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Niente paura, e' solo un gioco

Ultimo Aggiornamento: 10/09/2012 01:00
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10/09/2012 01:00
 
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Prima ci è arrivata la letteratura, poi la matematica e infine la psicologia: la vita non è altro che un gioco, anzi un insieme di giochi

Niente paura, e' solo un gioco

Forse non tutti sanno che un gioco può essere una cosa molto seria, anzi addirittura tragica. Intendiamoci, non stiamo parlando del ludus romano - che comunque nelle manifestazioni gladiatorie assumeva una connotazione drammatica - ma piuttosto delle strategie, azioni e decisioni che caratterizzano ogni aspetto della nostra vita di animali sociali.
Se Pirandello ha forse meglio di tutti sviscerato il meccanismo dei ruoli e delle parti privilegiandone però l'aspetto intimistico-esistenziale, la matematica ha esteso questo concetto sviluppando una sistema formale, la Teoria dei giochi, che permette di descrivere le interazioni tra gli individui e i relativi processi decisionali finalizzati a un profitto, laddove la posta in gioco può essere di carattere economico, affettivo, sociale, lavorativo, ecc. E così, ad esempio, un gruppo di lavoro, una serata tra amici, una conquista sentimentale sono in realtà giochi in cui ogni partecipante mette in atto le strategie che gli consentono di massimizzare il suo guadagno in funzione dello scopo che si è prefissato (nei casi citati potrebbero essere diventarne il leader, divertirsi, costruire una coppia). La logica, quindi, non è sempre mors tua vita mea: al fianco di competizioni in cui la vincita di uno corrisponde alla speculare perdita dell'altro o degli altri (esemplificate bene dagli scacchi o, appunto, dal combattimento tra gladiatori) esistono giochi in cui tanto maggiore è il profitto di un giocatore, tanto maggiore sarà quello degli altri. E poi ci sono i giochi cooperativi in cui i giocatori possono stringere alleanze tra loro per massimizzare il profitto del gruppo e quelli non cooperativi in cui ognuno gioca solo per sé. E ancora, ci sono giochi in cui le mosse di un giocatore non dipendono da quelle degli altri e, viceversa, giochi in cui ogni mossa condiziona quelle altrui (ad esempio nei rapporti sociali o nelle strategie belliche). Insomma ce n'è per tutti i gusti e soprattutto per ogni situazione, dalle relazioni affettive all'economia finanziaria, dallo sport alla politica.


È naturale però che la formalizzazione matematica dei processi umani porti con sé qualche forzatura rispetto alla vita reale: la Teoria dei giochi assume che ogni partecipante conosca le regole del gioco, sia consapevole di tutte le possibili mosse e delle loro eventuali conseguenze e scelga la sua strategia in modo razionale. Circostanze, per l'appunto, un po' artificiose: nella vita a volte non sono note le regole, a volte non è chiaro il numero esatto di giocatori e spesso e volentieri non si è neanche consapevoli che si sta giocando. Ma a tutto ciò risponde, come vedremo, la psicologia.


La Teoria dei giochi - che si è sviluppata a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso - ci ha fornito anche un tranquillizzante concetto di equilibrio, ossia l'esistenza di almeno una situazione in cui ogni giocatore non può più aumentare il suo profitto semplicemente modificando la sua strategia. Questo stato di equilibrio, che di fatto è la soluzione (o una delle soluzioni) del gioco, si verifica nei giochi non cooperativi in cui la strategia di ogni partecipante non dipende da quelle adottate dagli altri. Il che ci mette, psicologicamente parlando, al riparo dal rischio di "perdere tutto" in caso di mosse sbagliate e ci mostra che è sempre possibile arrivare a una soluzione di vantaggio per tutti i giocatori.
La scoperta dell'equilibrio nei giochi non cooperativi la dobbiamo a John Nash, il matematico cui è ispirato il libro (e poi il film) "A beautiful mind" e questa situazione di "favore" per tutti i giocatori viene per l'appunto chiamata "equilibrio di Nash". Le applicazioni del teorema di Nash spaziano dall'economia alle scienze sociali e perfino alla psicologia purché, e qui sta l'enorme stacco con la matematica, i giocatori scelgano in modo razionale le proprie strategie.

Pur costituendo una tranquillizzante punto di arrivo di un gioco, non è detto però che l'equilibrio di Nash garantisca la soluzione migliore per tutti. Per capire perché possiamo ricorrere al "Dilemma del prigioniero", un gioco - o meglio un paradosso - proposto negli anni Cinquanta da Albert Tucker che è stato spesso utilizzato per descrivere la corsa agli armamenti nella guerra fredda tra Usa e Urss. Due presunti criminali vengono arrestati per un reato e incarcerati in celle diverse senza la possibilità di parlare tra loro. I due possono scegliere se confessare o meno il reato, ma viene detto loro che se uno confessa e l'altro no il primo verrà liberato mentre il secondo dovrà scontare dieci anni di carcere; se confessano entrambi ognuno dei due dovrà scontare sei anni; se non confessano entrambi dovranno scontare un anno ciascuno. È ovvio che la scelta migliore per entrambi sia non confessare e scontare così un solo anno di carcere. Ma i due non possono comunicare, e ognuno sa che se tace mentre l'altro confessa dovrà scontare dieci anni, mentre se confessa ne sconterà al massimo sei (o zero se anche l'altro non confessa). E quindi, per minimizzare la pena, gli conviene confessare. Ciò dimostra che la scelta razionale, che nel caso particolare corrisponde a un equilibrio di Nash, non certo la migliore. Per scegliere la strategia ottimale (non confessare) i due dovrebbero accordarsi, trasformando così il gioco da non cooperativo a cooperativo.
Il dilemma del prigioniero ci dà l'idea di come vada la vita al di là dei giochi formali: l'impossibilità di comunicazione tra i due giocatori, la mancanza di fiducia nell'altro e nelle sue capacità di analisi portano a una soluzione sfavorevole per entrambi (sei anni di carcere) rispetto a quella che massimizza il loro profitto (solo un anno).

Incalzata dallo stimolo matematico, a partire dagli anni Sessanta anche la psicologia si è occupata dei giochi, partendo però da presupposti completamente diversi. Innanzitutto perché ne definisce la natura paradossale (la frase "Questo è un gioco", ossia non è ciò che dovrebbe essere e quindi è qualcosa che non è, somiglia molto al famoso paradosso di Epimenide "Questa frase è falsa"). Poi perché definisce, attraverso gli studi di Eric Berne, lo psicanalista canadese padre della Analisi transazionale, tre "stati dell'io" che ogni giocatore può assumere: Genitore, Adulto, Bambino. A seguire perché chi sta giocando non ne è consapevole e non agisce razionalmente. In ultimo, anche in psicologia ogni gioco ha una posta, ma spesso è esattamente il contrario di ciò che appare.
I guai, nei giochi sociali, si presentano quando l'interazione è tra giocatori che assumono stati diversi dell'io (transazione incrociata), e quindi, nel caso di giochi a due, tra un Genitore e un Bambino, tra un Adulto e un Bambino e così via. Perché se il gioco si svolge su un livello paritario (Adulto-Adulto, Genitore-Genitore, Bambino-Bambino) la comunicazione tra i giocatori procede sullo stesso piano di entrambi senza intoppi e conseguenti drammi. A titolo di esempio, consideriamo il gioco "Perché non. Sì ma" descritto da Berne in "A che gioco giochiamo" (edizione italiana Bompiani, 1964). La protagonista (Bianco) si lamenta del marito con alcuni amici:

Bianco: "Mio marito vuole riparare tutto da sé ma non ne fa mai una buona"
Verde: "Perché non segue qualche corso?"
Bianco: "Sì, ma non ha tempo"
Giallo: "Perché non gli compri dei buoni attrezzi?"
Bianco: "Sì, ma non sa usarli"
Nero: "Perché non chiamate operai specializzati?"
Bianco: "Sì, ma costano troppo".

E così via: la donna boccia ogni proposta degli amici. È evidente che il suo scopo non è, come potrebbe sembrare, ottenere dei consigli su come arginare un marito pasticcione, ma esattamente il contrario: essere certa che nessuno tra i suoi interlocutori trovi soluzioni che lei non abbia già scartato. Mira cioè alla rassicurazione della Bambina che è in sé. Ma c'è di più. L'inconsapevolezza del gioco e l'irrazionalità con cui si conduce fanno sì che ogni essere umano cerchi di perpetuarlo per soddisfare i propri bisogni e cerchi quindi "avversari" che glielo lascino fare.
Nell'esempio del "Perché non. Sì, ma" se uno degli interlocutori invece di comportarsi come un Genitore ("Perché non.?") assumesse la veste dell'Adulto e chiedesse "E quindi che vuoi fare con tuo marito?", probabilmente la protagonista si stancherebbe della conversazione ed eviterebbe di cercare ancora l'interlocuzione con quella persona che la proietta, con la sua domanda, su un piano diverso, quello Adulto. E questo vale per tutte le nostre relazioni sociali: tendiamo a replicare gli stessi giochi in ogni tipologia di relazione (di coppia, di amicizia, di lavoro, .) e a cercare compagni di gioco compiacenti. Almeno fin quando non ne siamo coscienti.

E l'equilibrio di Nash dove va a finire, in giochi siffatti? Chiedendo sin da subito venia per l'azzardo agli addetti ai lavori - di cui chi scrive non fa parte -, potremmo dire che l'equilibrio di cui parla Nash si raggiunge quando ogni giocatore si relaziona come un Adulto e sceglie la strategia migliore per sé a prescindere da quelle degli altri. In altre parole quando ognuno riesce ad attivare il livello razionale che lo rende consapevole del vero scopo che sta perseguendo e delle conseguenze delle sue mosse. Ma siamo sempre nel campo della teoria, perché nella vita non è detto che i giocatori con cui siamo di volta in volta coinvolti intervengano nel gioco con il loro lato Adulto e non è certo facile portarli a un cambio di ruolo. Se però almeno noi ci poniamo come Adulti, sapremo come comportarci per evitare i giochi "a perdere", quelli che aumentano l'insoddisfazione fino a diventare tragici. Eventualmente, con buona pace di Nash e del suo equilibrio, abbandonando la partita prima che i nostri compagni di gioco, Bambini o Genitori che siano, ci portino proprio in quella direzione.

Cecilia Calamani

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