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Non è contro la volontà dello Spirito bruciare gli eretici


Ad Alessandro VI succedette, dopo il brevissimo pontificato di Pio III, Giulio II (1503-13), più capo militare che “pastore”, le cui guerre e le cui violenze sono note e il cui bellicismo fu duramente condannato dal filosofo cattolico olandese Erasmo da Rotterdam nei suoi Adagia del 1500: “Cosa c'è in comune fra la mitria e l'elmo, la santa tunica e la corazza di guerra, le benedizioni e i cannoni?”, scriveva Erasmo, “Con quale coraggio si insegna ciò che Cristo ha insegnato…quando poi si sconvolge il mondo nelle tempeste della guerra per ottenere il dominio di una piccola città… tu [Giulio II] che hai condotto alla morte così tante legioni, non hai guadagnato a Cristo una sola anima” (92).

Dopo di lui salì al soglio pontificio Leone X (1513-21), il papa che con la sua raccolta di fondi per la fabbrica di San Pietro e la distribuzione scandalosa delle indulgenze innescò la rivolta di Lutero e la Riforma che divisero l'Europa cristiana. Al centro di intrighi e oggetto di un tentativo di assassinio da parte del cardinale Petrucci e altri, sventò la congiura: “Il Petrucci, arrestato e processato, fu fatto strangolare in Castel S. Angelo il 6 luglio 1517; il de Nini e il Vercelli furono squartati” (93). Inasprì anche la persecuzione delle streghe, decretando, come si è già visto sopra, che nei casi più gravi fossero abbandonate al braccio secolare e infine, nella bolla Exurge del 1520, giustificò l'omicidio per ragioni di fede condannando questa proposizione di Lutero: “È contro la volontà dello Spirito che gli eretici siano bruciati” (94). Guerre promossero i suoi successori Adriano VI, che aderì alla lega imperiale e tentò di organizzare una crociata antiturca, e Clemente VII.



Inizia l'inquisizione romana

Con Paolo III (1534-49) e fino a tutto il Seicento si susseguirono sul trono di Pietro ventitré papi tutti coinvolti nella repressione sanguinosa delle eresie o in guerre e spedizioni militari, nel contesto dell'offensiva antiprotestante, eccetto tre di loro, Marcello II, Urbano VII, Leone XI, ognuno dei quali regnò appena pochi giorni.

Paolo III, tre anni prima di aprire il Concilio di Trento (1545-63), costituì e organizzò con la bolla Ab initio l'inquisizione romana. Durante il suo pontificato furono decine gli eretici mandati al rogo, soprattutto protestanti o valdesi (fra cui un loro esponente di rilievo come il Gonin) ma continuò soprattutto la repressione di massa dei valdesi, che nel 1532 avevano aderito alla Riforma. La crociata antieretica colpì le colonie valdesi della Provenza. Nel 1545 le truppe francesi, d'intesa con l'armata del papa che muoveva dalla vicina Avignone, strinsero in una morsa il borgo di Mérindol. “Il paese è devastato da bande di mercenari assoldati, i villaggi sono distrutti, pochi riescono a fuggire in Svizzera o in Piemonte; per gli altri non c'è che la morte o il triste destino di remare sino all'esaurimento sulle galere reali”. (94).

Dal 1550 al 1555 fu papa Giulio III, nepotista senza scrupoli, amante di rappresentazioni piccanti e lauti banchetti, che fece cardinale un probabile figlio. Condusse azioni militari contro Parma e Faenza, inasprì l'inquisizione che fece anche durante il suo pontificato numerose vittime e grazie al tradimento del pentito Pietro Manelfi potè distruggere gli anabattisti in Italia. Nello stato pontificio perseguì i bestemmiatori con pene severe e di classe, che andavano dalle multe per i nobili alla trafittura della lingua per i poveracci che non potevano pagare (95).

Ma la repressione dell'eresia raggiunse il suo culmine con Paolo IV Carafa (1555-59), che nominò grande inquisitore Michele Ghisleri, detto dalla sua città d'origine l'Alessandrino, il futuro Pio V. Nel 1556, ad Ancona, furono mandati a morte 25 marrani (ebrei convertiti al cristianesimo).

Uno dei documenti più significativi del tempo, che fa comprendere come la Chiesa proclamasse senza alcun pudore il diritto a servirsi contro gli eretici della tortura fino alla morte, mettendo da parte ogni scrupolo, è il Decreta 1 del Santo Ufficio. Emanato da Paolo IV nel 1557, abbandona l’ipocrita raccomandazione di Innocenzo IV a evitare ai torturati “danni fisici permanenti e il pericolo di morte” e concede una vera e propria licenza di torturare e uccidere: “Poiché è frequente il caso che intervengano alle sedute della Congregazione in materia di eresia, che avvengono alla Nostra presenza, vari chierici, secolari o religiosi… e spesso può accadere che… abbiano pronunciato un voto o un giudizio che abbia causato la mutilazione di un membro del corpo o versamento di sangue fino alla morte naturale o che ne sia seguita, o siano pronti a pronunciarlo; Noi, volendo favorire la sicurezza e la tranquillità della loro mente e della loro coscienza, diamo licenza e facoltà ai suddetti chierici di emettere voti e sentenze che non solo comportino interrogatori e torture nei confronti dei rei … ma anche [per] una pena appropriata e una condanna fino alla mutilazione o al versamento di sangue fino alla morte naturale inclusa, senza per questo incorrere in censura o in irregolarità; e, oltre a ciò, se fossero incorsi in qualche irregolarità, li dispensiamo” (96).

Numerosi furono gli eretici mandati al rogo. Paolo IV si distinse inoltre per le campagne militari condotte, in alleanza con la Francia, contro l'impero. Spietato, e segnato da molte esecuzioni capitali, fu anche il suo governo dello stato pontificio. Il che spiega l'odio popolare esploso alla sua morte e che costrinse a seppellirlo nascostamente nei sotterranei vaticani.



La distruzione dei valdesi di Calabria

Ostile ai Carafa, cioè ai parenti di Paolo IV, fu il papa che gli succedette, Pio IV (1559-65), che in parte mitigò l'inquisizione, ma non pose fine alle esecuzioni degli eretici né alle pratiche omicide. I nipoti di Paolo IV, corrotti e responsabili di vari delitti, furono processati e condannati a morte, con l'eccezione del più giovane cardinale Alfonso, che ebbe la grazia. Sul patibolo finirono nel 1565 anche un esaltato che aveva progettato di eliminare Pio IV e i complici. Ma soprattutto, negli anni in cui regnò Pio IV, si ebbe la sanguinosa repressione dei molti valdesi che da tempo, per sottrarsi alle persecuzioni in Piemonte, si erano trasferiti e vivevano pacificamente in Calabria, con la tacita complicità dei poteri feudali e anche di quelli ecclesiastici.. Tale silenzio fu rotto dalla vivace predicazione di due valdesi inviati da Ginevra, il maestro Giacomo Bonelli e il ministro Gian Luigi Pascale. Morto sul rogo a Palermo il primo, impiccato a Roma, dopo vari processi a Cosenza e Napoli, il secondo, il terribile Ghisleri inviò nel 1560 degli inquisitori a indagare sulla situazione esistente in Calabria: “a Cosenza”, scrive Tourn, “iniziano gli interrogatori con l'inevitabile seguito di torture, delazioni, ammende:..lentamente il terrore si sparge nelle campagne. Gli abitanti delle zone valdesi abbandonano i villaggi e si rifugiano nei boschi e sulle alture” (97). Ma nel corso di un'operazione di rastrellamento alcuni reagiscono, ricacciando la spedizione punitiva, che lascia sul terreno non pochi morti. La reazione è terribile. Nel 1561, con l'aiuto del vicerè di Napoli, le truppe papali ottengono la resa dei valdesi che si consegnano alle autorità. “Il 5 giugno S. Sisto con i suoi 6.000 abitanti, viene dato alle fiamme; Guardia Piemontese, conquistata poco dopo a tradimento…viene distrutta. I prigionieri sono arsi come torce, venduti schiavi ai mori, condannati a morire d'inedia nelle fosse di Cosenza. La repressione giunge al suo culmine nel massacro di Montalrto Uffugo, l'11 giugno, che un testimone oculare descrive in termini raccapriccianti: sulla scalinata della chiesa parrocchiale vennero scannati, come animali da macello, 88 valdesi, uno dopo l'altro, in un lago di sangue” (98).



Il più santo, il più assassino: Pio V

Non è che l'inizio per il Ghisleri, rappresentante dell'ala più intransigente dell'inquisizione romana. Divenuto nel 1566 papa Pio V (1566-72), le cose andarono anche peggio, come si può ricavare perfino dai reticenti racconti di biografi e storici cattolici, o addirittura clericali. “Nella severità contro la bestemmia, l’immoralità, la violazione dei giorni festivi”, scrive la cattolicissima Storia della Chiesa diretta da Jardin, “ed anche nello zelo inquisitoriale egli non rimase addietro a papa Carafa. Lo si tacciava di voler trasformare Roma in un convento; le condanne dell’Inquisizione venivano notificate ed eseguite con pubblici autodafè…[82 processi solo a Venezia]. Nell’insieme tali provvedimenti repressivi sono tuttavia ben superati dal positivo lavoro costruttivo” (99) fra cui lo storico elenca la pubblicazione del catechismo romano, del breviario e del messale… Difficile credere che queste opere “pie” bastino a cancellare l'empietà delle violenze, fra cui la trafittura della lingua e le galere per la bestemmia, o la decapitazione e il rogo per gli eretici (fra gli altri i protonotari apostolici Antonio Paleario e Pietro Carnesecchi, fattisi protestanti, o Nicolò Franco, editore e autore degli “avvisi”, antenati del nostro giornale), senza contare i murati vivi.

In quegli anni giunse al suo apice anche la repressione dei gay con le bolle Cum Primum (1566) e Horrendum illud scelus (1568). Per la prima volta si stabilì un rapporto diretto, come per gli eretici, fra le condanne dei tribunali ecclesiastici e la consegna dei condannati al braccio secolare, che di fatto, come sappiamo, significava fin dall'età di Gregorio IX esecuzione capitale. E' un altro esempio di come il papa abbia giustificato e “insegnato” il ricorso alla pena di morte. Ed è in applicazione di queste delibere di Pio V, valide non solo per lo stato della Chiesa ma anche per gli altri stati italiani, che Venezia diede a sua volta corso a processi ed esecuzioni capitali. Una in particolare se ne ricorda, nella seconda metà del Seicento, di cui fu vittima il priore e lettore di filosofia Antonio Rocco, autore del “libro turpe” L'Alcibiade fanciullo a scola, dove piacevolmente si racconta dell'iniziazione del fanciullo in questione alla pederastia. Così giustificava la condanna al rogo la sentenza emessa dalla inquisizione veneziana: "Con ardentissimo foco sopra la piazza piena di moltitudine ha da bruciare lo peccatore nemico scelleratissimo del nostro Signor Jesus Cristo, come lo Santo Papa Pio V disse a noi di facere" (100)..

Nello stato della chiesa, Pio V inasprì le pene comminate da Giulio III per chi bestemmiava e le estese a chi profanava la domenica, sempre con criteri di classe: “Un uomo del popolo”, scrive Ranke “il quale non possa pagare, per la prima volta deve stare un giorno davanti alle porte della chiesa con le mani legate dietro la schiena; per la seconda volta deve essere portato per la città e fustigato; per la terza volta, gli sia forata la lingua e sia mandato alle galere” (101).

Altre note azioni criminali, stragi e guerre, ammantate di cristiana pietà, ci narra Fabio Arduino, nel sito clericale già prima citato Santi e beati: “Pio V agiva con grande energia sul fronte della difesa della purezza della fede… Inviò in Francia proprie milizie contro gli Ugonotti tollerati dalla regina Caterina de’ Medici. Il re spagnolo Filippo II fu esortato da Pio V a reprimere il fanatismo anabattista nei Paesi Bassi….Per stornare la perpetua minaccia che i Turchi costituivano contro il mondo cristiano, il santo papa s’impegnò tenacemente per organizzare un lega di principi (Lepanto)”. Né sarà da trascurare che questo santo papa, scrive sempre Arduino, “per sottrarre i cattolici alle usure degli ebrei favorì i cosiddetti Monti di Pietà, relegando gli ebrei in appositi quartieri della città” (102), ossia nel ghetto…

La sua carità cristiana si espresse al meglio, quasi sul finire del pontificato e della vita, nella Lettera del 1570 al re cattolico Filippo II cui raccomandava: “[con gli eretici] riconciliarsi mai; non mai pietà; sterminate chi si sottomette e sterminate chi resiste; perseguitate a oltranza, uccidete, ardete, tutto vada a fuoco e a sangue purché sia vendicato il Signore” (103). E' questo autore e mandante di omicidi e stragi che ancora oggigiorno la Chiesa, dopo averne recentemente ripristinato il vecchio Messale in latino, addita quale esempio ai fedeli, venerandolo come santo.



Te deum per la notte di San Bartolomeo

Sulla linea di Pio V si mosse il successore Gregorio XIII (1572-85), sotto il cui pontificato numerosi furono gli eretici e gli ebrei mandati al rogo. Egli partecipò anche alla lega antiturca e teorizzò l'omicidio politico (per ragioni di fede) facendo scrivere dal suo segretario di stato al nunzio pontificio in Spagna a proposito della regina d'Inghilterra Elisabetta I: “Chiunque la toglie dal mondo al debito fine del servizio di Dio, non solo non pecca ma si acquista merito, soprattutto tenendo conto della sentenza lanciata contro di lei da Pio V” (104).

Nel 1572, quando 10.000 ugonotti furono trucidati a tradimento in Francia dai cattolici, il papa - “male informato sulla dinamica dei fatti”, cioè credendo che fosse stato sventato un attentato ai reali di Francia, secondo apologeti clericali come Vittorio Messori - fece celebrare un Te Deum di ringraziamento così narrato perfino sul sito ufficiale del Vaticano da Vittorino Grossi: “Sotto il pontificato di Gregorio XIII si ebbe la ‘notte di San Bartolomeo’... vale a dire la strage dei capi anticattolici (gli Ugonotti) a motivo dello sposalizio tra Enrico di Navarra dei Borboni, già capo degli Ugonotti, e Margherita di Valois, sorella del re di Francia. Ciò fu motivo in Francia di lotta di supremazia tra il cattolicesimo e il protestantesimo. La vittoria cattolica si concluse con il ringraziamento del papa nella chiesa nazionale di san Luigi dei Francesi”(105).

Del resto non sembra che in seguito, pur avendo il tempo di prendere opportune informazioni, il papa abbia cambiato avviso se è vero che, dopo aver festeggiato “con luminarie e tridui” lo scampato pericolo per la monarchia francese, “fece coniare una medaglia commemorativa dell'avvenimento, dando inoltre incarico al Vasari di affrescare nella sala Regia del Vaticano, insieme alla Battaglia di Lepanto, anche la notte di S. Bartolomeo” (106) e, inoltre, temendo una riconciliazione fra cattolici e ugonotti, scrisse una lettera al nunzio apostolico in Francia cardinal Orsini invitandolo a raccomandare al re di Francia Carlo IX, responsabile della strage di San Bartolomeo “che insistesse fortemente perché la cura così bene cominciata co' rimedi bruschi non guastasse con importuna umanità”(107).

A Gregorio XIII si deve anche un ulteriore inasprimento del giudizio sugli ebrei e della repressione contro di loro con la bolla De judaeorum del 1581, con la quale si assimila l'ebraismo a stregonerie, commerci col diavolo, insulti alla religione cristiana, includendolo nella “perversione eretica” su cui è competente a indagare l'inquisizione, con l'autorizzazione a procedere “come nelle cause della fede”, che sappiamo prevedere il rogo anche se qui si parla solo di pene più lievi quali fustigazioni, galera perpetua ecc. (108).



Sisto quinto, che non la perdona neanche a Cristo

Nel 1585 salì sul trono di Pietro Sisto V, che si meritò di passare in proverbio come papa "tosto" che non la perdona neppure a Cristo perché un giorno spaccò con una scure un crocifisso che le dicerie volevano "piangesse sangue" per mostrare il trucco, ossia le spugne intrise di sangue poste al suo interno (109). Questo papa cui, come egli stesso ebbe a dire, le esecuzioni capitali mettevano appetito, ne combinò in appena cinque anni di pontificato letteralmente “di tutti i colori” tanto che lo storico von Pastor si è lamentato del fatto che non gli sia stato attribuito il titolo di “Magno”. E grande fu davvero, sia nell'opera di rafforzamento e risanamento dello stato pontificio o nella lotta spietata contro i briganti, che colpì con la pena capitale, sia nei delitti.

Il giorno stesso della sua incoronazione, racconta Ranke, nonostante molte richieste di grazia, fece impiccare e appendere vicino al ponte di Castel S. Angelo quattro giovani che portavano un tipo di fucili vietato e poco dopo, sordo a ogni supplica, fece giustiziare un giovane ancora fanciullo, reo di aver resistito “agli sbirri che gli volevano togliere un asino” (110).

Due anni dopo, in quello che aveva trasformato in un vero e proprio stato di polizia, sorte ancora peggiore toccò ad Annibale Cappello, “scomunicato da Sua Santità et cascato in censura et pene ecclesiastiche”, informa un foglio di Avvisi del 23 ottobre 1587, “per aver scritto a diversi principi contro ogni dovere et giustizia cose poco lecite di questa corte [papale]” (111). Il 14 novembre 1587 gli Avvisi di Roma ci danno notizia che giustizia è stata fatta: “Hier sera fu degradato in S. Salvatore del Lauro quel don Annibale Cappello, et questa mattina è stato condotto al luogo solito della giustizia in Ponte, dove prima li è stato mozza una mano, tagliato la lingua et impiccato”(112).

Con la stessa inumana inflessibilità Sisto decretò che la pena di morte fosse estesa, sull’esempio del Dio biblico, all’aborto (trattandolo come omicidio fin dal concepimento benché allora fosse ritenuto tale solo dopo ottanta giorni) e anche all’uso di contraccettivi (bolla Effraenatam del 1588), dopo che l'aveva già estesa all’incesto (Motu proprio sui casi di incesto nello stato della Chiesa del 1587) e perfino all’adulterio (bolla De temeraria tori separatione del 1586). Va detto che, tuttavia, in epoca di imperante maschilismo estese con equità la pena di morte sia alle mogli che ai mariti…

Numerosi ovviamente i roghi contro gli eretici oltre che le condanne a morte (con la forca, che non volle sostituita dalla mannaia) per reati comuni.



Le "voci bianche" lodano meglio il Signore

Sisto V inoltre, come scrive Uta Heinemann, favorì la diffusione della castrazione “quando nel 1588 proibì alle donne, alle quali già dal IV secolo era proibito di cantare in chiesa, di esibirsi anche nei teatri pubblici e lirici di Roma e degli Stati della chiesa” (113). I castrati, usati come cantori in chiesa da vari secoli nella chiesa greca, erano entrati da poco in quella occidentale, a partire dalla Spagna. Solo qualche anno prima del decreto di Sisto V cui si è appena accennato, nel 1562, un castrato (lo spagnolo Francesco Soto) era entrato nel coro della Cappella Sistina. Da allora tuttavia l'uso si diffuse e la castrazione, pur condannata dalla Chiesa fin dal IV secolo, fu tollerata o addirittura incoraggiata anche da vari teologi. Il gesuita siciliano Tamburini, ad esempio, la sosteneva perché così sarebbe stata “più dolce da ascoltare la lode di Dio” (114).

La responsabilità del papato in questa mutilazione, che la dottrina cattolica ufficiale equiparava all'omicidio o al suicidio (se era autoinflitta), è indubbia. “I papi”, scrisse nel 1936 il gesuita Peter Browe, “sono stati proprio i primi che alla fine del XVI secolo hanno introdotto o tollerato nelle loro cappelle i castrati, quando questi erano ancora sconosciuti nei teatri e nelle altre chiese italiane” (115). “Nella cappella Sistina”, scrive Dechner, “per secoli hanno cantato con gubilo i castrati: fino al 1920! Non meno di trentadue ‘Santi Padri’…permisero senza scrupoli tale mutilazione” (116). In realtà 35, dal 1562 al 1920, da Pio IV a Benedetto XV; trentadue contando dal decreto di Sisto V. “L'ultimo castrato della basilica di S. Pietro morì nel 1924” (117).



Sangue, ancora sangue

Partecipazione a guerre e repressione dell'eresia continuarono a segnare la politica dei papi che si susseguirono fino a metà Settecento. Gregorio XIV (1590-91), papa per un anno, mandò un esercito mercenario contro la Francia. Il successore Innocenzo X (1591), eletto già vecchio e quasi morente, non smise di incitare, dal letto in cui giaceva, alla guerra contro il re di Francia.. Clemente VIII (1592-1605), oltre ad accentuare la repressione antiebraica, condannò a morte molti eretici. Gli sfuggì, dopo anni di dura carcerazione, simulando la pazzia, il filosofo Tommaso Campanella, ma non si salvò Giordano Bruno, che fu mandato al rogo con la lingua inchiavardata perché non profferisse bestemmie. Con la pena di morte Clemente risolse anche il processo contro la famosa Beatrice Cenci.

Paolo V (1605-21), che per primo condannò come contraria alle scritture la teoria copernicana e lanciò l'interdetto contro Venezia, perché intendeva processare e non consegnare alla Chiesa romana due chierici colpevoli di reati comuni, condannò a morte pochi giorni dopo la sua elezione un tal Piccinardi di Cremona, reo di aver scritto un libello contro Clemente VIII. In seguito prese parte alla sanguinosa guerra dei Trent'anni. Né ovviamente mancarono, sotto il suo pontificato, le condanne all'impiccagione o al rogo di numerosi eretici. Contro i protestanti e contro i turchi si schierò anche Gregorio XV (1621-23) che con la Omnipotentis dei del 20 marzo 1623, come si è già detto sopra, inasprì le condanne contro le streghe, stabilendo la pena capitale per chi era ritenuto responsabile di malefici mortali.

Anche Urbano VIII (1623-44), nepotista come pochi, prese parte alla guerra dei Trent'anni e si impegnò, perdendola, in una guerra contro il duca di Castro e Ronciglione, del cui ducato avevano cercato di impossessarsi i parenti del papa, i Barberini. Sotto il suo pontificato, oltre al processo e alla tortura di Galilei, si ebbero numerose condanne a morte di eretici o responsabili di aver offeso, come tal Giacinti Centini, la sovranità papale.

Per il resto del secolo, come si è già detto, si susseguirono papi spesso nepotisti e corrotti, in molti casi coinvolti in guerre locali (Innocenzo X riprese la guerra contro il ducato di Castro, che fu rasa al suolo dalle truppe pontificie nel 1649) o con i turchi (Clemente IX, Clemente X, Alessandro VIII, Innocenzo XII). Queste ultime favorirono anche un florido commercio di schiavi, posseduti dallo stato della chiesa come ci documenta il carteggio di Innocenzo X e altri papi. Alessandro VIII estese anche, con la bolla Cum alias felicis del 1690, i reati per cui era prevista la pena di morte nel suo stato. Sotto il pontificato di Alessandro VII (1655-57) e del beato Innocenzo XI (1676-89) si ebbero anche le ultime repressioni contro i valdesi condotte rispettivamente dal duca di Savoia su ispirazione della congregazione De propaganda fide nel 1655 (Pasque piemontesi) e dalle truppe franco-piemontesi nel 1686-89. Innocenzo XI riprese inoltre anche la serie delle impiccagioni per reati d’opinione nello stato della Chiesa, mandando alla forca nel 1685 Bernardino Scatolari, reo solo di aver scritto i soliti “foglietti” e.“carico di moglie e cinque figli” (118). Durante il suo pontificato fu perseguitato il quietista Miguel de Molinos, incarcerato a vita nel 1687, furono mandati a processo gli "ateisti" di Napoli e furono eseguite 65 pene capitali solo nella città di Roma, anche per reati minori dell’omicidio. Una decina di condanne capitali ebbe tempo di pronunciare a Roma nel suo breve pontificato Alessandro VIII (1789-91), mentre oltre una cinquantina di persone, di cui molte squartate, mandò a morte nella sola Roma Innocenzo XII, che fece anche decapitare dall’inquisizione due quietisti.

Nella prima metà del Settecento i papi di maggior rilievo furono Clemente XI (1700-21), che comminò pene capitali anche per bestemmie o reati politici e mandò a morte in Roma oltre 60 persone per reati comuni, e Clemente XII (1730-40), che ne mandò a morte oltre 30, anche squartate e per reati politici. Benché cieco, ammalato e a letto, finanziava le crociate contro i mori. Nel 1735 poi fece arrestare da agenti del Santo uffizio lo storico Pietro Giannone, uno dei maggiori intellettuali italiani di quel periodo, che morì nel 1748 nelle carceri sabaude. Nel 1739 fu arrestato a Firenze e rinchiuso nelle carceri della Santa Inquisizione in S. Croce anche il poeta massone Tommaso Crudeli che, dopo 16 mesi di dura carcerazione, ottenne di essere confinato nella sua casa di Poppi, dove morì nel 1745. Solo qualche decina di persone (sempre nella sola città di Roma) furono mandate a morte dai papi che si succedettero fra i due clementi: Innocenzo XIII e Benedetto XIII. Non abbiamo poi altri dati sulle esecuzioni capitali in Roma fino al 1796, da quando i dati sono riferiti non solo alla capitale ma all’intero stato pontificio.



Di nuovo accuse agli ebrei di omicidio rituale

A Clemente succedette Benedetto XIV (1740-58), considerato il più grande pontefice del secolo, stimato da Voltaire e ritenuto “illuminato”. In realtà con Voltaire aveva in comune l'antisemitismo, che manifestò sia sostenendo la teoria che il battesimo forzato, imposto contro il parere dei genitori, fosse comunque valido anche se illecito, sia accreditando la leggenda degli omicidi rituali nella sua Lettera “Beatus Andreas” del 1755 a monsignor Veterani. Benedetto XIV dà per accertato, anche sulla base dell'autorità di Sisto V che l'ha beatificato, e di Gregorio XIII che l'ha inserito nel Martirologio romano (dove resterà fino al Concilio Vaticano II) che un bimbetto trentino, il “beato Simone”, sia stato ucciso nel XV secolo dagli ebrei in odio alla fede. E a lui aggiunge come caso certo quello di un bambino dei suoi tempi, il “beato” Andrea, proseguendo con affermazioni che confermano la convinzione di questo papa “illuminato” circa gli omicidi rituali degli Ebrei. Egli scrive infatti al Veterani: “Resta ora, che il tutto si esamini e si veda se è conveniente che si dia corso alla Causa del Beato Andrea, o se è meglio, che si fermi nello stato in cui è… sarà proprio della di lei diligenza…il suggerire il partito che dovrà prendersi, quando succeda il caso, che per lo più suol essere di qualche Fanciullo ammazzato dagli Ebrei nella Settimana Santa in onta di Cristo, tali essendo gl’Infanticidi dei Beati Simone, ed Andrea” (119).

La posizione di Benedetto XIV è particolarmente grave in quanto, nei secoli precedenti, vari papi avevano difeso gli ebrei da questa accusa infamante, definendola priva di fondamento e in quanto essa verrà utilizzata dalla Chiesa fino al Novecento, quando in una dichiarazione del Santo Ufficio, approvata da Leone XIII, si legge: “Benché né in S. Officio né presso la Segreteria di Stato…nulla vi sia che abbia attinenza a tale accusa (le carte furono certamente involate in tempi di rivoluzioni, come dimostrasi da certi documenti che gli stessi ebrei metton fuori in loro difesa), pure è storicamente certo l'assassinio rituale, e ne parla Benedetto XIV; e la Santa Sede l'ha canonizzato con mettere sugli altari un bambino da essi ucciso in odio alla fede. Il detto assassinio è stato inoltre costatato e punito molte volte dai tribunali laici di Austria…” (120).

Inutile dire che così Benedetto XIV e i suoi successori diedero esca e giustificazione a tali tribunali laici nel commettere omicidi “reali” di ebrei, mandati a morte con queste false accuse.



Difendere la fede con le armi

A Benedetto XIV si deve anche l'ennesima giustificazione della guerra in difesa della fede. Infatti, in risposta agli argomenti pacifisti, scrisse: “il dire poi… che la religione cattolica non si può né si deve difendere coll'armi, ma col solo aiuto delle prediche e delle preghiere, sembra una proposizione più che temeraria” (121).

Il papa respinse nel 1848 anche la richiesta, che gli fu fatta da numerosi vescovi, di mettere fine alla vergogna dei castrati, osservando che adottando tale misura si rischiava di “svuotare le chiese” (122). Sotto il suo pontificato morirono Giannone e Crudeli, cui si rifiutò di concedere la libertà.

Gli succedettero nel periodo rivoluzionario e della restaurazione papi insignificanti o reazionari o tutte le due cose insieme: Pio VI (1775-99), autore di un editto contro gli ebrei che inasprì la loro ghetizzazione e di un'enciclica per piangere l'esecuzione capitale di Luigi XVI, condannare la democrazia ed elogiare l'assolutismo, oltre che di alcune pene capitali; Pio VII (1800-23), che comminò oltre 160 pene capitali, anche esclusi i quattro anni in cui Napoleone lo cacciò dallo stato; Leone XII (1823-29), che ne comminò oltre 35 nel suo breve regno, fra cui i primi carbonari; Pio VIII (1829-30), che in due anni di regno ne comminò una dozzina. Si tratta di pene capitali, talvolta con squarto, non tutte per omicidio, talora anche per reati politici.



Il potere temporale non si tocca

Buona parte del secolo XIX fu dominata dalle figure di due grandi papi reazionari, Gregorio XVI (1831-46) e Pio IX (1846-78), che condannarono come "delirio" la libertà di coscienza e pretesero il carattere confessionale dello stato. Per qualche aspetto si diversificarono. Gregorio, ad esempio, fu il primo a condannare formalmente la schiavitù, ormai eliminata da tutti i paesi civili, mentre Pio IX arrivò a definirla non del tutto contraria al diritto naturale. Al contrario Pio IX alimentò per qualche tempo l'illusione di una svolta in senso liberale dello stato pontificio, retto invece nel modo più ottusamente assolutistico da Gregorio. Ma entrambi furono irremovibili nel difendere il potere temporale, ricorrendo sia a guerre e sanguinose repressioni, sia alle esecuzioni capitali, anche per reati inferiori all’omicidio o per reati politici: oltre 110 Gregorio, 131 Pio. Furono inoltre entrambi antisemiti.

Nel 1840, quando scomparve a Damasco un frate capuccino, Tommaso, e gli ebrei furono accusati del (supposto) rapimento e del (supposto) assassinio, la Santa sede accreditò la tesi della colpevolezza degli ebrei e fece anzi circolare in Europa in modo segreto un opuscolo antisemita da essa ispirato. Numerosi ebrei furono imprigionati e solo in seguito a pressioni internazionali liberati. Anche Pio IX, accreditò nel 1867 la tesi dell'omicidio rituale e favorì le violenze contro gli ebrei, rafforzando il culto di Lorenzino di Marostica, un bambino del XIII secolo, martirizzato dagli ebrei, a sentire la leggenda. Pio IX fece inoltre rapire dei bambini ebrei, per educarli cristianamente. Nel 1852, quando aveva un anno, essendo ammalato, Edgardo Mortara fu battezzato di nascosto dalla domestica cattolica. Tanto bastò: cinque anni dopo, quando la cosa fu risaputa, i poliziotti pontifici irruppero in casa dei Mortara su ordine delle autorità ecclesiastiche, rapirono il bambino e lo portarono a Roma, dove fu rinchiuso in un istituto religioso fino ad età adulta, quando (questa volta di sua volontà) si fece sacerdote. Inutili le proteste dei genitori e perfino di molti sovrani europei: per Pio IX era “scattato” il caso previsto da Benedetto XIV del battesimo legittimo anche se illecito. Né il clamore suscitato dall’episodio modificò il comportamento del papa. Nel 1864, a Roma, l’undicenne Giuseppe Coen “fu fatto entrare con un sotterfugio nell’ospizio dei catecumeni” e lì rimase fino a quando uscì per diventare carmelitano “nonostante le clamorose proteste e l’immenso dolore dei famigliari: una sorella ne morì, la madre impazzì” (123).

Ma i due papi si distinsero soprattutto nella repressione militare e giudiziaria delle rivolte liberali. Invocando l'aiuto dell'Austria, Gregorio XVI schiacciò già nel 1831 i moti di Ferrara e Bologna e poi via via in quasi tutte le città dello stato pontificio. A Roma, dove nel 1836 “a peggiorare la situazione arrivò anche il colera… tra le repressioni dei moti e l'epidemia i morti furono migliaia” (124). Nuove insurrezioni e repressioni si ebbero nel 1845.

Quanto a Pio IX, neanche quando ormai era chiara l'imminente fine del potere temporale, rinunciò a impiegare l'esercito, provocando nuovi morti, per difendere Roma prima contro i garibaldini, poi a porta Pia il 20 settembre; né rinunciò a far decapitare, nonostante la richiesta di grazia del re d'Italia, i patrioti Monti e Targetti, ultimi di una lunga serie di condannati a morte.



Le guerre "giuste" di due Pii

Con la fine del potere temporale, i papi non ebbero più la possibilità di mettere direttamente a morte colpevoli di reati politici, religiosi o comuni e di indire guerre, distruggere città ribelli, reprimere le rivolte. Ma non per questo cessò il sostegno alla violenza, per non dire dell'ambiguo silenzio di fronte ad essa rimproverato da molti storici a Pio XII (1939-58) per gli stermini nazisti e, ancora più, per i campi di concentramento allestiti in Croazia durante la seconda guerra mondiale dagli ustascia cattolici di Ante Pavlic, regolarmente ricevuto in Vaticano e responsabile dell'eliminazione dl 300-600.000 serbi ed ebrei.

Quanto alle prese di posizione a favore della guerra ricordiamo che Pio XI (1922-39), per esempio, Al congresso internazionale delle infermiere cattoliche del 1935 giudicò favorevolmente la guerra coloniale “difensiva” degli italiani in Etiopia, rispolverando gli argomenti di Tommaso Moro prima ricordati: “una guerra …. divenuta necessaria per l’espansione di un popolo che aumenta di giorno in giorno, una guerra intrapresa per difendere o assicurare la sicurezza materiale di un Paese… una tale guerra si giustificherebbe da se sola”(125)

Concetti simili riportava “L'Osservatore Romano” ne L'idea colonizzatrice del 24 febbraio 1935 (“Le grandi ricchezze materiali che Iddio ha largamente profuso sulla terra per dare all'umanità benessere e pace, debbono essere poste a disposizione di tutti” e “si impone oggi il concetto…della collaborazione concorde fra le razze: fra dominatori e dominati”) o “La Civilità cattolica” del 1937 nell’articolo Giustizia ed espansione coloniale del gesuita Messineo (“Il diritto naturale permette di commerciare con tutti i popoli e coloro che rifiutano mancano di carità oltre che di giustizia…Se dunque queste popolazioni selvagge prendono le armi per impedire il commercio pacifico, non è forse vero che le nazioni civili hanno il diritto di armarsi ... e di impadronirsi del territorio?”)

Pio XII invece, in piena guerra fredda, ripropose dopo l’insurrezione ungherese la dottrina della guerra “giusta”: “risultato vano ogni sforzo per scongiurarla, la guerra, per difendersi… da ingiusti attacchi, non potrebbe essere considerata illecita” (126), non escludendo neppure, come disse altra volta, l'uso dell’atomica: “E neppure si può porre in via di principio la questione della liceità della guerra atomica, biologica e chimica, se non nel caso in cui essa dovesse essere giudicata indispensabile per difendersi nelle condizioni già dette” (127).

Cosa i due Pii intendessero per "difesa" è chiarito dal concorde sostegno alla insurrezione franchista contro il legittimo governo spagnolo. Nel Discorso ai figli perseguitati della Spagna del 1936, Pio XI disse: “la Nostra benedizione si volge in modo speciale a quanti si sono assunto il difficile e pericoloso compito di difendere e restaurare i diritti e l’onore di Dio e della Religione” (128). E, a vittoria raggiunta e instaurata la dittatura franchista, Pio XII nel Discorso del 1 aprile 1939 diceva: “Con immensa consolazione ci rivolgiamo a voi, figli carissimi della cattolica Spagna, per esprimervi le paterne congratulazioni per il dono della pace e della vittoria con cui Dio si è degnato coronare l'eroismo cristiano della vostra fede e carità…I disegni della Provvidenza si sono manifestati ancora una volta sull'eroica Spagna. La nazione scelta da Dio come principale strumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e baluardo inespugnabile della fede cattolica ha dato ai proseliti dell'ateismo materialista del nostro secolo la prova più alta che sopra di tutto si pongono i valori eterni della religione e dello spirito” (129).

Il cenno di Pio XII alla “nazione scelta da Dio” è poi significativo di come egli consideri “principale strumento di evangelizzazione del Nuovo mondo” la conquista ad opera dei colonialisti spagnoli e il conseguente genocidio. Che è quanto pensano, del resto, anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

continua...






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Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer