica tedesca Uta Ranke-Heinemann, la prima donna abilitata dalla chiesa a insegnare teologia nelle università ma anche la prima ad esserne allontanata per aver negato il concepimento verginale di Maria.

Per il Deschner la sessuofobia cattolica risale a Paolo da Tarso le cui lettere “in stridente contrasto col Vangelo, rigurgitano di macerazione della carne, di mortificazione delle passioni e di odio verso tutto ciò che è corporeo. Il sarx, la carne, appare addirittura come ricettacolo del peccato … Il cristiano deve ‘martirizzare il corpo e soggiogarlo’ (Gal. 5,24), ‘appenderlo alla croce’ (Rom. 8,13), ‘ucciderlo’ (Col. 3,5) e così via dicendo” (3).

Per la Heinemann, invece, furono i primi padri della chiesa e in particolare Agostino a unire “l’avversione al piacere e alla sessualità con il cristianesimo facendone un’unità sistematica” (4).

Per Agostino, come per gli altri padri della Chiesa, “impudico” era lo stesso rapporto matrimoniale poiché gli sposati vivono “come bestie” e nel coito gli uomini non si distinguono “in nulla dai porci e dagli animali irragionevoli” (5).

Del resto, con buona pace di Ruini, il disprezzo del corpo, del piacere e dello stesso matrimonio, visti come sinonimi di “impurità”, sono fra i motivi con cui papa Innocenzo II, nel sinodo di Clermont del 1130, giustificava il celibato dei preti affermando: “Poiché i sacerdoti devono essere tempio di Dio, vasi del signore e santuari dello Spirito santo […], è contrario alla loro dignità che essi giacciano nel talamo nuziale e vivano nell’impurità” (6).







L’elogio della castità…


Il rapporto sessuale quindi in tanto fu tollerato dalla Chiesa in quanto finalizzato alla procreazione, secondo la massima popolare “non lo fo per piacer mio, ma per dar dei figli a Dio”. Di qui l’obbligo per i cristiani di mortificare la carne anche nel matrimonio, praticando il più possibile la continenza, e di qui l’esaltazione della castità come condizione preferibile per il cristiano. Per Agostino “la castità di chi non è sposato è migliore di quella degli sposati” e una madre “otterrà in cielo un posto inferiore a quello della figlia vergine” (7).

In questo modo, per un verso, il cristianesimo assolve al ruolo proprio della religione di inculcare nei fedeli l’idea della vita terrena come “valle di lacrime” e della sofferenza come offa da pagare al fine di garantirsi la salvezza eterna. Per altro verso pone su un piedistallo il clero che, scegliendo la castità e il celibato, si propone come modello di virtù, capo e guida rispetto ai laici in uno scambio “potere” contro “piacere”.







… E la pratica della castrazione

Anche se l’obbligo del celibato per i preti fu codificato solo piuttosto tardi, e gradualmente, nel Medioevo, il culto della castità alimentò fin dai primi secoli negli asceti e nei teologi cristiani forme estreme di disprezzo del corpo che andavano dall’infibulazione, consistente nel legare un anello o pezzi di ferro al pene, fino alla castrazione.

Persino Origene, il più grande teologo dei primi tre secoli, si evirò e fu per questo elogiato dallo storico ecclesiastico e vescovo Eusebio. La pratica della castrazione fu in seguito coltivata anche per ragioni artistiche, ossia per “sopranizzare” i cantori delle cappelle papali, dove non potevano cantare le donne. “Nella Cappella Sistina”, annota Deschner, “per secoli hanno cantato con giubilo i castrati: fino al 1920! Non meno di trentadue ‘Santi padri’[…] permisero senza scrupoli tale mutilazione” (8).

La Chiesa ha inoltre sottolineato il suo disprezzo per il corpo e per la sessualità facendo santi una sfilza di uomini e donne che si distinsero per le autoflagellazioni e altre umiliazioni fisiche, spesso ripugnanti: da San Luigi, i cui simboli sono il giglio, la croce, la frusta e il teschio, alla salesiana Marguerite Marie Alacoque, vissuta sempre nel Seicento, che “si incise il monogramma di Gesù sul petto… mangiava pane ammuffito, verdura marcia, puliva con la lingua il vomito dei pazienti, e nell’autobiografia ci descrive la felicità provata riempiendosi la bocca delle feci d’un uomo che soffriva di diarrea…

Papa Pio IX la fece santa nel 1864!” (9).







Sublimazione e repressione


Altri risvolti di questa sistematica repressione degli “istinti” furono da un lato forme di misticismo incarnate da sante come Caterina da Siena o Teresa d’Avila, in cui molti studiosi vedono una sublimazione del desiderio sessuale, e dall’altro il dilagare fra il clero e nei conventi della lussuria e della corruzione più sfrenate, spesso ipocritamente tollerate purché nascoste, in modo da non dare “scandalo”.

Dura fu per contro la repressione di quei preti che rifiutavano apertamente il celibato. Contro i sacerdoti che convivevano con una donna, contro quest’ultima e i loro figli “per oltre un millennio furono adoperati i più diversi metodi coattivi: digiuni, multe, destituzione, scomunica, infamia, tortura, penitenza pluriennale o perenne in galera” (10).

Analoga maniacale severità la Chiesa manifestò nel condannare senza eccezione come “peccato mortale”, almeno dal Seicento, ogni atto o pensiero “impuro”, giudicato peggiore del parricidio dal Manuale dei confessori di Jean-Baptiste Bouvier, vescovo e teologo francese del XIX secolo.







O la castità o la vita


Detto Manuale (che è solo uno dei tanti libri simili circolanti ad uso dei confessori) lascia a più riprese intendere che per la Chiesa la “purezza” vale più della vita. Il Manuale, ad esempio, fa proprio quanto prevedeva l’art. 324 del Codice penale francese dell’epoca, secondo cui “nel caso d’adulterio, l’omicidio commesso dallo sposo sulla sposa, come anche sul complice, nel momento in cui egli li sorprende in flagrante delitto nella abitazione coniugale, è scusabile” (11).

Se poi una giovane sta per essere violentata e teme “di poter acconsentire al piacere delle sensazioni veneree, deve gridare, anche con evidente pericolo della propria vita, ed in allora ella sarà una martire della castità”(12).

Tuttavia l’inferiorità della donna, altro “valore” predicato dalla Chiesa per quasi due millenni come vedremo fra poco, mitiga in qualche misura l’offesa.

Di conseguenza il Manuale raccomanda alla fanciulla insidiata “di difendersi con tutte le sue forze” e con ogni mezzo, “in guisa però di non uccidere né di mutilare gravemente l’aggressore, perché la vita e i principali membri del corpo valgono in questo caso più dell’onore” della donna (13). “La vita dell’aggressore vale più dell’onore”, commenta ironicamente Barbara Alberti, “Quella della donna, meno” (14).







Cento modi di peccare


Il testo di Bouvier si dilunga poi a classificare con un certo pruriginoso compiacimento i vari tipi di lussuria, naturale e contro natura (cioè non finalizzata alla procreazione), consumata e non consumata, condannando come sodomia anche il rapporto fra persone di sesso diverso o fra coniugi “quando il commercio carnale avviene all’infuori dell’accoppiamento delle parti genitali, per esempio quando si mettono in opera la parte deretana, la bocca, le mammelle, le gambe, le coscie ecc,” (15) o quando il marito si stende sotto la moglie “capovolgendo così i ruoli naturali’” (16).

In verità, chiosa ironicamente Deschner, è difficile capire “perché l’atto ‘tradizionale’, la moglie sdraiata sul dorso e il marito sopra di lei facies ad facies, debba essere normale, corretto e voluto da Dio” (17).

O è difficile capire il presunto accanimento divino contro la masturbazione, ritenuta da Tommaso d’Aquino (finanche in forma di polluzione involontaria) più grave della fornicazione, punita nei conventi fino all’Ottocento con bastonature e frustate, vietata nel 1929 dal Santo Uffizio anche se usata a fini terapeutici, cioè per poter diagnosticare una malattia, e ancora oggi considerata dalla Chiesa una specie di assassinio in quanto dispersione dello sperma destinato a procreare…

Anche “il gocciolio”, che è “una lenta emissione di seme imperfetto… se avviene volontariamente e copiosamente, o con una notevole commozione degli Spiriti genitali, è peccato mortale, perché implica il pericolo prossimo della polluzione” (18) e così peccano mortalmente “il giovine che fa sedere una ragazza sulle sue ginocchia e la trattiene, o abbracciandola la preme su se stesso” e “le donne che non hanno marito né vogliono né sono in condizione di averlo… se si adornano colla intenzione di ispirare amore negli uomini in quanto che, in codesto caso, sarebbe un amore non tendente al matrimonio, e per ciò necessariamente impuro” (19).







Pena di morte per gli omosessuali


Questa stucchevole casistica, “che con pretesti religiosi e richiamandosi a Dio ha deformato molte coscienze umane” (20), come dice la Heinemann, restando dal più al meno valida ancora oggi, può far sorridere, così come il tempo sprecato da teologi e santi, Alfonso de’ Liguori in primis, nel redigerla. Ma c’è poco da ridere per quanto riguarda l’atteggiamento della Chiesa verso l’omossessualità.

Ritenuta presso vari popoli civilissimi una normale espressione della sessualità, l’omosessualità viene giudicata dalla Chiesa contraria alla ragione in base all’idea curiosa che contrasti con la ragione quanto non combacia con le dottrine via via escogitate dai papi e dai loro entourage.

Fu quindi colpita non solo con la minaccia della pena eterna ma con gravi pene terrene.

Al principio del IV secolo gli omosessuali furono scomunicati dal Sinodo di Elvira, nel 390 i cristiani, appena arrivati al potere, tentarono di sterminarli per legge, nel 693 il Sinodo di Toledo stabilì che dovessero essere esclusi da ogni convivenza sociale, frustati, privati della capigliatura ed esiliati, il Sinodo di Nablus del 1120 decretò la loro condanna al rogo e la bolla papale Cum primum del 1566 impose che tutti gli omosessuali fossero consegnati allo Stato per subire l’esecuzione capitale.

Nei paesi più a lungo influenzati dal cattolicesimo, come la Spagna e il Portogallo, ancora a metà Novecento gli omosessuali potevano essere internati.



Solo in anni recenti, quando si è ridotta negli stati l’influenza del cristianesimo (così sollecito nel tutelare la dignità e la vita della persona, se si dovesse dar credito a quanto raccontano Wojtyla o Ratzinger), gli omosessuali hanno cominciato a vedere riconosciuti i loro diritti, che la Chiesa fa comunque quanto può per limitare o ridurre, come tutti sappiamo.







La Chiesa tira diritto


Ancora oggi, questa morale sessuale ridicola, ossessiva e disattesa da molti cattolici, è rimasta inalterata. Di fronte al crescente disagio e alla protesta che si sono manifestati fra i laici e nel clero stesso, soprattutto negli anni del Concilio Vaticano II, la teologia cattolica è arrivata a riconoscere la possibilità di finalizzare il rapporto sessuale nel matrimonio anche alla ricerca del piacere, purché mai “per se stesso” né “con sfrenatezza”.

Ma niente più. Per il resto i vari pontefici, da Pio XII a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ribadito l’obbligo del celibato per i preti, la condanna dei rapporti extraconiugali o di quelli coniugali non finalizzati alla procreazione, hanno definito “contro natura” ogni ricerca del piacere sessuale per se stesso.

Ancora negli anni Sessanta del Novecento il cardinal Ruffini invitava a seguire “Sant’Agostino, il quale non temeva di affermare che i coniugi cadono nella violenza carnale e nella prostituzione, qualora non vivano cristianamente il matrimonio, separando l’unione matrimoniale dalle sue finalità (cit. da Hampe III 258)” (21), finalità che la Chiesa - del tutto a capocchia e unicamente guidata dal suo odio per una sessualità libera - fa consistere in una forsennata moltiplicazione della specie.







La guerra alla contraccezione


In questo quadro si comprendono campagne di segno opposto come quella contro l’aborto e la procreazione assistita, che dicono di voler salvare milioni di vite “potenziali”; e quella contro i contraccettivi che, impedendo rapporti protetti o una limitazione delle nascite in paesi afflitti dalla fame e dall’Aids, manda a morte milioni di persone “reali”.

Al fondo vi è sempre la condanna del piacere, cioè di rapporti sessuali non subordinati al “dovere” di procreare. Che i papi, mentre ostacolano pianificazione delle nascite e prevenzione dell’Aids, si proclamino difensori della “vita nascente” e che definiscano “delittuose” le fabbriche di contraccettivi mentre autorizzano le fabbriche di armi “purché debitamente regolamentate dai poteri legittimi” (22), è solo l’ennesima conferma dell’insanabile ipocrisia del cattolicesimo.

Questo nonsenso criminale è ben rilevato dalla pur cattolica Heinemann, dove nota: “i figli immaginari vengono protetti dalla contraccezione con molto più vigore di quanto i figli reali, quasi adulti, vengano difesi dall’inferno della guerra e dalla morte sui campi di battaglia, secondo l’intollerabile errata credenza cattolica che i veri crimini dell’umanità si compiono nella camera da letto matrimoniale e non sui teatri di guerra” (23).

Altrettanto ridicolo il tentativo, riproposto da Giovanni Paolo II con la Familiaris consortio del 1981, di distinguere metodi contraccettivi “naturali” (il calcolo dei giorni fecondi) e “artificiali”, invitando i teologi a “cogliere e approfondire la differenza antropologica, e al tempo stesso morale, che esiste fra la contraccezione e il ricorso ai ritmi temporali” (24): “un compito impossibile”, ironizza la Heinemann, “poiché dove non esiste alcuna differenza morale, non se ne può scoprire alcuna.

Effettivamente una differenza c’è, non teologica ma papale: col metodo della scelta dei tempi il papa riesce a costringere per molti giorni i coniugi sotto il pontificio giogo della castità, mentre con gli altri metodi questo non gli riesce” (25).

“Con ciò”, conclude la Heinemann, “non si vuole dire nulla a favore della pillola […] e contro la continenza periodica; nulla a favore del preservativo e contro il coitus interruptus o viceversa: si vuole solo affermare che tutte queste questioni non sono da porre ai teologi e ai papi, ma alla medicina e ai coniugi stessi” senza più sottostare a “un imperativo [papale] che deriva dal disprezzo del matrimonio da parte dei celibatari avversi al piacere e maniaci della verginità” (26).

E, da cattolica, la Heinemann auspica che i cattolici sottraggano “l’amore coniugale dall’ambito voyeristico di una polizia ecclesiastica del letto matrimoniale” (27).







La vita per un battesimo


Analoghe considerazioni credo valgano per l’aborto, contro cui ancor più si accanisce l’intrusiva ingerenza della gerontocrazia celibataria: il che si spiega anche con il misogenismo che la porta a malsopportare l’autogestione del corpo da parte della donna, e la sua emancipazione dal potere maschile. Una spia di tale atteggiamento è data da una delle più odiose norme della morale cattolica, quella secondo cui dovendo scegliere fra la vita del feto e la vita della madre, è quest’ultima che va sacrificata perfino se si tratta di tenere in vita il bambino solo il tempo necessario a battezzarlo. Secondo Agostino infatti i bambini che muoiono senza battesimo sono condannati all’Inferno.

“È un capitolo macabro”, scrive la Heinemann, “quello che riguarda il pericolo di morte per parto, a causa - a volte - dell’omissione di soccorso. Negli ospedali cattolici, fino a tempi recenti, le donne hanno corso questo pericolo e, se venisse osservato l’insegnamento ufficiale della chiesa, lo correrebbero ancora oggi.

Secondo questo insegnamento, infatti, è più importante battezzare in fretta il bambino che sta morendo piuttosto che consentire alla madre di sopravvivere alla morte del figlio senza battezzarlo” (28). “Lo spietato Dio di Agostino,”, continua con sferzante ironia, “il persecutore che danna i neonati che prima della loro morte non hanno fatto in tempo a farsi battezzare, è anche un persecutore e un aguzzino delle loro madri “ (29).

Con altrettanta fermezza la Chiesa, specie dal 1884 e poi con la Casti connubii di Pio XI (1930) e l’Allocuzione alle ostetriche di Pio XII (1951), ha condannato l’aborto anche quando “non si tratta dell’alternativa tra la vita della madre e quella del bambino, ma soltanto: morte di entrambi o sopravvivenza della madre attraverso l’aborto del feto. Il principio in sé giusto del ‘non uccidere’, mitigato e rimosso dalla chiesa quando si tratta della guerra o della pena di morte, viene qui spinto ad absurdum con la morte della madre e del bambino”, scrive la Heinemann e continua rilevando: “Numerosi teologi hanno osservato che casi estremi come quelli su cui Roma si è pronunciata, oggi non potrebbero più verificarsi, grazie ai progressi della medicina […]: ma non per questo le numerose donne che per molti secoli sono state vittime dei teologi torneranno in vita” (30).




La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
Apocalisse Laica
Le religioni dividono. L'ateismo unisce


Il sonno della ragione genera mostri (Goya)