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XXI.
67. «Convalidando con firma di propria nostra mano il foglio che contiene questo nostro decreto, l’abbiamo depositato sul venerando corpo di San Pietro». Era cartaceo o membranaceo il foglio che conteneva il testo della donazione? Egli dice pagina, ma noi chiamiamo pagina una delle due facce, come dicono, del foglio: ad esempio un quinterno di libro ha dieci fogli e venti pagine. O cosa mai udita e incredibile! Mi ricordo che quando ero giovanetto, interrogai una volta un tale su chi avesse scritto mai il libro di Giobbe; quello mi rispose: Giobbe stesso; ma io gli feci osservare che non avrebbe potuto parlare della sua morte. Ciò si potrebbe dire di molti altri libri, ma non è ora il caso di parlarne. Come infatti può Costantino parlare di ciò che non ancora ha disposto e come può parlare in codesta pagina di ciò che egli stesso dice di essere stato fatto dopo la sepoltura, per cosí dire della carta stessa? Sarebbe come dire che la pagina della donazione morí e fu sepolta prima di nascere, senza che mai sia stata risuscitata dalla morte e dalla sepoltura; prima che fosse messa per iscritto l’imperatore l’avrebbe convalidata non con una sola ma con tutte e due le mani. E che significa poi codesto roborare? come è avvenuta la convalida? di mano dell’imperatore o con il suo sigillo? Gran validità, a dire il vero, dava alla carta e molto maggiore che se ne avesse affidato il testo a tavole di bronzo. Ma non c’è bisogno di una scrittura sul bronzo quando la carta venga riposta sul corpo di san Pietro. Perché qui taci di Paolo, che è sepolto insieme a san Pietro? Avrebbero potuto custodire meglio in due che uno solo.

68. Ormai voi vedete chiaramente le arti maliziose del pessimo Sinone. Poiché da lui non può essere portato alla luce il testo della Donazione, dice che esso non è su tavole di bronzo, ma su carta e che è nascosto con il corpo del santissimo apostolo, perché o non osiamo andare a frugare in una tomba cosí venerabile, o, se andassimo a frugare e non lo trovassimo, possa dire che è stato mangiato dai tarli. Ma dove era allora il corpo di san Pietro? Certo non ancora era nel tempio, dove è ora, non in un luogo cosí ben difeso e sicuro. Dunque non colà avrebbe l’imperatore posto la sua carta. O non avrebbe affidato la carta al santissimo Silvestro forse perché non gli sembrava abbastanza santo, prudente, diligente? O Pietro, o Silvestro, o pontefici della santa romana Chiesa, ai quali sono affidate le pecore del Signore, perché non custodiste la pagina a voi affidata? Perché l’avete fatta rosicchiare dalle tarme, l’avete fatta rovinare dall’umidità? Non c’è altra spiegazione che quella della vostra stessa dissoluzione. Perciò agí stoltamente Costantino. Una volta ridotta in polvere la pagina, se ne è andato in polvere ogni diritto fissato dal privilegio.

69. Eppure, come vediamo, si mostra una copia della carta. Chi la trasse, temerario, dal grembo del santissimo apostolo? Nessuno, io credo, fece ciò. Donde è venuta la copia? Si dovrebbe dimostrare (per stabilirne l’autenticità) che la conosca qualcuno degli antichi scrittori non posteriore ai tempi di Costantino. Invece non si cita nessuno degli antichi; ma forse si cita qualcuno recente. Da chi l’ebbe costui? Chi scrive istoria del passato, o scrive sotto dettatura dello Spirito Santo o segue testimonianze di antichi scrittori e specialmente di coloro che scrissero di cose loro coeve. Chiunque non segue gli antichi, sarà sempre uno di quelli che traggono alimento alla audacia delle loro falsificazioni dall’antichità. Se in qualche punto si leggono cose simili, esse non concordano con la verità sulle cose antiche piú di quanto lo stolto racconto del glossatore Accursio sugli ambasciatori romani mandati in Grecia a prendere le leggi non concordi con i racconti di Tito Livio e altri eccellenti scrittori.

XXII.
70. «Dato a Roma 30 marzo nel quarto consolato di Costantino e nel quarto di Gallicano». Ha messo la data del penultimo giorno di marzo, perché sapessimo che tutto ciò era stato fatto sotto le feste pasquali, che in generale cadono in quei giorni. «Et Costantino quartum consule et Gallicano quartum consule».Un po’ strano che tutti e due siano stati per tre volte consoli e nel quarto consolato siano colleghi. Ma è piú straordinario che l’Augusto malato di lebbra e elefantiasi, malattia che è rispetto alle altre cosí straordinaria come l’elefante tra le bestie, volesse prendere anche il consolato, quando il re Azaria, appena fu colpito dalla lebbra, si ritirò in casa, nominando luogotenente il figlio, Iotham, come del resto fanno quasi tutti i lebbrosi. Da questa sola prova tutto il privilegio è confutato, battuto, distrutto. Si potrebbe opporre che Costantino fu prima lebbroso e poi console: ma, secondo i medici, questa malattia si sviluppa lentamente e inoltre secondo la testimonianza degli antichi il consolato comincia il primo gennaio e dura un anno. Ora queste cose si dicono fatte nel marzo immediatamente dopo. Né tacerò anche che si suole scrivere la data nelle lettere, non negli altri documenti, a meno che non scrivano gli ignoranti. Data viene dal fatto che si dice che le lettere sono date a questo (illi), o a quello (ad illum) al portalettere (illi) ad esempio, perché le recapiti e le dia in mano al destinatario; (ad illum), cioè al destinatario perché gli siano consegnate da chi è incaricato di portarle. Ma del privilegio, come lo chiamano, di Costantino, che non doveva essere consegnato ad alcuno non si poteva dire dato: dal che appare che chi si esprimeva cosí mentiva e non sapeva immaginare ciò che Costantino verisimilmente avrebbe eventualmente potuto dire o fare.

71. Della sua stoltezza e pazzia si fanno complici quelli che credono che costui abbia detto il vero e lo difendono, sebbene non abbiano il minimo addentellato per poter non dico difendere ma neppure scusare decentemente la loro opinione. O è forse una decente scusa dell’errore, quando vedi che è stata svelata la verità opposta, il non voler assentire ad essa, solo perché alcuni altri grandi uomini abbiano pensato diversamente? Grandi, intendiamoci, per le loro condizioni negli alti gradi, non per sapienza o virtú. Chi ti induce a credere che coloro, che tu ora segui, se avessero udito ciò che io ti sto dicendo, sarebbero rimasti della stessa opinione di prima o non se ne sarebbero piuttosto allontanati? Tuttavia è assai indegno di un uomo voler onorare piú un altro uomo che la Verità, cioè Dio.

Alcuni, privi di ogni altro argomento, certamente mi rispondono: perché tanti sommi pontefici credettero vera questa donazione? Chiamo voi stessi a testimoni che mi invitate dove non voglio arrivare, a dire male contro il mio volere dei sommi pontefici, dei quali io vorrei anzi celare le malefatte. Ma continuiamo a parlare liberamente giacché la causa che ho preso a difendere non mi permette di fare diversamente.

XXIII.
72. Voglio ammettere che essi credettero alla Donazione e non per frode: non c’è da stupirsene se credettero in una cosa che li allettava con grossi guadagni, tanto piú che essi sogliono credere solo per straordinaria ignoranza molte cose che non recano loro utilità. Nella chiesa cosí eccellente di Araceli in un luogo tanto augusto non vediamo una pittura che rappresenta la Sibilla (profetessa di Gesú) e Ottaviano (che le innalza un altare) interpretazione che si dà sull’autorità di Innocenzo III che ha scritto sull’argomento? Lo stesso Innocenzo lasciò scritto che al nascere di Gesú, cioè durante il parto della Vergine, ruinò il Tempio della Pace! Cose da far perdere la fede una volta dimostrata la falsità piú di quanto non potrebbero giovare a fondarla se fossero veri miracoli. Il vicario della Verità osa mentire per una finzione di pietà e legare se stesso con tale delitto coscientemente? O non mente? Non si accorge che quando fa ciò egli è in contrasto con i piú santi uomini? A tacere degli altri, Gerolamo si serve della testimonianza di un’opera di Varrone scritta prima di Augusto per dire che le Sibille erano dieci. Lo stesso Girolamo scrive cosí del Tempio della Pace: «Vespasiano e Tito, costruito in Roma il Tempio della Pace, conservarono nel suo santuario i vasi del Tempio (di Gerusalemme) e tutti gli ex voto, come narrano storici greci e romani». E questo ignorante vorrebbe che si credesse piú al suo libello scritto per giunta da barbaro che alle storie degnissime di fede scritte da antichi uomini assai dotti.

73. Giacché mi è capitato di parlare di Gerolamo, parlerò di un altro affronto che gli viene fatto: a Roma si mostra come reliquia di santi (vi sono difatti accese intorno sempre sacre lampade) una Bibbia che dicono scritta di mano di Gerolamo: e il papa avalla questa credenza con la sua autorità. Quale è la prova? l’essere, come direbbe Virgilio, la sua sopravveste ricamata in oro. Proprio ciò dovrebbe farci pensare che non può essere opera autografa di Gerolamo. L’ho osservata attentamente e mi sono accorto che è scrittura di un ignorante che ricopiava per ordine di un re, forse Roberto (di Napoli). Sono decine di migliaia le falsificazioni siffatte che si possono vedere a Roma: ma è simile alla precedente l’immagine santa di san Pietro o Paolo che Silvestro avrebbe mostrato a Costantino ammonito a farsi cristiano nel sogno dagli stessi apostoli; da questo dipinto mostrato dal papa sarebbe stata confermata la visione di Costantino. Non dico questo perché io non ritenga che quelle siano immagini vere degli apostoli: magari fosse cosí vera la lettera del pseudo Lentulo sull’effigie di Gesú, falso non meno da furfanti di quanto non lo sia il privilegio che abbiamo confutato. Ma dico che quel dipinto non fu mostrato a Costantino da Silvestro. Non riesco piú a trattenere il mio stupore per codesta favola di Silvestro sulla quale spenderemo due parole.

74. Il nodo della questione è proprio qui, in questa favola e, poiché io sto parlando con i pontefici romani, sarà bene parlare a fondo di uno di essi, cosí da uno si conosceranno meglio gli altri. Tra le molte sciocchezze che si narrano in questa leggenda, toccherò solo quella del dragone, per mostrare che Costantino non è stato mai lebbroso. I Gesta Silvestri sono opera, come dice il traduttore, di un greco, certo Eusebio: si sa come i greci siano sempre pronti a mentire, come satireggiava Giovenale: a tutto ciò che la Grecia mendace si permette di raccontare nelle sue storie. Donde era venuto quel dragone? A Roma non nascono i dragoni. Come mai era velenoso? Solo in Africa – dicono – si trovano dragoni che danno la morte per veleno, che viene loro dai calori di quella terra. Da chi gli veniva poi tanto veleno da impestare una città cosí grande, specie quando se ne stava come inghiottito in cosí profonda spelonca che per giungervi bisognava scendere centocinquanta gradini? I serpenti, fatta eccezione, forse, del basilisco, non uccidono col soffio ma col morso. Catone, quando fuggiva Cesare con le sue numerose schiere attraverso l’Africa deserta, non vide morto per soffio di serpenti, né durante il cammino né durante il sonno, alcuno dei suoi compagni. Né i popoli dell’Africa s’accorgono che i serpenti rendano la loro aria pestilente. Se dobbiamo credere alla mitologia, perfino Chimera, Idra, e Cerbero erano visti e toccati senza danno. Ma perché i romani non l’uccidevano una buona volta codesto drago? Non potevano, rispondi. Eppure Regolo uccise in Africa presso la riva del Bagrada un serpente anche piú grande. Sarebbe stato facile ucciderlo ostruendo l’ingresso alla spelonca. Non volevano? Si vede che lo onoravano come Dio, come fecero del resto i babilonesi. Perché Silvestro non lo uccise lui, come Daniele uccise quello babilonese? Avrebbe potuto legarlo con una corda di canapa e distruggere quella spelonca per sempre. Ma il falsificatore non volle che il drago fosse ucciso perché non sembrasse che riferiva tale e quale il racconto di Daniele.

75. Se Gerolamo, dottissimo e fedelissimo traduttore, Apollinare e Origene e alcuni altri affermano falsificazione il racconto di Bel; se i giudei non lo accettano nel Canone del Vecchio Testamento; se i piú dotti latini, i piú dei greci e gli ebrei, presi singolarmente, condannano quel racconto come fittizio, io non dovrei rigettare quest’altro racconto modellato su quello di Bel, tanto piú che non si appoggia all’autorità di alcuno scrittore serio e che per imbecillità supera molto il modello? Chi aveva mai costruito la casa sotto terra alla belva? Chi l’aveva collocata colà e le aveva comandato che non ne uscisse o ne volasse via? Dicono alcuni ed altri però negano che i draghi volino. Chi aveva pensato di dargli quegli strani pasti? Chi aveva ordinato che delle vergini e per giunta consacrate al Signore scendessero a lui per cibo e solo il primo giorno di ogni mese? Sapeva il drago quando cominciava ciascun mese? se ne stava contento di cosí parco e raro cibo? E le vergini non avevano orrore di una caverna cosí profonda e di una belva cosí affamata e gigantesca? Forse il drago faceva loro complimenti come a donne, a vergini, a persone che gli portavano da mangiare? E forse facevano anche quattro chiacchiere? Perché – scusate – non le avrebbe anche coperte? Si dice, del resto, che Alessandro e Scipione siano nati dal coito delle loro madri con draghi o serpenti. Che dire poi del fatto che a un bel punto non gli si vuol dare piú da mangiare? Non sarebbe uscito fuori della caverna o non sarebbe morto di fame? Straordinaria stoltezza di gente, che prestano fede a questi deliri, a queste fantasie di donnette isteriche. Per quanto tempo sarebbe durato tutto ciò? Quando sarebbe cominciato? Prima della nascita del Salvatore? o dopo? non si sa nulla di tutto ciò. Vergognamoci una buona volta di codeste fiabe da bimbi e di una leggerezza maggiore di quella di artisti da farse. Un cristiano, che si dice il figlio della Verità e della Luce, arrossisca nel dire cose che non solo non sono vere, ma neppure sono verisimili.

XXIV.
76. Potrebbero dire: i diavoli avevano sui gentili il potere di ingannarli con tali mostri che essi veneravano come dei. Tacete, ignoranti; per non dire scellerati, che stendete sempre sulle vostre fiabe questo velo. Il Cristianesimo è troppo onesto, schietto per aver bisogno della difesa di falsificazioni. Con la sua propria luce e verità si difende per sé quanto basta e anche di piú senza codeste fiabe da impostori che offendono Dio, Gesú e lo Spirito Santo. Dio avrebbe cosí abbandonato gli uomini all’arbitrio dei diavoli da farli sedurre con miracoli cosí manifesti e cosí persuasivi? quasi quasi Lo si potrebbe accusare d’ingiustizia perché avrebbe affidato le pecore ai lupi, e, d’altra parte, gli uomini avrebbero una grande scusa ai loro errori. Se tanto era lecito allora ai demoni, dovrebbe essere ancora lecito oggi ad essi presso gl’infedeli: ma di ciò non ci accorgiamo. Nessuno di essi narra storielle simili. Non parlerò di altri popoli, ma dei romani dei quali si tramandano pochi miracoli che per giunta sono antichissimi e incerti.

Valerio Massimo parla di quell’apertura della terra in mezzo al foro, dove si buttò spronando il cavallo Curzio con i suoi ornamenti; si rinchiuse di nuovo l’apertura e subito ritornò nell’antico aspetto. Racconta anche che Giunone Moneta, interrogata per scherzo da un soldato romano dopo la conquista di Veio se volesse andarsene a Roma, rispose che lo voleva. Nessuna delle due cose conosce Tito Livio, autore piú antico e piú serio. Egli infatti dice che la voragine rimase e che non fu improvvisa ma era di vecchia data anteriore alla fondazione di Roma; era chiamato lago Curzio, perché il sabino Curzio Mezio, fuggendo l’urto dei romani, era scomparso in esso lago.

Dice inoltre che Giunone facesse un segno di assenso non che parlasse e che fu solo una aggiunta posteriore favolosa quella che Giunone avesse parlato. È evidente che anche il cenno di assenso fu una menzogna, perché interpretarono che un movimento della statua, che stavano togliendo dal suo posto, fosse avvenuto di sua iniziativa; forse anche è possibile che come per ischerzo interrogarono la dea di pietra, vinta e ostile, cosí per ischerzo finsero che rispondesse affermativamente. Livio però dice non che essa annuisse ma che i soldati gridarono che essa avesse approvato.

77. Scrittori onesti non cercano difendere la verità di codesti fatti, ma ne scusano la falsità come tradizione. Come lo stesso Livio dice, si deve perdonare agli antichi se cercano rendere piú venerabili le origini delle città col mescolare insieme elementi umani e divini; e altrove dice: «nei racconti cosí antichi, se vi è qualche verisimiglianza, si tennero per veri». Ma basta; non val la pena di affermare o confutare queste sciocchezze che con le loro meraviglie servono meglio a soddisfare chi si compiace di teatralità che ad accrescere la fede; Terenzio Varrone piú antico, piú dotto e, come credo, piú serio autore di Valerio Massimo e di Livio, ci fa sapere che ci sono tre diverse tradizioni sul lago Curzio trasmesse da tre autori: quella di Proculo, che dice essere stato il lago chiamato Curzio dal Curzio che vi si gettò; quella di Pisone che parla del Mezio sabino, la terza di Cornelio, cui Varrone aggiunge anche Lutazio, che affermerebbe essere il nome venuto dal console Curzio, del quale fu collega Marco Genucio.

78. Non saprei però rimproverare Valerio se ha narrato codeste cose, quando egli, però, aggiunge poco dopo un pensiero serio e severo: «Non mi sfugge come le opinioni siano opposte quando si parla di moti e voci di divinità viste o ascoltate dai nostri sensi. Quando non si dicono cose nuove, ma si ripetono quelle trasmesse dalla tradizione, gli autori possono ben rivendicare la loro buona fede». L’accenno a parole degli dei si riferisce, a quello che sappiamo di Giunone Moneta, sia essa la statua della Fortuna, che si immagina abbia parlato due volte dicendo: «O matrone, mi avete visitato come voleva il rito e come voleva il rito avete fatto la cerimonia della consacrazione».

79. Ma i nostri novellieri ad ogni momento ti mettono in mezzo idoli che parlano, ciò che veramente non fanno gli stessi pagani e idolatri; anzi negano queste storie con piú sincerità che non i cristiani. Presso i pagani si hanno pochissimi miracoli non sulla fede degli scrittori, ma avendo in loro appoggio direi quasi la raccomandazione di una sacra e veneranda antichità. I cristiani invece narrano fatti che gli autori coevi non conoscevano perché sono fattura recente.

Non credo diminuire il culto che si deve ai santi e non mi sembra di rinnegare le loro divine opere perché io so che un tantinello di fede, piccolo come un chicco di senape, può muovere i monti; anzi io difendo e tutelo i miracoli quando impedisco che se ne faccia tutt’uno con le favole. Penso che gli autori di codeste leggende non debbano essere altri che infedeli, che scrissero perché ne venisse irrisione ai cristiani quando le loro leggende passate di mano in mano, per propaganda dolosa, giungendo agli ignoranti fossero ritenute per vere; oppure bisogna credere che dei fedeli lo abbiano fatto per eccesso di zelo e deficienza di critica, tanto piú che sappiamo che non si sono arrestati non dico a falsificare le vite dei santi, ma hanno anche osato scrivere alcuni pseudo evangeli della Madonna e di Cristo. I papi chiamano tali libri apocrifi, come se non avessero altro difetto che l’ignorarsene gli autori e come se fossero credibili le loro narrazioni, come se fossero sante e utili ad accrescere la fede: non è minore la colpa nel papa che approva il male delle falsificazioni che in coloro che le escogitarono. Noi distinguiamo le monete cattive dalle buone, le mettiamo da parte, le buttiamo via e non faremo lo stesso con le dottrine cattive? non le separeremo ma le conserveremo? le confonderemo con le buone e le difenderemo per buone?

80. Io, per dire francamente la mia opinione, nego che siano apocrifi i Gesta Silvestri, perché – come ho accennato – se ne tramanda autore un tale Eusebio; ma dico che sono false e indegne le cose che narra lui e altri sul drago, il toro, la lebbra: per dimostrare il falso della lebbra mi son dovuto rifare tanto lontano. Se Neeman fu lebbroso, non perciò diremo che lo fu anche Costantino.

Del primo parlarono molti autori; di Costantino, capo del mondo, non scrisse nessuno dei suoi concittadini, ma uno straniero, non so chi fosse; a lui non si può credere piú che a quell’altro che parlava delle vespe che avevano nidificato nelle narici di Vespasiano e della rana partorita da Nerone, da cui verrebbe il nome di Laterano, al luogo dove è latente la rana nel suo sepolcro. Le vespe e le rane, se potessero parlare, non avrebbero detto ciò. Lascio andare che dicono curarsi la lebbra col sangue dei fanciulli: la medicina lo ignora, ma essi veramente attribuiscono questo pensiero agli dei capitolini, come se essi fossero soliti parlare e avessero ordinato questa specie di cura. Non bisogna maravigliarsi che i papi non capiscano queste cose, quando non sanno neppure che significa il loro nome. Dicono che Pietro fu chiamato Cefas, perché era il capo degli apostoli, come se la parola Cefas sia greca derivando da Kephalee e non piuttosto ebraica e anzi siriaca, che i greci translitterano Kephas e traducono Petrus (pétros) non caput. Petrus e Petra sono termini greci e scioccamente si dà l’etimologia latina di petra come di «consumata dal piede» (pede trita). Sono gli stessi che distinguono il metropolitano dall’arcivescovo e pretendono che il primo sia chiamato cosí dalla misura della città, quando in greco non si dice metropolis, ma meetropolis, cioè lo stato o la città-madre; patriarca significa quasi padre dei padri; papa viene dall’interiezione papae; fede ortodossa è uguale a fede di retta gloria; leggono Símone (sdrucciolo) mentre bisogna leggere con l’accento sulla penultima, come per Platone e Catone. E lascio andare molte altre cose simili, perché non si ritenga che per colpa di alcuni io voglia prendermela con tutti i papi. Tutto ciò ho detto perché nessuno si maravigli che tanti papi non si accorgessero della falsità della Donazione; io per me credo che ne sia stato autore uno di loro.

www.classicitaliani.it/quattrocento/valla_donazione.htm



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Apocalisse Laica
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