00 16/07/2008 23:44


Da una parte i mafiosi devoti, che leggono la Bibbia, pregano nelle loro cappelle private, distribuiscono 'santini' e ostentano una religiosità mistica, condita di formule e rituali paganeggianti. Dall'altra, una Chiesa che stenta a produrre una riflessione approfondita e pienamente condivisa sul fenomeno mafioso. E che, anzi, quando é chiamata a misurarsi su un progetto di nuova evangelizzazione per lanciare una pastorale antimafiosa, preferisce trincerarsi dietro la contrapposizione tra giustizia divina e giustizia terrena. C'é anche questo nel libro "La mafia devota. Chiesa, Religione, Cosa Nostra" (Laterza, pp. 304 euro 16) di Alessandra Dino, sociologa e docente presso l'Università di Palermo, che da anni studia quel confine grigio che divide la quotidianità mafiosa dalla nostra vita di ogni giorno.

Esplorando quest'area grigia, la Dino ha incontrato i segni diffusi e persistenti nel tempo, di una devozione materiale che col Vangelo non ha nulla a che spartire: le dichiarazioni di fede dei mafiosi che uccidono "in nome di Dio", perché convinti di esercitare giustizia secondo i canoni di una morale falsa e licenziosa; una devozione criminale che si appropria di riti e feste popolari per piegarle agli interessi delle famiglie mafiose, alterandone il senso ed il significato, trasformando il rito del fervore popolare in un rito sacrilego, svuotato di ogni genuino trasporto di fede; e, infine, il tentativo mafioso di utilizzare la religione come strumento di legittimazione, per meglio esercitare il controllo sul territorio e gestire i conflitti all'interno delle proprie compagini.

Ma c'é dell'altro, nel libro della Dino, che si legge quasi fosse un romanzo; c'é una chiesa divisa e incerta, dalle molte anime e dalle molte storie. Una Chiesa la cui predicazione sul territorio è spesso compatibile - o, quanto meno, non in contraddizione - con il modello di religiosità fatto proprio dagli stessi mafiosi: una religiosità intimistica, individualistica, priva di attenzione per le ricadute sociali delle proprie azioni: che privilegia l'errante, piuttosto che curarsi degli effetti dei suoi errori; che confessa e dice messa nei covi dei latitanti, che li sposa e che - talvolta - considera la mafia un "male minore".

E poi - racconta il libro - c'é una Chiesa del rigore e della legalità: quella di Pappalardo, di De Giorgi, di Cataldo Naro, di Giuseppe Pennisi, di padre Puglisi e dei tanti sacerdoti e intellettuali cattolici che negli anni si sono raccolti intorno al progetto di una pastorale antimafiosa intransigente, che denunci esplicitamente l'incompatibilità tra mafia e Vangelo, ammettendo la possibilità di scomunica per i mafiosi, non solo nel caso di una loro diretta responsabilità per delitti o reati commessi, ma anche in virtù della sola esistenza del pactum sceleris, del vincolo associativo, della semplice connivenza o adesione all'organizzazione criminale le cui finalità sono, di per sé, già state definite dalla Conferenza Episcopale Siciliana in insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo.

Sono passati quasi quindici anni dal vibrante appello del Papa alla conversione degli uomini di mafia e dall'assassinio di padre Puglisi. Eppure, in Sicilia e nel Mezzogiorno - denuncia Alessandra Dino - manca ancora una esplicita e corale presa di posizione della Chiesa, cui possa dirsi corrispondere un comune sentire diffuso tra i singoli sacerdoti e l'intera comunità ecclesiastica.

Fonte: ansa
www.siciliainformazioni.com/giornale/cultura/libri/18442/alessandra-dino-racconta-zona-grigia-mafia-chiesa-mafia-devota-chiesa-religione-cosa-no...



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