00 08/05/2009 04:20
Sia come sia, resta il fatto che, lasciato da parte diavolo e diavoletti, anche la Chiesa cattolica comincia a capirne qualcosa di "tendenze sessuali" "pulsioni" e simili "diavolerie" laiche.
E anche chi non le capisce o non le vuole capire, capisce comunque che non si può più continuare a perdere processi per avere dato copertura e omertà a pedofili violentatori di bambini. Se non altro perché per pagare i danni alle vittime sono già fallite delle diocesi.


E anche quando la Chiesa fa ancora finta di non volersi insozzare con certe idee laiche, ormai di psicologia ne ha capito abbastanza per diffidare delle implicazioni erotiche di questo rapporto amoroso (seppur "amore in Cristo"...) fra insegnante e ragazzo.

Oggi i pedagogisti cattolici non vedono di buon occhio il "farsi fanciullo tra i fanciulli" di don Bosco, e la sua "amicizia amorosa" per loro.

Ciò non significa - sia chiaro - che i cattolici siano disposti ad ammettere che Bosco era omosessuale, foss'anche casto. Per esempio Giacomo Dacquino, psicoanalista cattolico (docente alla Università Pontificia Salesiana di Torino) ha così osservato:


"In questo rapporto affettivo tra don Bosco e i giovani, non è mancato chi ha voluto intravedere una devianza (sic) omosessuale. Ma per lo studioso della psiche umana, conscia e inconscia, è scontato che in ogni individuo sono presenti valenze omosessuali. (...)
A parte queste considerazioni di ordine tecnico, possiamo senz'altro affermare che don Bosco non ebbe verso i ragazzi quella simpatia erotica che degenera in pedofilia o in altre perversioni istintive. Chi ha studiato la problematica omosessuale pedofila non può cadere nella grossolana confusione di identificare tale perversione con l'affetto sublimato e oblativo che don Bosco ebbe verso i ragazzi.

Sono quindi semplicemente antiscientifiche (sic) la tesi o l'insinuazione di un don Bosco omosessuale o pedofilo represso, anche perché nel suo comportamento e nei suoi sogni non traspare mai, in maniera diretta o indiretta, che egli abbia avuto pulsioni pedofile a livello istintuale (sic) [15].


Don Bosco, insiste Dacquino, condannò più volte l'omosessualità; il che secondo lui dimostra che omosessuale non fu! (ma basta davvero così poco per "dimostrare" così tanto?).
Dunque secondo Dacquino chi fa certe insinuazioni si mette sul livello di coloro che tali insinuazioni fecero mentre lui era vivo, come Bosco stesso confessò a un testimone (parlando di sé in terza persona) poco prima di morire:


"Ti manifesto adesso un timore (...), temo che qualcuno dei nostri abbia ad interpretar male l'affezione che don Bosco ha avuto per i giovani, e che dal mio modo di confessarli vicino vicino, si lasci trasportare da troppa sensualità verso di loro, e pretenda poi giustificarsi col dire che don Bosco faceva lo stesso, sia quando loro parlava in segreto, sia quando li confessava.
So che qualcuno si lascia guadagnare dal cuore, e ne temo pericoli e danni spirituali" [16].

No, conclude Dacquino dopo questa sconcertante confessione (che a mio giudizio costituisce da parte di Bosco l'ammissione di essere andato un po' troppo in là): don Bosco non "lo" era perché se fosse stato omosessuale non avrebbe avuto tanti collaboratori e amici che gli furono fedeli per tutta la vita.
Trasecolo. Con argomenti a "difesa" dell'eterosessualità di don Bosco come questi, non c'è nemmeno bisogno di "accusa"...

Con buona pace di Dacquino, la verità è che oggi la stessa educazione segregata per sessi, un tempo considerata unica salvezza contro lascive frequentazioni tra giovani, è vista come un pericoloso incentivo allo sbocciare di tentazioni omoerotiche fino a quel punto assopite. Ben vengano le scuole miste, dunque, in barba al terrore che delle donne aveva don Bosco!

Insomma: magari nella Chiesa l'idea di un don Bosco gay non la manderanno mai giù, però intanto il buon prete contadino si ritrova sì santo, ma sconfessato proprio in quell'aspetto della sua vita che ha fatto di lui un santo.

Ironie della storia...






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Una lettera che contesta in ottica cattolica questa pagina del mio sito (http://digilander.libero.it/giovannidallorto/biografieindex.html) , con mia risposta, è online qui.

Questo saggio, riedito sul sito di gay.tv, ha suscitato una polemica furibonda, corredata da insulti gratuiti delle chierichecche offese e speziata da pesantissime considerazioni omofobe e intolleranti.




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Post scriptum.

Qualche anno fa il responsabile di un sito di cattolici gay mi chiese la prima stesura di questo scritto, che inviai; il pezzo fu così messo in Rete.
Non l'avesse mai fatto. Gli attacchi e le proteste che subì da parte degli stessi omosessuali cattolici furono tali che (senza dirmelo, perché per fortuna un po' si vergognava della censura che stava esercitando), fu costretto a togliere di mezzo lo scritto. (Per leggere un divertente strascico delle polemiche, fare clic qui e qui).

Ora, se gli omosessuali cattolici sono i primi a pensare che sia disonorevole "insinuare" che un omosessuale possa diventare santo, quanto sarà credibile la pretesa della Chiesa cattolica di "odiare il peccato omosessuale, ma amare e rispettare i peccatori"?

Davvero, se si nasce omosessuali, la via della santità è preclusa?
Se la risposta fosse sì, perché allora i cattolici gay perdono tempo a inseguire un cammino ideale che a loro, per volere divino, è stato precluso?
E se la risposta - come io spero (per loro) - fosse no, allora perché fare tanto chiasso se io discuto del caso in cui uno di noi ha trionfato in questo cammino?

Come si vede, la contraddizione è insanabile, e alla fin fine il proclama cattolico di odiare "solo il peccato" dimostra tutta la sua ipocrisia: ciò che tutti i cattolici odiano, a quanto pare ivi inclusi quelli omosessuali, sono gli omosessuali in quanto tali, siano o non siano "peccatori".

Come dimostra appunto la loro indisponibilità a discutere del fatto che uno di loro possa essere stato omosessuale, anche se casto.

A titolo di documentazione, ricopio qui due obiezioni mosse alla prima stesura del presente saggio


Obiezione n. 1:
Penso che sia scorretto tirare in ballo persone, in modo così poco piacevole, a
sostegno delle proprie tesi. Personalmente non avevo bisogno di un articolo come quello per avere conferma che la via della santità non è preclusa a nessuno.
Penso anche che tu non abbia valutato adeguatamente che in una Chiesa cattolica attaccata da tutti ed insultata da molti, un accostamento di grandi santi associata ad una loro qualità personale ottiene il deprecabile effetto di far perdere di carisma quel santo agli occhi di molti [sic!!], non quella di "santificare" la presunta qualità personale.
(...) La questione è don Bosco: santo o no? Non, "gay o no"?
Obiezione 2:
Perché forzare e affermare ciò che non si legge e che non è mai stato? [sic: il "profondo" ragionamento che sta dietro a questa affermazione è: "non mi piace l'idea che sia così, quindi non può esserlo". NdR]
Perché attribuire tendenze omosessuali a don Bosco? Forse non ti accorgi che tutto questo vorrebbe dire che don Bosco tutta la sua opera l'avrebbe fatta per costruire un harem? [sic!]
Capisci?
Attento allora a ciò che acconsenti [sic] venga detto, credendo non sia importante.

Note
[1] Paul Pennings, "Don Bosco breathes his last. The scenario of Catholic social clubs in the Fifties and Sixties". In: Among mern, among women, Amsterdam 1983, pp. 166-175 e 598-599.
Stephan Sanders,"A phenomenon's bankrupcy; Don Bosco and the question of coeducation". Ibidem, pp. 159-165 e 602-603.

[2] Don Sergio Quinzio, Domande sulla santità, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986, pp. 31-39.

[3] Le considerazioni di Guido Ceronetti si possono oggi leggere nel suo Albergo Italia (Einaudi, Torino 1985), col titolo di "Elementi per una anti-agiografia", pp. 122-133.

[4] Molti anni dopo aver scritto questo articolo, che si fonda sull'assunto che Bosco non diede mai sfogo fisico ai suoi impulsi, conobbi un torinese che motivava l'anticlericalismo suo e della sua famiglia con li fatto che un suo nonno era stato allievo di don Bosco ed era stato sessualmente molestato da lui. Da qui l'odio - sosteneva - per l'istituzione che di un pedofilo violentatore aveva osato fare addirittura un santo.

Che dirò di questa originale "oral history"? Che nessun tribunale, né quello dell'Inquisizione e nemmeno quello della Storia, accetta testimonianze di terza mano, come questa. Ma che lo storico ha il dovere di registrare anche l'esistenza di voci (magari per confutarle), perché costuiscono documenti storici di una mentalità e di un periodo.
Da qui questa nota.

[5]-San Bernardino da Siena, Le prediche volgari (a cura di Ciro Cannarozzi), Pacinotti, Pistoia 1934, vol. 1, p. 416.

[6]-Qohelet, 4:10

[7] Citato in: Guido Ceronetti, Op. cit., pp. 126-127 e Sergio Quinzio, Op. cit., p. 59.

[8] Citato in: Guido Ceronetti, Op. cit., p. 125, e Sergio Quinzio, Op. cit., p. 59.

[9] Guido Ceronetti, Op. cit., p. 126.

[10]-Ibidem, p. 126.

[11]-Ibidem, p. 127.

[12]-Ivi.

[13] Sergio Quinzio, Op. cit., pp. 35 e 38.

[14]-Ibidem, p. 39

[15] Giacomo Dacquino, Psicologia di don Bosco, Sei, Torino 1988, pp. 124-129, citazione alle pp. 124-125.
D'Acquino è autore di un terrificante romanzo psicoanalitico, Diario di un omosessuale, (Feltrinelli, Milano 1972), spacciato per il diario di un paziente frocio che grazie alla guida di Dacquino "diventa" eterosessuale.
L'omosessualità che emerge dal libro è di uno squallore infinito.

Non contento, in Educazione psicoaffettiva (Borla, Torino 1972) Dacquino osserva:
"L'omosessuale è un immaturo affettivo, che vive i suoi rapporti ad un livello infantile ed è incapace di comunicare con il mondo degli adulti, soprattutto con quello femminile" (p. 102).
"L'omosessualità è una psicopatia e, come le malattie, necessita di cure, non di giudizi morali. (...) L'omosessualità sarebbe quindi l'espressione sintomatica di una famiglia e di una società malate" (p. 112).
Viste le premesse, non si fatica a capire perché Dacquino trovi tanto difficile concepire la coesistenza di santità ed omosessualità nella medesima persona: se gli omosesuali fanno schifo e i santi sono un modello di ciò che è buono, le due cose non possono coesistere.
Ma il problema sta nella sua visione dell'omosesualità, non in quella della santità.

[16]-Ibidem, p. 128.


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CARLO CARAFA (1517/1519-1566)

di: Giovanni Dall'Orto
Cardinale.
Nacque a Napoli, figlio cadetto d'una potente famiglia nobiliare, e per diciassette anni seguì la carriera delle armi nelle guerre che insanguinavano l'Italia: fu prima con le truppe imperiali, poi con quelle francesi.
Quando suo zio Gian Piero Carafa (1476-1559) fu eletto papa col nome di Paolo IV [1555-1559], Carlo Carafa [1] ricevette da lui il cappello cardinalizio. Lo zio gli affidò importanti incarichi, lasciandogli de facto la guida dello Stato per lunghi periodi.

Carlo ne approfittò per costruire una rete di intrighi, orientando la politica del papato in senso filofrancese ed anti-spagnolo, in una serie di voltafaccia che miravano ad ottenere in cambio una signoria in Toscana per la casata Carafa.

La guerra contro l'Impero e la Spagna ebbe però per lo Stato Pontificio (la cui parte meridionale fu occupata dagli spagnoli) esiti disastrosi. La pace di Cave (1557) riportò la situazione allo statu quo, ma stroncò le ambizioni (non gli intrighi) di Carlo Carafa, che si orientò via via in senso filo-imperiale.

Tutto ciò diede fiato agli oppositori (filofrancesi) dei nipoti del rigido e moralista Paolo IV: la loro condotta scandalosa fu volentieri denunciata allo zio.
Ad esempio il 17 gennaio 1558 Charles de Guise, Cardinale di Lorena (1525-1574) incaricava l'ambasciatore di Francia a Roma di comunicare al papa lo scandalo suscitato presso la Corte francese dal comportamento dei suoi nipoti.
Nella lettera affermava tra l'altro che quanti tornavano da Roma erano scandalizzati da ciò che avevano visto, sodomia dei parenti del Papa inclusa:


"la cosa peggiore che vedevo era una mormorazione e una fama pubblica tanto divulgata che l'aria e tutti gli elementi ne erano infettati per ciò che si diceva che si fa a Roma durante questo pontificato; ed avendo su questo voluto esaminare ed ascoltare privatamente i personaggi autorevoli che sono tornati dall'Italia (...) oltre alla voce pubblica da quelli che sono stati a Roma (...) ho notato che si sentivano scandalizzati d'avere visto e saputo manifestamente ciò che si era presentato ai loro occhi. (...)
Ed oltre ai principali erano nominati pubblicamente con mio assai gran dispiacere coloro che erano più vicini per consanguineità al nostro Santo Padre il papa, non risparmiando (...) quel peccato così abominevole nel quale non esiste più distinzione fra sesso maschile e femminile" [2].

Secondo un testimone dell'epoca i complici di Carlo in tali forme di lussuria erano:


il vescovo d'Osimo [Vitellozzo Vitelli (1531-1568), NdR] e quello di Calvi, persone abhorrite dal papa, riputate da lui instromenti di tutte le dissolutezze e fragilità della carne, delle quali era il cardinale incolpato" [3].

Queste voci non possono essere liquidate come semplice calunnia politica. Già nel 1555 (circa) il poeta Joachim du Bellay (1522?-1560), che era allora a Roma, scrisse un sonetto che menzionava un certo Ascanio (a quanto appare appena morto) come amato dal Carafa.
In questo sonetto invita Amore a piangere,


"perché qui non devi più commemorare
il padre al bell'Ascanio, ora devi piangere
il bell'Ascanio stesso, oh quale perdita!
Ascanio, che Carafa amava più che gli occhi:
Ascanio, che superava in bellezza del volto
il bel coppiere troiano [= Ganimede], che versa da bere agli dèi" [4].


Lo "scandalo" arrivò a sfiorare lo stesso papa (un ex Inquisitore, che alla rigidità dei costumi teneva moltissimo), come mostra una pasquinata scritta durante il suo pontificato e che allude al suo preteso gusto per l'"arrosto" (parola che in gergo burchiellesco indica la sodomia) spiegando calunniosamente con tale gusto la sua passione per i roghi dell'Inquisizione:


"Figli, meno giudizio
e più fede comanda il Sant'Uffizio.
E ragionate poco:
ché contro la ragion esiste il foco.

E la lingua a posto,
ché a Paolo quarto piace assai l'arrosto" [5].


Di fronte al moltiplicarsi delle accuse di malgoverno il papa all'inizio
rifiutò di credere, ma alla fine cambiò idea e, furibondo coi nipoti Carlo e Giovanni, li privò delle cariche ed esiliò, nel gennaio 1559, non molto prima della sua morte.

La caduta di Carlo Carafa sciolse la lingua alle pasquinate, che l'accusarono d'essere un sodomita, come fa la seguente, apparsa alla morte del papa (1559):


"Guarda, rio [reo, NdR] scellerato,
che con gli incesti suoi e sodomia
stassi [se ne sta] co' cardinali in compagnia"... [6].

Tornato a Roma dopo la morte dello zio, Carlo si vide ben presto rinfacciare le disastrose scelte politiche imposte allo Stato della Chiesa; il nuovo papa Pio IV lo incriminò allora per una serie impressionante di crimini (dall'omicidio al peculato all'eresia), fra i quali era compresa la sodomia.
Dopo un processo-farsa in Castel Sant'Angelo Carlo fu condannato (assieme al fratello Giovanni), e giustiziato [7].

Va comunque notato che le accuse di sodomia ebbero scarsa o nulla rilevanza nel processo: la vera motivazione della condanna fu infatti politica. Condannandone i nipoti si condannava la politica anti-spagnola di papa Paolo IV, addossando l'intera colpa a loro, utili "capri espiatorii".
Tant'è che una volta ottenuto il desiderato riavvicinamento alla Spagna, nel 1567 papa Pio V riaprì il processo ed assolse e riabilitò Carlo Carafa.

Note
[1] Sulla vicenda biografica si veda: A. Prosperi, voce: "Carafa, Carlo", Dizionario biografico degli italiani, vol. 19, Istituto Treccani, Roma 1976, pp. 497-507.
Su questi personaggi così imbarazzanti, zio e nipote, in Rete si trova, "chissà perché", assai poco.

[2] George Duruy, Le cardinal Carlo Carafa (1519-1561), Hachette, Paris 1882, pp. 296-297.

[3] Pietro Nores, citato in George Duruy, Op. cit., p. 296.

[4] Joachim du Bellay, Les regrets [1558], in: Les antiquités de Rome. Les regrets, Garnier-Flammarion, Paris 1971, sonnet 103.
Non sono riuscito a indentificare Ascanio.

[5]Silenzi, Renato e Ferdinando, Pasquino, Bompiani, Milano 1932, pp. 227-228.

[6] Valerio Marucci et all. (curr.), Pasquinate romane del Cinquecento, Salerno, Roma 1983, p. 914.

[7] Donata Chiomenti-Vassalli, Paolo IV e il processo Carafa, Mursia, Milano 1993.

[8] Su tutta la vicenda si vedrà anche, con profitto: Edmond Cazal, Histoire anecdotique de l'Inquisition en Italie et en France, Bibliothèque des curieux, Paris 1924, pp. 85-100. (Vi si parla anche di una beffa da
parte di Annibal Caro contro un Baéza, giovane attore amante del Carafa. Non avendo però rintracciato nessuna fonte antica che confermasse tale vicenda, ho trascurato di parlarne qui).


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GIULIO II (Giuliano della Rovere, 1443-1513)

di: Giovanni Dall'Orto
Papa dal 1503 al 1513.
Nato da umile famiglia, studiò presso il convento dei francescani di Perugia.
La sua carriera ebbe un impulso decisivo con l'ascesa al papato di suo zio Sisto IV (Francesco della Rovere, 1414-1484), che nel 1471 lo nominò cardinale e gli affidò incarichi diplomatici.

le testimonianze sono concordi nel tramandare che presso i contemporanei Giulio II ebbe fama di sodomita, come attestò nel 1509 il diarista veneziano Girolamo Priuli (sec. XV-XVI):

"Conduzeva cum [con] lui li sui ganimedi, id est [cioè] alchuni bellissimi giovani, cum li quali se diceva publice [pubblicamente] che l'havea acto carnale cum loro, ymmo che lui hera patiente [passivo] et se dilectava molto di questo vitio sogomoreo, cossa veramente abhorenda in chadauno" [1].

Giulio II ritratto da Raffaello
Da parte sua storico veneziano Marino Sanudo (1466-1536) ci ha tramandato un sonetto, scritto nel 1506 contro il papa che stava per strappare con le armi Bologna ai Bentivoglio.
Il sonetto schernendo avvisa il papa che non riuscirà a vincere con "lance di carne" e bottiglie di vino, che per arrivare non gli servirà farsi "spingere da dietro" e che quindi è meno biasimevole per lui starsene in Vaticano trincando Malvasia o Trebbiano e praticando la sodomia coi suoi compari:


"Ritorna o padre santo al tuo San Pietro,
e stringi el freno al tuo caldo dexire [desiderio],
che, [muoversi] per dar in segno [far centro] e poi fallire,
recha altrui più disonor che starsi adietro [rimanere fermo].
Per strali e lanze di carne e di vetro,
el Bentivojo non vorà partire,
possa che intenda, che non poi fornire [finire, arrivare],
benche sia [ci sia] chi te spinge ognhor da rietro [dietro].

(...)
Bastiti [ti basti] esser provisto
de Corsso, de Tribiam, de Malvasia,

e de' bei modi assai de sodomia;
et meno biasmo te fia
col Squarzia e Curzio nel sacro palazo
tenir a bocha il fiasco, e in " [2].


Dopo la morte di Giulio la sua fama di sodomita gli sopravvisse (fu ad esempio ricordata nelle pasquinate ancora nel 1534):


"Sixtum lenones, Iulium rexere cinaedi;
imperium vani, scurra, Leonis habes". "I ruffiani guidarono Sisto, i sodomiti passivi Giulio;
e tu, buffone, reggi l'impero del fatuo Leone".[3],

e venne infine sfruttata senza ritegno dai protestanti nelle opere polemiche contro il "papismo".
Così ad esempio il protestante francese Philippe de Mornay (1549-1623), accusando gli italiani di essere tutti sodomiti (bontà sua), aggiungeva:


I'obmettrois volontiers ces autres du mesme Autheur, n'estoit qu'ils n'en font que ieu: Ometterei volentieri quegli altri [epigrammi] dello stesso autore [anonimi!, NdR], se non fosse che cadono a proposito:
Venit in Italiam spectatus Indole rara
Germanus, rediit de puero mulier? "Venne in Italia stimato di indole rara
un tedesco; ne ritornò, da ragazzo, donna fatta".
Cest horreur attribué à ce bon Iules; Questo orrore è attribuito a questo buon Giulio.
Et de mesme se lit en un Escrit de nos Theologiens de Paris, de deux ieunes Gentilshommes par lui forcés, que la roine Anne femme du Roy Louys 12. avoit recommandez au Cardinal de Nantes, pour les mener en Italie.[4]. E del pari si leggi in un libro dei nostri teologi di Parigi, di due giovani gentiluomini da lui stuprati, che la regina Anna, moglie di re Luigi XII, aveva raccomandato al cardinale di Nantes, per accompagnarli in Italia.[4].

Questa libellistica protestante è sicuramente priva di attendibilità, almeno quanto la libellistica cattolica che discuteva la condanna per sodomia che si diceva fosse stata inflitta a Calvino.


Note
[1] Girolamo Priuli, Diarii. In: Rerum italicarum scriptores, tomo XXIV, parte III, Zanichelli, Bologna 1938, p. 312.

[2] Marino Sanudo "il giovane", I diarii, Visentini, Venezia 1879-1902 (ristampa anastatica: Forni, Bologna 1969-1979), vol. 6, col. 463.

[3]Da: Valerio Marucci (a cura di), Pasquinate del Cinque e Seicento, Salerno, Roma 1988, p. 118.
Traduzione mia.

[4] Philippe de Mornay, seigneur du Plessis-Marly, Le mystère d'iniquité, c'est à dire, l'histoire de la papauté, Albert, Genève 1612, pp. 1296-1297, sub anno 1505. La traduzione è mia.


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GIULIO III (Giovanni Maria Ciocchi Del Monte, 1487-1555)

di: Giovanni Dall'Orto

Papa Giulio III Del Monte in una terracotta policroma conservata al museo di Villa Giulia, Roma. (Foto G. Dall'Orto).

Papa dal 1550 al 1555 [1].
Studiò giurisprudenza a Perugia e a Bologna e, dedicatosi alla carriera ecclesiastica, divenne arcivescovo di Siponto e, dopo aver ricoperto varie cariche politiche nello Stato della Chiesa, fu creato cardinale nel 1536.

Fu eletto papa nel 1550 perché le sue posizioni politiche sembravano garantire equidistanza fra l'Impero e la Francia, ma di fatto la sua politica fu condizionata dalle esigenze, e minacce, imperiali.




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Giulio III causò il peggior scandalo omosessuale della storia del Papato.

Già da cardinale le pasquinate [2] lo additavano insistentemente come sodomita, ma lo scandalo esplose quando, nemmeno quattro mesi dopo la sua elezione al papato, nominò cardinale il suo amante diciassettenne Innocenzo Del Monte (1532-1577), che aveva già fatto adottare dal fratello Baldovino. (Per questo oggi gli storici eterosessuali occultano lo scandalo dicendo genericamente che fece cardinale "un figlio").

Dal Monte aveva conosciuto tredicenne Innocenzo (che prima dell'adozione si chiamava Santino) quale figlio d'un suo servitore. Il cardinale se ne innamorò perdutamente e barattò la connivenza del padre con consistenti favori.
A premio di tale prostituzione anche il ragazzo ottenne a quattordici anni redditizi benefici ecclesiastici e infine l'adozione da parte di Baldovino Del Monte.
La nomina cardinalizia fu il premio supremo della sua compiacenza.

Tale nomina, contro cui protestarono invano i cardinali più sensibili alla necessità di riformare i costumi della Chiesa per contrastare la Riforma protestante, suscitò ampio rumore nelle Corti europee:


"L'ambasciatore veneto Matteo Dandolo scriveva che il Dal Monte "era un piccolo furfantello", e che il cardinal Del Monte "se lo prese in camera e nel proprio letto, come se gli fosse stato figliuolo o nipote. (...)
Onofrio Panvinio, riferendosi alla vicenda del Del Monte, scriveva di Giulio III che era "eccessivamente dedito con intemperanza alla vita di lussuria e alle libidini" (...) e, ancora più esplicitamente, lo definì "puerorum amoribus implicitus" [invischiato in amori per ragazzi, NdR] [3].

La lista dei commenti scandalizzati dell'epoca è lunghissima.
E nonostante una voce "benevola" che circolava per Roma spiegasse beffardamente la nomina come premio del fatto che il ragazzo era... custode della scimmia del papa (e fu quindi soprannominato "Bertuccino"), per i protestanti non ci furono dubbi sul fatto che il cappello cardinalizio fosse ricompensa delle prestazioni sessuali del ragazzo, o al più per entrambe le cose, come propone il poeta francese Joachim du Bellay (1522?-1560):


"(...) ma vedere uno staffiere, un bambino, una bestia,
un furfante, un poltrone diventare cardinale,
e per aver saputo accudire bene a una scimmia,
un Ganimede avere il [cappello] rosso sulla testa
(...)
questi miracoli, Morel, accadono solo a Roma" [4].

Come se ciò non bastasse, Innocenzo si rivelò uno dei peggiori cardinali che la Chiesa abbia mai avuto: rimasto libero di sé a 23 anni (Giulio III morì nel 1555) fu coinvolto in una catena di stupri (eterosessuali), violenze e perfino omicidii [5].

Ebbe però sempre punizioni molto blande, a riprova del fatto che il Potere è sempre molto indulgente verso i propri esponenti, anche quelli palesemente indegni.


Note
[1] Girolamo Priuli, Diarii. In: Rerum italicarum scriptores, tomo XXIV, parte III, Zanichelli, Bologna 1938, p. 312.

[2] Marino Sanudo "il giovane", I diarii, Visentini, Venezia 1879-1902 (ristampa anastatica: Forni, Bologna 1969-1979), vol. 6, col. 463.

[3]Da: Valerio Marucci (a cura di), Pasquinate del Cinque e Seicento, Salerno, Roma 1988, p. 118.
Traduzione mia.

[4] Philippe de Mornay, seigneur du Plessis-Marly, Le mystère d'iniquité, c'est à dire, l'histoire de la papauté, Albert, Genève 1612, pp. 1296-1297, sub anno 1505. La traduzione è mia.





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LEONE X (Giovanni de' Medici, 1475-1521)

di: Giovanni Dall'Orto

Leone X (Giovanni de' Medici, 1475-1521)
ritratto da Sebastiano Del Piombo nel 1521.

Papa dal 1513 al 1521.
Figlio di Lorenzo il Magnifico, fu destinato dal padre alla carriera ecclesiastica e divenne in segreto cardinale a soli tredici anni.

Ricevette una raffinata istruzione umanistica (ebbe per insegnanti anche Marsilio Ficino ed Angelo Poliziano) e nel 1489-1491 studiò teologia e diritto canonico a Pisa.
Nel 1492 vestì finalmente le insegne cardinalizie e iniziò a partecipare alle vicende ecclesiastiche. Era però a Firenze quando nel 1494 ebbe luogo la caduta dei Medici e fu proclamata la Repubblica; Giovanni riuscì comunque a fuggire, e dopo un periodo all'estero si trasferì nel suo palazzo (oggi Palazzo Madama) a Roma (1500).



Palazzo Madama (già palazzo dei Medici a Roma),
in un'incisione settecentesca.

Qui prese parte alle vicende politiche dello Stato della Chiesa riuscendo infine, alla testa di truppe alleate al papa, ad entrare in Firenze nel 1512, ristabilendo la signoria della sua famiglia.
Alla morte di Giulio II (1513) fu poi eletto papa senza contrasti.

Nel corso del suo papato, assorbito in buona parte da eventi politici e dalle guerre che squassarono l'Italia in quel secolo, ebbe inizio la ribellione di Martin Lutero (da lui condannato nel 1520), la cui portata Leone X non seppe anticipare.

Morì nel 1521 in modo così improvviso che si parlò d'avvelenamento, ma un'autopsia escluse l'ipotesi.




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Sull'omosessualità di Leone X sopravvivono diversi indizi.

Il documento principale è la testimonianza dello storico Francesco Guicciardini (1483-1540), che pochi anni dopo la sua morte [1525] scrisse:


"credettesi per molti, nel primo tempo del pontificato, che e' fusse castissimo; ma si scoperse poi dedito eccessivamente, e ogni dí piú senza vergogna, in quegli piaceri che con onestà non si possono nominare" [1].

Discutendo questa affermazione un biografo nostro contemporaneo ha osservato:


"A proposito della laconicità della denuncia, è ovvio che il Guicciardini sapeva di non rivelare qualcosa di generalmente sconosciuto." [2].

In effetti l'accusa di sodomia contro Leone X ritorna sovente (oltre che nella polemica protestante) nelle pasquinate, che testimoniano di una fama non proprio eterosessualissima.
Una pasquinata del 1522 lo definisce: fiorentin, baro, cieco e paticone (cioè, sodomita passivo) [3].

Un'altra del 1521 non ha dubbi sulla "causa" della sua morte:


Morì el meschino, e non te dir bugia,
per fotter troppo in cul un suo ragazzo [4].

E la memoria della sua fama sodomitica dovette essere ampia se ancora nel 1533 una pasquinata ricorda, parlando della Chiesa, che:


quando papa Leon v'ebbe per sposa (...)
sol bardass'e buffon [sodomiti passivi e buffoni] eran in stima [5].

Infine, un epitaffio satirico latino scritto per la sua morte ci tramanda addirittura un paio di nomi di coloro che il pettegolezzo additava come suoi amanti: il defunto è infatti compianto fra l'altro da:


Giovan Battista Aquileo lenone, Ludovico conte de' Rangoni e Galeotto Malatesta sodomiti passivi [cinedi] [6].

Passando poi a un piano storicamente più serio (le pasquinate non sono una fonte molto attendibile), Falconi trova particolarmente significativa la vicenda di Marc'Antonio Flaminio (1498-1550),


"inviato a Roma nel 1514 da suo padre Gian Antonio, noto letterato veneziano, quando era appena sedicenne. Scopo del viaggio era stato quello di presentare al nuovo papa l'omaggio di un poema esortatorio a muover guerra ai turchi. Il giovane (...) attirò subito le simpatie di papa Medici il quale, avendone prontamente apprezzato anche l'estro e l'abilità di verseggiatore, si disse desideroso di prenderlo sotto la sua protezione, di procurargli i migliori maestri, ecc. L'offerta, comunicata al padre, non fu però accolta.
Marc'Antonio allora rientrò in patria (a Serravalle, oggi Vittorio Veneto) per perorare personalmente la sua causa e riuscì a convincere il genitore. Ma per poco tempo, perché suo padre gli comunicò ben presto (fine del 1515) l'ordine tassativo di spostarsi a Bologna ad attendervi agli studi filosofici.

E allora Beroaldo, segretario del papa, tentò d'interporsi offrendogli, a nome del Sadoleto, di associarlo nell'ufficio di segretario pontificio. Per un giovane appena diciassettenne, ciò significava di essere quasi ad un passo dal fastigio della Curia: ma egli rifiutò e partì.
Un rifiuto, come ha cautamente osservato il Roscoe, che "può indurre in qualche sospetto: che o il padre o il figlio non approvassero la morale, e le pratiche della romana corte, o non fossero pienamente soddisfatti della condotta del pontefice" [7].


La vicenda ha insomma indotto Falconi [8], e non senza ragione, a immaginare che Gian Antonio sospettasse (o addirittura sapesse di) doppi fini da parte del pontefice. In effetti, non è normale che un genitore rifiuti una carriera così brillante per il figlio, salvo nel caso in cui sospetti che nasconda qualcosa di losco....

L'esistenza di ulteriori documenti tutt'ora inediti [9] spinge a non escludere che in futuro la questione dell'omosessualità di Leone X possa essere discussa su basi più sicure.

Note
[1] Francesco Guicciardini, Storia d'Italia, libro XVI, cap. 12. Il testo è online sul "Progetto Manuzio".

[2] Carlo Falconi, Leone X, Rusconi, Milano 1987, p. 156. Sull'omosessualità di Leone X vedi, in quest'opera, soprattutto le pp. 455-461.

[3] In: Valerio Marucci (a cura di), Pasquinate del Cinque e Seicento, Salerno, Roma 1988, p. 170.

[4] Ibidem, p. 283.

[5] Ibidem, p. 391.

[6] Giovanni Alfredo Cesareo, Pasquino e pasquinate nella Roma di Leone X, Deputazione alla Biblioteca Vallicelliana, Roma 1938, p. 75. Sulle accuse di sodomia a Leone X nelle pasquinate si veda alle pp. 74-75 e 88.

[7] Carlo Falconi, Op. cit., p. 456-7.

[8]-Ibidem, p. 467.

[9] Vi accenna Cesareo, Op. cit., p. 75: "altri componimenti su lo stesso tema italiani e latini occorrono [esistono] ne' manoscritti contemporanei".


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HENRY STUART cardinale di York (1725-1807)

di: Giovanni Dall'Orto

Henry Stuart adolescente, ritratto da Benedict.
Cardinale cattolico e ultimo pretendente al trono d'Inghilterra per la casa degli Stuart (detronizzata perché cattolica).
Nacque a Roma (dove visse e morì) nel palazzo Muti Papazzurri, da Giacomo III Stuart (James Edward Stuart "the old pretender", 1688-1766) e fu avviato alla carriera ecclesiastica: solo alla morte senza eredi del fratello Charles Edward "the young pretender" (1720-1788) gli successe nelle sue pretese al trono.

La sua vita è priva di aspetti di rilievo, se si tolgono il fatto di discendere da una casata di sovrani spodestati e la mancanza di discrezione nelle sue relazioni omosessuali.

Il suo attaccamento per giovani favoriti era infatti palese, come annotò nel suo diario un'inglese, Hester Lynch Thrale in Piozzi (1741-1821):

"Il vecchio cardinale di York teneva pubblicamente un ganzo a Roma mentre io ero là, nonostante fosse un uomo del miglior carattere possibile, per pietà e carità: cosa con cui, come mi ha detto una persona, quel vizio non ha nulla a che vedere. Costoro [gli italiani] lo considerano una questione di gusti" [1].
Questa testimonianze è confermata dal diplomatico e scrittore (omosessuale) Giuseppe Gorani (1740-1819, anch'egli omosessuale) che nel 1793 incontrò il cardinale nel suo palazzo di Frascati (e che lo trovò, al contrario della Thrale, arrogante e odiato dal popolo, vessato con punizioni severe per il minimo strappo alla morale):

"I giudizi temerari sono da temere più di ogni altra cosa; io amo smascherare gli ipocriti, ma voglio avere prove decisive. Mi preoccuperò dunque di dire semplicemente quello che ho visto senza pretendere di trarne delle conclusioni.
Il suo palazzo mi parve pieno di giovani adolescenti d'aspetto assai piacente, vestiti da abati. Ciò mi fece sospettare che questa eminenza regale potrebbe avere il gusto di cui è accusato qualcuno dei suoi confratelli.

Tuttavia, non avendo potuto interrogare questi giovani, non ho raccolto alcun indizio che possa confermare questo sospetto" [2].


In realtà il "sospetto" di Gorani era una certezza, al punto che persino una fonte cattolicissima come Gaetano Moroni non può tacere un "increscioso incidente" avvenuto nel 1752 fra Giacomo III Stuart, padre del ventisettenne cardinale di York, e il vivace figlioletto:


"Dispiaceva al re Giacomo III il gran favore che il cardinale accordava a monsignor Lercari suo maestro di camera [maggiordomo], onde gli fece intendere, che lo voleva licenziato dal suo servizio. Il cardinale che l'amava fuor di misura, continuava segretamente la sua amicizia, vedendosi spesso con lui ne' luoghi appuntati [dandogli appuntamento].
Irritossene maggiormente il re, e pregò con istanza il Papa, perché lungi da Roma facesse andare il Lercari.
Voleva il papa contentarlo, ma con un mezzo soave e prudente. Fu questo l'insinuare [suggerire] al cardinal [Nicola Maria] Lercari, che da sé medesimo consigliasse suo nipote a portarsi per qualche tempo in Genova loro patria. Ma non abbracciando il cardinal zio il suggerimento di Benedetto XIV, questi gl'inviò per la segreteria di stato [era ed è il "ministero dell'Interno" vaticano, NdR] un biglietto, con ordine di far partire subito il nipote, come in fatti seguì la notte de' 19 luglio.

Il cardinal duca [di York] se ne stimò vivamente offeso, e nella seguente notte partì ancor esso per Nocera, protestando di non metter più piede in Roma, se prima non gli era restituito monsignor Lercari. Quindi passò in Bologna, ove il Papa gli scrisse più lettere, nelle quali l'esortava a riflettere sul trionfo che farebbero gli eretici nel vedere la discordia di un cardinale di santa Chiesa, e di un principe sì rispettabile per le sue virtù (...).

Vinto il cardinale dalle ragioni e premure pontificie, accettò le condizioni, per riconciliarsi con l'augusto padre, che gli propose monsignor [Giovanni Giacomo] Millo datario (...), e partendo a' 12 dicembre, tornò in Roma" [3].


Di fronte alle pressioni del papa stesso il giovane cardinale non ebbe altra scelta che cedere e tornare a Roma per riconciliarsi col padre.
Fu solo dopo la morte del padre che il povero cardinale potè darsi ai suoi amori in tutta quiete, dato che, ed è ancora Moroni ad ammetterlo,
"egli amava avere nella sua corte gente bella e di vantaggiosa statura, siccome conviene a' grandi prìncipi" [4].

Particolarmente "vicino" gli fu dal 1769

"monsignor Angelo Cesarini nobile perugino (...) che aveva fatto canonico della cattedrale [di Frascati], e ottenutogli dal Papa la qualifica di suo cameriere d'onore: quindi a sua istanza Pio VII, nel concistoro de' 28 settembre 1801 (...) lo dichiarò vescovo di Milevi in partibus..." [5].
Quando lo Stuart morì, Cesarini era ancora al suo fianco, come lo era stato per ben trentadue anni.
Ciò fa pensare che o siamo di fronte ad una delle più lunghe (e quindi, si suppone, felici) relazioni fra uomini che la storia ci tramandi, oppure che finita la relazione erotica Cesarini fosse rimasto come amico e confidente del cardinale (io propendo per questa ipotesi, visto il pullulare di giovanotti nel palazzo).



Note
[1]-Hester Lynch Thrale, Thraliana. The diary of Mrs Hester Lynch Thrale (later Mrs. Piozzi), Clarendon Press, Oxford 1951, vol. II, pp. 874-875.-

[2]-Giuseppe Gorani, Mémoires secrets et critiques des cours, des gouvernements et des moeurs des principaux états de l'Italie, Buisson, Paris 1793, tomo 2, pp. 100-103; citazione da p. 101.

[3]-Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. CIII, Tipografia emiliana, Venezia 1861, pp. 323-336. Citazione dalle pp. 324-325.

[4]-Ibidem, p. 327.

[5]-Ibidem, p. 330.

[6]-Sul cardinale di York si veda anche: Diego Anelli, Storia romana di trent'anni. 1770-1800, Treves, Milano 1931, pp. 98-108, che però non parla d'omosessualità, come neppure l'agiografico: Pietro Bindelli, Enrico Stuart, cardinale duca di York, Associazione Tuscolana "Amici di Frascati", Frascati 1982.
Espliciti invece due libri inglesi (che non ho consultato): Brian Fothergill, The Cardinal King, Faber & Faber, London 1958, che parla degli amanti di Stuart, e James Lees-Milne, The last Stuarts, Chatto & Windus, London 1983, che dedica 35 pagine a Henry.

Varie immagini del cardinale sono infine sul sito della National Portrait Gallery.
(Un "grazie" a Stephen Wilson per i suggerimenti bibliografici).

oknotizie.virgilio.it/info/a518093f97c9ef/l_omosessualita_di_un_santo_alcuni_papi_e_car... _la_predicazione_delle_gerarchie_ecclesiastiche_fa_finta_di_non_sapere _condannando_in_modo_vergognoso_un_fatto_naturale..html
[Modificato da kelly70 08/05/2009 12:54]





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer