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"AT e NT: due religioni diverse e rivali".

Ultimo Aggiornamento: 29/07/2013 15:03
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29/07/2013 14:53
 
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La verità di fondo: estraneità e opposizione dei due testamenti
JahvèLa Scrittura cristiana comprende due parti: il Vecchio (o Antico) Testamento e il Nuovo Testamento (in sigla: VT, AT, NT).

Venti secoli di esegesi, di teologia, di catechesi, di apologetica hanno inculcato quasi ossessivamente l’ idea che l’ Antico Testamento è una preparazione al Nuovo (preparazione sapientemente disposta da Dio nella prospettiva della cosiddetta “Storia della salvezza”) e che il Nuovo Testamento è un compimento (nonché, per certi versi, un superamento) dell’ Antico.

Noi, al contrario, ci proponiamo di dimostrare in primo luogo che VT e NT sono l’ espressione di due fedi religiose radicalmente diverse e sostanzialmente estranee l’ una all’ altra; e in secondo luogo che tra di esse esiste un rapporto di oggettiva opposizione e conflittualità, dovuto alle circostanze in cui il cristianesimo è nato.

Nonostante gli illustri precedenti di Marcione e di vari studiosi degli ultimi tre secoli (su cui si veda il capitolo “Da Marcione alla critica biblica moderna”), sappiamo che un’ asserzione tanto perentoria può apparire infondata e stravagante, per non dire semplicemente risibile: una provocazione da liquidare senza ulteriore esame.

È vero infatti che sono molti a ritenere l’ AT assai difforme dal Nuovo, tanto da giudicare infelice la scelta della Chiesa di recepirlo nella sua integrità, senza operare alcuna potatura; e soprattutto le manifestazioni dell’ ira e della violenza di Yahweh appaiono incompatibili con le caratteristiche del “Dio di Gesù”; ma questo non induce in genere a considerare le due sezioni della Scrittura due mondi diversi che poco o nulla hanno in comune.

 

A nostro giudizio invece le cose stanno proprio in questi termini; e per suffragare la nostra tesi partiamo da una considerazione che potrà sembrare strana ma è incontrovertibile.

Benché si affermi comunemente che sono decine, o addirittura centinaia, le allusioni veterotestamentarie alla futura incarnazione del Verbo, in realtà l’ AT non contiene alcun preannunzio di Gesù: tutte le supposte “profezie” che riguarderebbero il Nazareno sono in realtà profezie messianiche, si riferiscono cioè alla venuta di un uomo mandato da Dio e da lui a questo scopo consacrato, cioè “unto” (tale è il significato dell’ ebraico mashiah, da cui il nostro ‘messia’ , e del suo equivalente greco christós).

 

Ma la verità fondante il cristianesimo è che Gesù non è semplicemente il Messia, ma è figlio di Dio e Dio egli stesso. Non serve, come ripetono giustamente sia Benedetto XVI che padre Livio Fanzaga, proclamare che egli era un grand’ uomo, che ha detto cose sublimi, o magari anche che era stato inviato da Dio, in quanto appunto Messia: chi non è convinto che Gesù è Dio non è cristiano.

Di qui un corollario evidentissimo: contrariamente a quanto si ripete con ossessiva determinazione, Gesù non è minimamente presente nell’ AT.

Non vi è infatti, in tutta la Bibbia ebraica, una sola sillaba che faccia onestamente e legittimamente pensare che Dio abbia un figlio (ovvero che sia Padre e Figlio insieme) e che questo figlio sia destinato a incarnarsi.

 

Giova ripetere: tutte le innumerevoli profezie che l’ apologetica puntigliosamente elenca come preannnunzi più o meno espliciti del Verbo incarnato in realtà non sono che profezie messianiche nel senso proprio della parola, vale a dire allusioni al Messia, cioè a un uomo, un semplice uomo, mandato da Dio e “unto” in vista di una missione; missione, si badi bene, non di redenzione dell’ umanità, bensì di riscatto del popolo ebraico (così mostrano di pensare ancora i due discepoli di Emmaus, dopo oltre un biennio di ministero pubblico, e addirittura tutti gli apostoli al termine dei “quaranta giorni” giorni di cui si parla all’ inizio degli “Atti”).

 

Sulla scia di questa conclusione, non sarà difficile osservare che nell’ Antico Testamento mancano completamente, oltre ai due misteri fondamentali - la Trinità e l’ Incarnazione -, quasi tutti gli altri elementi propri e qualificanti del cristianesimo.

 

Nel capitolo seguente ne facciamo un elenco ragionato, che costituirà la struttura portante della nostra argomentazione.

Prescindendo infatti da ogni considerazione di ordine latamente filologico, quali furono quelle che indussero già vari studiosi degli ultimi tre secoli a denunciare, come si è accennato, l’ eterogeneità dell’ Antico Testamento rispetto al Nuovo, noi usiamo un criterio assolutamente obiettivo: facciamo una sorta di inventario delle più importanti caratteristiche della religione cristiana e ne mostriamo la completa assenza nel primo Testamento.

Compiliamo cioè una scheda, una carta d’ identità del cristianesimo, che risulta clamorosamente diversa da quella che scaturisce dai testi veterotestamentari.

 

Ovvero, per usare una metafora più attuale, diremo che cerchiamo di abbozzare una mappa genetica del depositum fidei della Chiesa, mostrando che il genoma di tale patrimonio dogmatico non rivela una significativa parentela biologica col giudaismo precristiano testimoniato dalla Bibbia ebraica.

Una sorta di test del DNA, insomma, i cui risultati ci sembrano confermare la nostra tesi al di là di ogni ragionevole dubbio.

 

Naturalmente il Nuovo Testamento che noi poniamo a confronto con l’ Antico è quello conforme all’ interpretazione che ne ha dato la Chiesa. Non possiamo in questa sede discutere, caso per caso, se e quanto tale interpretazione rispecchi effettivamente il contenuto dei testi neotestamentari, nei quali peraltro si incontrano contraddizioni a non finire.

A prescindere dalla problematica del “Gesù storico”, a noi preme semplicemente dimostrare la pressoché totale estraneità del VT alla dottrina, allo spirito e alla pratica religiosa del credo cristiano quale si è definito nel corso dei secoli.

 

Ancora una precisazione. Parlando di “completa assenza”, nell’ AT, dei tratti più qualificanti del cristianesimo, intendiamo dire che tali elementi non vi figurano neppure come allusioni, prefigurazioni, preannunzi; oppure che (in rari casi) si trovano presenti in uno stadio puramente embrionale rispetto al ruolo assunto nel NT e nei successivi sviluppi, sì da poter venire considerati non più che labili tracce. Nell’ esame dei singoli punti le due situazioni verranno opportunamente distinte.

 

Cinque di questi punti (Trinità, universalità della religione, missionarietà, giustificazione per mezzo della fede e martirio) sono stati corredati di un approfondimento che, per non appesantire il commento all’ elenco, abbiamo consegnato ad altrettante “postille”. Tali postille sono destinate agli scettici, i quali potrebbero richiedere argomentazioni più numerose e disamine più analitiche per accettare le nostre tesi. Chi non avesse di questi dubbi può ignorarle.

http://www.controapologetica.info/testi.php?sottotitolo=La verità di fondo: estraneità e opposizione dei due Testamenti
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La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
Apocalisse Laica
Le religioni dividono. L'ateismo unisce


Il sonno della ragione genera mostri (Goya)


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29/07/2013 14:57
 
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Tratti qualificanti del cristianesimo completamente estranei all' Antico Testamento


Trinità divinaAvvertenze preliminari -

a) L’ elenco che segue è stato allestito tenendo presente in primo luogo la dottrina cattolica; per il protestantesimo alcuni punti non valgono o valgono in misura parziale: tali sono ad esempio, rispettivamente, confessione ed eucaristia. Ed è superfluo ricordare, sempre a titolo di esempio, che la dimensione mariologica è per i protestanti assai meno importante che per cattolici e ortodossi.

b) Convenzionalmente, per non appesantire inutilmente il discorso, ci riferiamo al Dio veterotestamentario sempre col nome di Yahweh. Per la stesso motivo, di regola non facciamo distinzione tra ebraismo e giudaismo.

1.  Trinità: Dio è uno e trino.  È il primo e fondamentale dogma del cristianesimo, seccamente rifiutato dalle altre religioni monoteiste in quanto giudicato incompatibile col monoteismo stesso.

A prescindere da quanto vogliamo pensare circa la figura e la realtà dello Spirito Santo - il cui statuto ontologico di “spirazione” di amore del Padre e del Figlio, ovvero di “automanifestazione di Dio”, consente di trovare più o meno pretestuose anticipazioni nei testi veterotestamentari (a partire dallo “Spirito di Dio” che “aleggiava sulle acque” di Gn 1,2, spirito che per i più autorevoli studiosi è in realtà un vento impetuoso) - è indubitabile che di un figlio di Yahweh (ovvero di un Dio consistente in più “persone”) non si trova menzione alcuna nell’ AT.

Perciò, quando Gesù si presentava dicendo candidamente “Mi manda il Padre”, sarebbe stato logico che tutti gli domandassero (dato che per gli Ebrei, come ci viene continuamente ricordato, “ciò che non è nel Libro non esiste”): “Ma dov’ è che la Scrittura parla di un Padre e di un Figlio? Indicaci i passi”. E Gesù sarebbe stato subito messo a tacere.

Naturalmente è possibile che tale domanda sia stata effettivamente posta; ma è un dato di fatto che i resoconti evangelici non ne fanno parola.

 

Chi non fosse convinto di queste affermazioni può leggere la “Postilla sulle profezie trinitarie”, nella quale esaminiamo analiticamente una dozzina di presunte profezie in cui l’ apologetica vede un preannunzio del dogma trinitario.

 

2.  Incarnazione: Dio si fa uomo.  Per il secondo dei due dogmi fondamentali del cristianesimo vale quanto si è detto al punto precedente. A Gesù che diceva di venire dal cielo, dove era destinato a tornare, si sarebbe dovuto chiedere: “Ma dove sta scritto che Dio scenderà sulla terra per assumere natura umana?”  E non si vede proprio quale avrebbe potuto essere la risposta.

Va notato che per i cristiani l’ Incarnazione sarebbe avvenuta anche se Adamo ed Eva non avessero peccato (tesi detta “scotista” perché affacciata a suo tempo da Duns Scoto), in quanto facente parte del progetto originario di Dio sull’ uomo. Con la sola differenza che se non fosse stato commesso il peccato originale non si sarebbe reso necessario il sacrificio del Golgota.

 

3.  Passione e morte (!) di Dio, seguite dalla Risurrezione.  Pure di questa inaudita “novità” del cristianesimo non vi è alcuna anticipazione nell’ AT.

Va detto che la teologia afferma ufficialmente che Cristo in quanto Dio non è morto; ma, a parte la formula, pure ufficiale, Unus de Trinitate passus est carne (DS 401; e chiaramente colui che ha patito sulla croce è lo stesso che vi è poi morto), è indubitabile che la catechesi, l’ omiletica e la devozione stessa non hanno mai cessato di considerare come vittima del sacrificio del Golgota (rinnovantesi nella Messa) il Figlio stesso di Dio, secondo Gv 3,16: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, l’ unigenito ...”.

Da notare poi che da qui deriva il simbolo stesso della fede cristiana, il crocifissso, e più in generale la croce, la quale non solo non ha nessun ruolo nell’ AT, ma è addirittura estranea alla cultura ebraica, essendo una modalità di esecuzione capitale introdotta dai romani.

 

4.  Universalità della religione.  Viene meno la funzione del “popolo eletto”: tutte le genti sono a pieno titolo popolo di Dio e aspiranti al suo regno.

Ne consegue la scomparsa di una “sede geografica” della religione, che abbandona la terra originaria, quella promessa da Dio stesso ad Abramo.

Nell’ AT mai si dice che l’ elezione di Israele debba un giorno finire, avendo ormai esaurito il suo ruolo propedeutico, per dar luogo a un rapporto egualitario di tutti i popoli del mondo rispetto all’ unico Dio.

 

A tale radicale mutamento accenna Gesù, quando dice che “molti verranno dall’ oriente e dall’ occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori” (Mt 8,11-12); e sono da notare poi le implicazioni teologiche della parabola delle nozze regali, in cui i primi chiamati, avendo declinato l’ invito, vengono esclusi dal banchetto e sostituiti da altri (pur se è possibile che l’ atteggiamento di Gesù su questo punto fosse ancora oscillante, come si potrebbe ricavare da espressioni quali “non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’ Israele”, v. Mt 15, 24).

 

Va detto che nel libro di Isaia e in alcuni salmi compaiono vari accenni ad un’ apertura ai non ebrei (sia individui che popoli) da parte del Dio d’ Israele. Ma, per vari motivi, essi non sono tali da porre minimamente in dubbio la tesi di una differenza radicale tra i due testamenti circa l’ universalità della religione.

Qui ci limitiamo a dire che le rappresentazioni veterotestamentarie di una riunione escatologica di tutte le genti finalmente pacificate hanno sempre come sede Gerusalemme (v. ad es. Is 2; 56; 60; 66; si potrebbe parlare di “escatologie gerosolimitane”): nessun accenno a una “nuova alleanza” i cui contraenti siano diversi da quelli dell’ alleanza mosaica.

 

In particolare, il riferimento che i commentatori, nel racconto dell’ istituzione dell’ eucaristia, fanno a Ger 31, 31 come preannunzio di una “nuova alleanza” è del tutto fuorviante: nel passo si parla solo dell’ antica alleanza, così come in Es 24, dove si trova la descrizione della cerimonia che la istituisce.

Su questo punto si possono vedere le ulteriori considerazioni contenute in “Postilla sulla Nuova alleanza”.

 

5.  Missionarietà, proselitismo.  Logica conseguenza di quanto detto al punto precedente: diventa addirittura imperativo quel che per i giudei era in via di principio impensabile.

Nell’ AT vi è un fortissimo radicamento locale, dovuto al legame di Israele con la Palestina, la Terra promessa: gli altri popoli sono semmai da sopprimere fisicamente (come avviene durante la conquista della Terra di Canaan), o tutt’ al più da inglobare (vedi il caso dei Gabaoniti), non da convertire. Dopo il ritorno dall’ esilio viene addirittura compiuta una vera e propria pulizia etnica, con il rinvio al paese d’ origine, insieme ai figli, delle donne straniere prese in moglie dagli israeliti (Esd 10, 44).

 

È vero che, propriamente parlando, alle origini dell’ elezione di Israele non vi è una ragione etnica, per il semplice fatto che non vi è ragione alcuna, di alcun genere. La nazione non viene privilegiata per propri meriti particolari: la scelta del Signore è sovranamente libera, “immotivata” per definizione.

Il mantenimento dell’ elezione è inoltre subordinato al rispetto delle norme del patto: “Che la terra non vomiti anche voi, per averla resa impura, come ha vomitato chi l'abitava prima di voi” (Lv 18, 28); e analogamente, due capitoli più avanti: “Osserverete dunque tutte le mie leggi e tutte le mie prescrizioni e le metterete in pratica, perché la terra dove io vi conduco per abitarla non vi vomiti” (Lv 20, 22).

 

Ma è indiscutibile che, a prescindere dalla motivazione originaria della scelta divina, la religione ha una base etnica, è la religione di un popolo scelto da Dio stesso; è perciò in via di principio assurdo puntare all’ acquisizione di nuovi seguaci appartenenti ad etnie diverse.

 

Col cristianesimo nasce invece l’ idea che la parola di Dio deve venir annunciata a quanti più uomini possibile, su tutta la terra. Vi è cioè l’ impegno programmatico, istituzionale, inderogabile, alla conversione di tutte le genti. Questo per il bene delle anime, poiché extra ecclesiam nulla salus: la salvezza eterna di ogni anima passa necessariamente attraverso Cristo e la sua Chiesa.

E, pur se l’ impegno all’ evangelizzazione riguarda in primo luogo l’ istituzione ecclesiatica, ciascun battezzato è tenuto a testimoniare la propria fede, nell’ ambiente in cui vive, con la parola e con l’ esempio.

Su questo punto si veda “Postilla sulla missione”.

 

6.  Eucaristia.  Si tratta di un elemento assolutamente qualificante e irrinunciabile del cristianesimo, addirittura centrale nel cattolicesimo. Ma l’ idea di un banchetto sacro in cui si mangia nientemeno che il corpo di un uomo-Dio faceva semplicemente inorridire il pio giudeo, come confermano le reazioni al “discorso sul pane di vita” di Gv 6. 

L’ idea viene invece trovata affascinante e immediatamente accettata proprio da chi non aveva avuto nessuna “preparazione”, cioè i pagani, che avevano nella loro cultura tradizioni simili (rubricate come teofagia), del tutto estranee alla cultura semitica. In ciò Gesù non è ebreo per niente; quanto meno, s’ intende, il Gesù di Giovanni (si veda a questo proposito quanto diciamo circa le due concezioni dell’ eucaristia).

 

7.  Escatologia: destino oltremondano delle anime, con due diverse condizioni - di dannazione e di beatitudine - come premio o castigo per la condotta terrena dell’ uomo.

Di questo nel VT troviamo un accenno solo in Daniele (siamo nell’ ambito dell’  “apocalittica”, genere di letteratura religiosa fiorente nei primi due secoli a. C. e in quello successivo) e in un paio di testi “deuterocanonici”, che non sono giudaici, e vengono completamente ignorati da Gesù e da tutti gli autori del NT (il loro utilizzo si è avuto successivamente, nell’ era cristiana; su questo tema torniamo nel capitolo seguente).

Di fatto, inferno e paradiso li porta Gesù; del purgatorio vi è solo un minimo (e controverso) accenno nel deuterocanonico libro dei Maccabei.

 

Yahweh, quando vuole minacciare, prospetta solo tribolazioni terrene, accumulandole a volte in modo grottesco (vedi ad esempio le “maledizioni” di Dt 28); analogamente, oggetto delle sue promesse sono sempre beni materiali: prosperità, vino, olio, terra dove scorre latte e miele, nonché pace e sicurezza. Mai un accenno a un destino oltremondano legato al comportamento tenuto in vita: le anime dei defunti sono destinate a macerarsi indefinitamente nello sheol, in una forma di sussistenza degradata e vuota.

 

Diametralmente opposto l’ atteggiamento di Gesù, che presenta la vita terrena come insignificante rispetto a quella oltremondana, l’ unica per cui ha senso adoperarsi: 

“Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano (Mt 6, 19-20); “Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?” (Mt 16, 26).

Siamo di fronte a un vero e proprio rovesciamento di prospettiva.

 

8.  Peccato originale.  Paolo afferma che tutti gli uomini hanno peccato in Adamo; su questo spunto sant’ Agostino ha “inventato”, o quanto meno formalizzato, la tesi della trasmissione ereditaria del peccato commesso dai progenitori, la tesi cioè di quello che si definisce “peccato originale originato”: tutti gli uomini nascono portatori di peccato, e solo il Battesimo può consentire loro di evitare la dannazione eterna.

Nella prospettiva ebraica il racconto di Gn 3 non significa nulla per il destino spirituale dell’ uomo. Le conseguenze della “caduta” sono solo materiali: fatica per l’ uomo, maternità dolorosa per la donna, così come condanna a strisciare per il serpente; si tratta insomma di un tipico mito eziologico.

Ed è importante notare che anche Gesù al peccato originale non accenna mai, mentre avrebbe avuto mille buone occasioni per farlo, proprio per dare fondamento alla sua missione redentiva.

 

9.  Giustificazione per mezzo della fede.  Si tratta di una dottrina paolina la cui espressione più sintetica e più nota si trova nella Lettera ai Romani: “Se con la tua bocca proclamerai: ‘Gesù è il Signore!’ , e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10, 9).

 È connessa a quella del peccato originale, e viene particolarmente enfatizzata dai protestanti (cfr. le formule luterane sola fide e pecca fortiter sed crede fortius), mentre in ambito cattolico viene accolta in associazione a quella della giustificazione mediante le opere.

Su questo punto si veda la precisazione contenuta nella “Postilla sulla giustificazione per mezzo della fede”. 

 

10.  Profonda trasformazione del concetto stesso di fede.  Nell’ AT la fede non consiste nel credere nell'esistenza di Dio (di regola considerata fuori discussione), ma si configura essenzialmente come fiducia (vedi il caso di Mosè, che avendo dubitato dell’ onnipotenza divina viene punito, appunto per mancanza di “fede”, con l’ esclusione dall’ entrata nella Terra promessa) e come fedeltà: il peccato contro la fede viene assimilato a un tradimento; Dio non viene negato, ma lo si tradisce adorando idoli o altri dèi.

Nel cristianesimo la mancanza di fede si configura invece prevalentemente come incredulità, atteggiamento che può spingersi sino alla negazione stessa di Dio, cioè all’ ateismo. Di conseguenza nasce il concetto di dottrina, vale a dire di un complesso di verità - il cosiddetto deposito della fede - garantite e custodite da un magistero ecclesiale, e perciò vincolanti per il credente.

E parallelamente - novità importantissima - assume un rilievo eccezionale, fin dal primo secolo di vita del cristianesimo (per diventare poi protagonista nei grandi concili trinitari e cristologici) il concetto di eresia, ossia di deviazione dall’ ortodossia magisteriale.

 

Nel VT incontriamo un’ esplicita affermazione di ateismo solo nella prima frase del Salmo 14: “Lo stolto pensa: "Dio non esiste"’ ’ . Ma il tema viene immediatamente abbandonato; il testo prosegue infatti dicendo: “Sono corrotti, fanno cose abominevoli: non c'è chi agisca bene”. Il discorso si sposta cioè sul comportamento immorale del popolo, e sullo stesso tema insiste per i rimanenti sei versetti del salmo. Potremmo tutt'al più parlare di quello che sia suol definire "ateismo pratico".

 

11.  Carattere compiuto e definitivo della Rivelazione.  Nell'AT Dio ha uno stretto e continuo contatto col suo popolo, dando di volta in volta - soprattutto ad Abramo, Giacobbe, Mosè, Samuele - le istruzioni e le disposizioni necessarie. Poi continua a parlare per mezzo dei profeti, da Osea ad Isaia e a Daniele, lungo l’ arco di altri otto secoli.

Il Dio cristiano invece ha parlato per mezzo di Gesù e poi degli apostoli; la Rivelazione si considera compiuta - e consegnata agli scritti del NT, affiancatisi a quelli dell'Antico - con la morte dell'ultimo apostolo. Gli apporti successivi vanno considerati semplici esplicitazioni ed interpretazioni - ad opera del Magistero - di quanto si trova nella Scrittura e nella Tradizione.

Quanto alle rivelazioni private, e in particolare alle mariofanie e alle cristofanie, si attribuisce ad esse unicamente una funzione di risveglio della fede e della devozione, e i loro contenuti non sono vincolanti per i fedeli.        

 

12.  Mariologia.  Si tratta di un capitolo di straordinaria ampiezza nel depositum fidei del cristianesimo, soprattutto nelle versioni cattolica e ortodossa. Nell’ AT non figura nessuna donna sia pur lontanamente simile a Maria o “figura” di lei (salvo ... Eva, da Giustino in poi!). Praticamente manca l’ elemento femminile (a parte qualche virago, come Giaele e Giuditta, proprio per nulla mariane, o la regina Esther, figura regale nel senso più pieno della parola, e abile nello sfruttare il proprio potere di seduzione).

Naturalmente non va tenuto conto di quella frode filologica multipla che è il cosiddetto “protovangelo” di Gn 3,15, né dell’ altra frode di Is 7,14 (“la vergine concepirà”). Sommamente ridicolo poi vedere una prefigurazione di Maria, tanto per fare un esempio, nella nuvoletta scorta in lontananza da Elia e destinata a portare l’ agognata pioggia.

 

Vale la pena di ricordare che pure l’ islam non conosce nulla di simile alla mariologia. La Vergine viene ricordata con reverenza nel Corano in quanto madre del profeta Gesù, e quindi di un uomo. Di lei viene altamente apprezzata appunto la verginità, com’ è logico che avvenga in una società fortemente maschilista. Ed è sempre tale tipo di società che rende cara Maria a tante donne mussulmane, che trovano in lei una figura femminile a cui potersi rivolgere, a cui aprire il cuore e indirizzare suppliche.

 

Inoltre, va tenuto presente l’ enorme potenziale di scandalo per la religiosità giudaica (come per quella islamica) rappresentato dal titolo di Theotókos, che è il più prestigioso e il più qualificante per la Vergine: Dio ha una madre! (Non per nulla si afferma, giustamente, che il titolo è in primo luogo cristologico: esprime anch’ esso il fatto “scandaloso” dell’ Incarnazione.)

Qui la rottura con l’ AT è clamorosa.

 

13.  Enorme sviluppo della demonologia, e in primo luogo del ruolo di Satana.  In tutto il VT questi viene citato solo tre volte; e di queste tre volte, una (quella del prologo del libro di Giobbe) ce lo presenta in rapporti cordialissimi con Dio, e un’ altra lo identifica addirittura con Dio stesso (1Cr 21,1 da confrontare con 2Sm 24,1).

Si tratta per di più di testi tardi (e ciò vale pure per il terzo caso, Zac 3,1-2): testi postesilici, che rivelano l’ influsso della demonologia babilonese.

 

Inutile dire che è del tutto arbitrario identificare tout court con Satana il serpente che induce Eva a mangiare il frutto proibito, sia perché siamo chiaramente di fronte a un mito eziologico, sia perché in caso contrario il testo biblico avrebbe dovuto ragguagliarci preventivamente circa la sua origine.

Nel VT poi manca addirittura il racconto della creazione degli angeli e della ribellione di Lucifero! Tant’ è vero che è stata la tradizione cristiana a dare all’ angelo ribelle tale nome, utilizzando un termine (‘portatore di luce’ , ‘stella del mattino’ ) che indicava il pianeta Venere e che nello stesso NT viene applicato nientemeno che a Gesù (2Pt 1,19; e cfr. Ap 2,28 e 22,16).   

 

Nel NT invece Satana, nel famoso episodio delle “tentazioni” nel deserto, ha addirittura l’ onore di dare il la, per così dire, al ministero pubblico di Gesù.

Con la demonologia e Satana, di provenienza orientale (iranica oltre che babilonese), si importa nella dottrina cristiana il manicheismo. Respinto nella sua forma radicale di diarchia - su piano paritario - dei princìpi del bene e del male, esso rimane però nel fondo del cristianesimo. Gesù “inventa” Satana e l’ inferno (assenti nel VT) proprio per giustificare la propria presenza, la propria missione, il proprio ruolo (pur se va ripetuto che non parla di peccato originale e non si sogna neppure di far partire tutto dal racconto della “caduta” di Gn 3).

Il cristianesimo è di fatto una religione dualistica: Satana è necessario per farla funzionare (si veda quanto diciamo in proposito in “Satana a Medjugorje”, nella monografia dedicata alle apparizioni bosniache).

 

14.  Abolizione del rito della circoncisione.  La sua sostituzione col battesimo ha due conseguenze di capitale importanza:

a) sostituisce un marchio fisico di appartenenza con un atto sacramentale, il che apre poi la via all’ introduzione degli altri sacramenti, accentuando la dimensione spirituale della religione;

b) elimina la discriminazione della donna, prima considerata appartenente al popolo di Dio solo in virtù della sua appartenenza al maschio posto a capo della famiglia.

 

15.  Confessione e remissione dei peccati.  Idea, veramente rivoluzionaria, che Dio, l’ unico che può rimettere i peccati, autorizza determinati uomini - sacerdoti della sua Chiesa - all’ esercizio di tale potere.

Ciò a condizione che il peccatore, pentito, dichiari apertamente le proprie colpe al sacerdote che ha ricevuto la delega divina.

È superfluo ricordare che l’ idea stessa che qualcuno all’ infuori di Dio possa rimettere i peccati scandalizzava i giudei, che pertanto negavano tale diritto a Gesù, da loro considerato semplice uomo.

 

16.  Radicale innovazione nella struttura ecclesiale: non più sacerdoti per diritto di nascita - costituenti quindi una vera e propria casta - quali erano i leviti, ma una chiesa docente aperta a tutti coloro che, sentendo la vocazione al sacerdozio, si mettono volontariamente al servizio di Dio.

Il sacerdozio da ereditario diviene carismatico: Dio, così come fa Gesù con gli apostoli, chiama chi vuole; e tutti i chiamati, come insegna la Lettera agli Ebrei, attingono la propria legittimazione dal sacerdozio di Cristo, unico vero sacerdote.

 

17.  Cancellazione dei tabù alimentari (divieto di cibarsi degli animali impuri – tra cui in primo luogo il maiale – e del sangue delle vittime uccise), punti qualificanti e irrinunciabili della religione veterotestamentaria. Qui la rottura con la Legge avvenne in età apostolica e fu in qualche misura traumatica, come rivelano le discussioni avute da Paolo a proposito dei cosiddetti  “idolòtiti”, le carni sacrificate a dèi e idoli pagani.

Anche su questo punto il giudaismo si trova in sintonia con l’ islam (salvo che per l’ assenza di un divieto per le bevande alcoliche).

 

18.  Messa in non cale, e in seguito abolizione formalmente sancita, del divieto di rappresentare la figura divina.

Il cambiamento viene giustificato col fatto che in Gesù la natura divina si è unita a quella umana, visibile e quindi rappresentabile. Naturalmente si è finito poi per rappresentare anche le altre due persone della Trinità, che pure non si erano mai incarnate.

Superfluo notare che anche qui l’ islam è molto più fedele continuatore dell’ AT di quanto non lo sia il cristianesimo.

 

19.  Abolizione dei sacrifici di animali, nonché di prodotti della terra come olio e farina (in sostanza, i frutti di allevamento e agricoltura, già in primo piano nella vicenda archetipica di Caino e Abele). Come dice chiaramente la Lettera agli Ebrei, il sacrificio di Gesù assomma in sé - e rende quindi superfluo - ogni altro sacrificio.

Di una futura eliminazione dei sacrifici rituali non si parla nel VT. S’ intende che tanti moniti dei profeti (v. ad esempio Os 6,6: “Misericordia voglio, non sacrificio”, richiamato da Gesù stesso in Mt 9,13 e 12,7) si limitano a denunciare l’ impossibilità di ottenere il perdono di atti empi a forza di sacrifici, quasi comprando l’ impunità; ricordano inoltre che il sacrificio va accompagnato dal pentimento e che la riconciliazione per mezzo di parole può avere un valore ancora più alto; ma non intendono affatto imporre o preconizzare un’ abolizione generalizzata dei sacrifici stessi.

 

20.  Completa scomparsa del concetto di impurità dovuta a contaminazione con elementi materiali, ad esempio per contatto col sangue mestruale o puerperale, con lo sperma delle polluzioni, con un lebbroso, con un cadavere o con una carogna di animale impuro (v. la casistica presentata in Lv 11 ss.). Gesù giunge ad ironizzare sugli scrupoli degli osservanti che pensano che il cibo ingerito senza le debite abluzioni preliminari possa essere causa d’ impurità, mentre a suo giudizio solo ciò che esce dal cuore dell’ uomo può renderlo impuro.

 

Il Dio veterotestamentario non tollera inoltre che ciò che gli viene offerto non sia assolutamente integro, di primissima scelta. Gli animali devono essere di regola di un anno e “senza difetti”. Come  senza difetti deve essere l’ addetto al culto:

“Nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né un cieco né uno zoppo né uno sfregiato né un deforme, né chi abbia una frattura al piede o alla mano, né un gobbo né un nano né chi abbia una macchia nell'occhio o la scabbia o piaghe purulente o i testicoli schiacciati (Lv 21, 18-20).

Singolare la puntuale analogia con Lv 22,24: “Non offrirete al Signore un animale con i testicoli ammaccati o contusi o strappati o tagliati.”

 

Per il Cristianesimo l’ impurità è significativa - e quindi peccaminosa - solo quando si tratti di sconvenienza volontaria legata a un luogo sacro o alla somministrazione di un sacramento. Quanto alla “deformità”, non è neppure il caso di parlarne.

 

Siamo di fronte a un radicale cambiamento di prospettiva: è in gioco un diverso concetto del sacro. 

 

21.  Scomparsa del minuziosissimo, quasi ossessivo formalismo presente in tutti i settori della pratica religiosa, per cui la scrupolosa osservanza di una congerie di norme puramente esteriori (613 secondo un catalogo ufficiale) veniva considerata condizione necessaria, o addirittura sufficiente, per risultare graditi a Dio e riceverne così gratificazioni materiali e spirituali.

Oltre ai due campi or ora considerati - quelli della pratica dei sacrifici e dell’ impurità rituale –, sono in particolare interessati dall’ esasperazione formalistica la preghiera, il digiuno e il riposo sabbatico. Gesù provocatoriamente si proclama signore del sabato denunciando l’ ipocrisia dei farisei, i più rigorosi nell’ osservare le disposizioni che regolavano la materia.

Si potrebbe esprimere tale atteggiamento come obbligo di fedeltà allo spirito anziché alla lettera della Legge. La pericope della preghiera del pubblicano (Lc 18, 9-14 ) è senz’ altro da annoverare tra i passi più squisitamente evangelici, quelli cioè che segnano in modo più netto la differenza tra i due testamenti. 

 

22.  Beatificazione e canonizzazione.  Nasce (e nasce prestissimo, con Stefano) la figura del santo, ossia di un uomo o di una donna che, sia pure per un particolare favore divino, si sono avvicinati spiritualmente a Dio, per quanto è possibile a una creatura, tanto da venire accolti, per decisione ufficiale della Chiesa, in una sorta di olimpo degli eletti. Le loro biografie, spesso ricche di eventi miracolosi, danno vita a una ricchissima agiografia.

Nell’ AT le figure di Mosè, di Elia e degli altri profeti, come pure quella del re e salmista Davide, sono qualcosa di molto diverso: non si tratta di uomini per così dire “saliti” - anche in virtù di meriti personali - verso il cielo, quali sono appunto i santi cristiani, ma di uomini che Dio di propria iniziativa ha da un giorno all’ altro investito di un compito speciale in vista della realizzazione di un suo progetto.

Di qui il corollario che, mentre il santo cristiano assurge a modello di vita per tutti i fedeli, la stessa cosa non si può affermare per i patriarchi, i profeti e le altre grandi figure storiche dell’ AT.

 

23.  Martirio.  Accanto ai santi, il cristianesimo conosce i màrtiri, ossia coloro che danno la propria vita per la causa della fede. Spesso i santi sono stati dichiarati tali proprio in quanto màrtiri (è il caso del già citato Stefano). I màrtiri furono numerosi in particolare nei primi secoli della Chiesa, ma anche oggi non si esita a definire in questo modo le vittime della violenza anticristiana frequente soprattutto in Asia e in Africa.

Il ruolo di eterna perseguitata è sempre stato motivo di orgoglio e di vanto per la Chiesa, proclive a vedere nella persecuzione stessa un fattore di avvicinamento a Cristo, in quanto memore del suo monito: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). E “il suo ingresso nella gloria avverrà attraverso molte prove, nelle quali imiterà il suo Fondatore, sperimentando la sua morte e risurrezione” (Padre Livio, “Credo”).

“Martire” significa ‘testimone’ , e il martirio cristiano è testimonianza feconda per la diffusione della fede: concetto mirabilmente espresso dalla formula famosa “sanguis martyrum semen christianorum”.

 

Nell’ AT, a parte i fiabeschi racconti dei “tre fanciulli nella fornace” e di “Daniele nella fossa dei leoni” (nel libro del profeta omonimo, del secondo secolo a.C.), figura l’ episodio dei sette fratelli Maccabei e della loro madre, che affrontano eroicamente una morte terribile, al pari del vecchio Eleàzaro, per non arrendersi all’ imposizione di cibarsi di carne suina.

Ma per parecchi motivi è fuori luogo vedere una forma di continuità tra questo episodio e quelli, innumerevoli, di cui sono stati protagonisti i màrtiri cristiani (per un approfondimento si veda “Postilla sul martirio”).

 

24.  Intercessione.  La nascita della figura del santo crea una funzione che istituisce un rapporto nuovo tra Dio e l’ uomo. Quello che Abramo e Mosè avevano compiuto occasionalmente, per iniziativa personale, invocando misericordia per il popolo peccatore (v. ad es. Es 32, 32), ora viene istituzionalizzato e affidato allo stuolo dei santi capeggiati da Maria. Altra differenza radicale è che, mentre nell’ AT l’ intercessione era esercitata a beneficio della comunità, ora è prevalentemente mirata ai bisogni degli individui, e in particolare delle loro anime.

Il potere di intercessione dei santi, che si affianca a quello sovraeminente di Maria, dà origine a una forma particolare di culto, il culto di dulìa, analogo a quello di iperdulìa riservato alla Vergine. Tra i suoi aspetti spiccano la venerazione delle reliquie e la frequentazione dei santuari consacrati a un determinato santo (famosi ad esempio quelli di sant’ Antonio da Padova e di san Pio da Pietrelcina).

 

È poi da ricordare il parallelo sviluppo, nel cristianesimo in versione cattolica, di una dimensione carismatica fondata soprattutto sui miracoli e sulle cosiddette “rivelazioni private”; tra queste hanno un ruolo specialissimo le cristofanie, e più ancora le mariofanie, cui sono a loro volta legati santuari prestigiosi quali Lourdes e Fatima. Di questo aspetto “carismocentrico” del cattolicesimo abbiamo fatto cenno ne “La difficile scelta della Chiesa”.

Inutile sottolineare che tale dimensione della spiritualità è totalmente assente nell’ AT.

 

25.  L’ immagine di Dio come Dio d’ amore.  Non ci soffermiamo neppure sul fatto fin troppo evidente (e rilevato già dalle prime generazioni di cristiani, come insegna il caso di Marcione) che il Dio veterotestamentario si mostra spesso e volentieri furente, violento e massacratore, dando col Diluvio la prova più clamorosa della sua capacità di sterminio.

Anche considerando la cosa da un punto di vista meno emotivo, più specificamente teologico, risulta chiaro che nel VT non vi è traccia dell’ idea che sta alla base del cristianesimo e costituisce il tratto più tipico della sua Weltanschauung : l’ idea che Dio abbia creato il mondo, e in particolare l’ uomo, per amore, ossia per far partecipe l’ uomo stesso, in un mondo rinnovato alla fine dei tempi, della propria condizione divina.

                                                                                                                                                                                                                 

Yahweh si autoproclama a più riprese misericordioso, e tale si premura ovviamente di definirlo il fedele che lo invoca; ma la sua misericordia si esercita di regola solo nei confronti del suo popolo, che egli provvede in varie occasioni a soccorrere contro i nemici, pur non mancando ogni volta di riaffermare che tale aiuto è immeritato.

Di fatto, la norma che impone il riscatto dei primogeniti (accanto all’ immolazione dei primogeniti del bestiame), ci mostra Dio come padrone della vita. Yahweh si comporta come una ditta che ha messo a punto un brevetto e pretende che chi lo utilizza paghi i diritti d’ autore: avendo “inventato” la vita, Dio vuole che gli si paghino le royalties. Altro che creazione come atto d’ amore!

Del resto, l’ assenza stessa di una prospettiva di beatitudine eterna come sbocco della vita terrena per le anime, viste come destinate a macerarsi indefinitamente nello sheol, escludeva a priori ogni possibilità di elevazione della condizione umana al livello di quella divina.

 

Il Dio cristiano viene invece invocato dal credente come “padre”. E anche nella Trinità è elemento caratterizzante la circolazione d’ amore fra le tre persone divine. Dio è in se stesso perpetuo scambio d’ amore, l’ amore è la sua stessa essenza: Deus charitas est.

In particolare, è centrale nel cristianesimo il tema della misericordia divina, che ha avuto proprio negli ultimi decenni spettacolari sviluppi legati alla figura di suor Faustina Kowalska, beatificata e canonizzata da Giovanni Paolo II, al quale si devono anche l’ enciclica Dives in misericordia e l’ istituzione della festa che cade nell’ ottava di Pasqua.

 

Dall’ immagine del Dio amoroso scaturisce anche l’ idea tipicamente cristiana della Provvidenza. Dio è sempre pronto a chinarsi sulle sofferenze degli uomini: nelle mirabili parole del Manzoni, “non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”.

 

26.  Valorizzazione dell’ umiltà, sia dell’ uomo che di Dio.  Il Dio veterotestamentario è in primo luogo il creatore del mondo, smanioso di mostrare in ogni occasione la sua potenza; ed è così preoccupato del proprio buon nome che arriva a non punire troppo duramente il suo popolo ribelle solo per il timore di vedere compromessa dalle sconfitte di Israele la propria reputazione di fronte alle nazioni nemiche. L’ espressione “Allora tutte le nazioni riconosceranno che io sono il Signore” è un ritornello che con infinite variazioni risuona spesso nei discorsi di Yahweh, specie nel libro di Ezechiele.

 

Nel cristianesimo, all’ opposto, la duplice natura del Cristo consente di enfatizzare gli aspetti di maggior precarietà della sua condizione umana poiettandoli sulla persona divina.

Non entriamo qui nel merito della legittimità di tale operazione, che porta qualcuno, come Bruno Forte, a parlare di un’ umiltà del Dio creatore (diremo comunque che ci pare trattarsi di una tesi quanto mai discutibile, se per umiltà s’ intende - come si dovrebbe - una reale coscienza della propria piccolezza).

Sta di fatto che Gesù dice di essere venuto “non per farsi servire, ma per servire”, nello spirito di quella kénosi (‘svuotamento’ , ‘spoliazione’ ) di cui parla Paolo. L’ icona più eloquente di tale atteggiamento è la lavanda dei piedi, ulteriormente valorizzata dalla reprimenda nei confronti dell’ apostolo recalcitrante.

 

La catechesi e l’ apologetica non si stancano poi di sottolineare che nel Natale Dio ci si presenta col volto di un bambino, in un contesto ambientale umilissimo: è deposto in una mangiatoia, avvolto in povere fasce e salutato innanzitutto da pastori, i paria della società del tempo. Di qui l’ enfasi sul fatto che il Dio cristiano “si propone, non si impone”: è un Dio che umilmente dice ”Io sto alla porta e busso” (Ap 3,20).

È questo insomma il cosiddetto “Dio di Gesù”: formula cara a tanti apologeti che vogliono discretamente prendere le distanze dal Dio veterotestamentario, che altri non è se non il Dio di  Abramo, di Isacco e di Giacobbe.

 

In ogni caso, se può lasciare perplessi il discorso sull’ umiltà di Dio, non vi sono certo problemi a riconoscere che l’ umiltà è la prima dote richiesta all’ uomo che voglia dirsi cristiano. Basterebbe ricordare il severo monito Di Gesù agli apostoli: “Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26). La vita in sostanza va vissuta come diaconia, ossia come servizio.

E il pensiero non può non andare immediatamente a colei che è divenuta l’ icona stessa dell’ umiltà: la Vergine che si è proclamata ancilla Domini.

 

L’ enfatizzazione della “piccolezza” investe anche l’ ambito cognitivo, come appare dall’ appello a farsi bambini per entrare nel regno dei cieli e dalla lode rivolta da Gesù al Padre per aver “tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti” e averle rivelate “ai piccoli”.

In quest’ ottica, il contrasto tra l’ infinita potenza di Dio e l’ umiltà della condizione con cui egli si presenta agli uomini viene spesso etichettato come uno “scandalo” che diviene poi cifra orgogliosamente esibita dell’ operare di Dio, la cui sapienza è stultitia per il mondo; si veda quanto diciamo in proposito in “Apologia del mistero, del paradosso, dello scandalo” (ne “L’ apologetica e i racconti pasquali”).

 

27.  Valorizzazione della povertà e della sofferenza.  Se l’ umiltà riguarda la dimensione soggettiva dell’ uomo, ossia le sue disposizioni interiori, povertà e sofferenza sono realtà oggettive e concrete. E proprio tali realtà, che nella vita terrena normalmente rendono l’ uomo infelice, divengono, nella visione cristiana, condizioni privilegiate che avvicinano a Dio e propiziano la beatitudine eterna.

Gesù è esplicito nell’ ammonire che chi vuole seguirlo deve prendere la sua croce. E al giovane ricco non esita a dire: “Se vuoi essere perfetto, va’ , vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo” (Mt 16,21).

 

Questo aspetto della fede, presente in tutto il Vangelo, ha la sua espressione più nota nelle “beatitudini” contenute nel cosiddetto “discorso della montagna”. Per molti che, pur non essendo credenti, riconoscono la statura umana di Gesù e il valore dei suoi insegnamenti morali, tale discorso rappresenta addirittura la sostanza stessa del messaggio cristiano.

E questa è in particolare l’ essenza della spiritualità francescana. Il “fioretto” famoso che parla della “perfetta letizia” e l’ evocazione dantesca delle mistiche nozze di Francesco con Madonna Povertà sono vertici inarrivabili di una concezione che trasfigura poeticamente povertà e sofferenza e ne fa le sorgenti di una gioia inesprimibile, che il mondo non può dare.

 

Siamo lontani anni luce dalla prospettiva veterotestamentaria, secondo la quale prosperità, pace e sicurezza sono i massimi beni che l’ uomo può desiderare, e che perciò Dio promette al suo popolo come ricompensa per una retta condotta morale e religiosa.

 

28.  L’ amore per i nemici e il perdono del prossimo come sublimi comandamenti.  Il precetto di amare i propri nemici, contenuto nel “Discorso della montagna”, è un superamento radicale del veterotestamentario “Ama il prossimo tuo come te stesso”, tale da configurare una vera e propria rottura.

Per un confronto si pensi al salmo 139 (vv. 21-22): “Quanto odio, Signore, quelli che ti odiano! Quanto detesto quelli che si oppongono a te! Li odio con odio implacabile, li considero miei nemici” (il che significa: “li odio quanto odio i miei nemici”). E lo stesso Gesù dice: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”.

 

Ma non meno significativa, per quanto riguarda il “salto di qualità” rispetto alla Bibbia ebraica, è l’ insistenza sulla connessa tematica del perdono, che percorre come un leitmotiv tutto il NT. I moniti di Gesù di perdonare “fino a settanta volte sette” e di “porgere l’ altra guancia” qualificano il cristianesimo in modo inconfondibile; e la principale preghiera del cristiano chiede a Dio di “rimettere a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

Mentre l’ AT propone ancora la legge del taglione, Cristo morente invoca: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. E Stefano, il “protomartire”, grida a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”.

Non è improprio definire la religione cristiana come “la religione del perdono”.

 

29.  Carattere spiccatamente personale del rapporto tra Dio e l’ uomo.  Dio ha per ogni individuo un progetto particolare, che ciascuno ha il dovere di scoprire e portare a compimento. Il progetto consiste in una missione da compiere nella vita allo scopo di propiziare la salvezza eterna per sé e per l’ intera comunità umana; e spesso non coincide con l’ orientamento e le attese dell’ interessato.

In modo tutto particolare il discorso riguarda la questione cruciale della scelta tra la consacrazione religiosa e lo stato coniugale; da abbracciare, quest’ ultimo, in vista della procreazione e dell’ educazione cristiana di una prole quanto più possibile numerosa. Si tratta di due modi diversi di servire Dio, poiché la vita, come si è detto parlando della valorizzazione dell’ umiltà, va comunque vissuta come diaconia, ossia come servizio.

Dio, in altri termini, ci dice quale diaconia vuole da ciascuno di noi. E a questo riguardo è fondamentale la parabola dei talenti, la quale ci ammonisce che ognuno ha il preciso obbligo di far fruttare nel modo migliore i doni che ha ricevuto dal Cielo.

Tutto ciò è sconosciuto all’ Antico Testamento.

 

30.  Grazia.  Altro concetto basilare della dogmatica cristiana pressoché assente nella prospettiva veterotestamentaria è quello di grazia, intesa come influsso soprannaturale che investe l’ uomo e lo dispone a fare la volontà di Dio. 

Nel VT abbiamo le promesse di Yahweh di trasformare i “cuori di pietra” in “cuori di carne”. Ma si tratta di un evento collocato in un vago futuro, e in ogni caso riguardante il popolo nella sua totalità. Il tratto tipico della grazia quale la concepisce il cristianesimo è invece proprio il carattere individuale, personalizzato, dell’ intervento divino, in armonia con quanto si è visto al punto precedente. E soprattutto il fatto che esso tocca tutti gli uomini, indistintamente, e non solo i pochi (come i profeti dell’ AT) a cui Dio affida una missione particolare.

 

La teologia della grazia ha radici nell’ opera di Giovanni e soprattutto in quella di Paolo. Ha avuto nel corso dei secoli grande sviluppo, mettendo a fuoco i concetti di grazia santificante, grazia attuale, grazia sufficiente, grazia efficace ... E la dibattuta questione della necessità della grazia divina per la salvezza dell’ anima (a cominciare dal fatto che la fede stessa va considerata un dono di Dio, ossia grazia) percorre tutta la storia del cristianesimo: dalla controversia tra Agostino e Pelagio fino ad oggi, passando per Lutero, Calvino, i giansenisti.

Di tutto questo, va ribadito, nell’ AT non vi è traccia alcuna.

 

31.  Mistica.  Il fedele che alla grazia risponde in modo più fervido e intenso può arrivare a una comunicazione diretta col divino, sino ad unire il proprio spirito a Dio stesso in quella che si definisce "estasi mistica".

Si tratta quindi di una conoscenza del divino di tipo immediato, intuitivo, sovrarazionale. I nomi di Francesco d’ Assisi, di Caterina da Siena, di Teresa d’ Avila e di innumerevoli altri santi sono associati proprio a straordinarie esperienze mistiche (notissima la splendida opera del Bernini raffigurante l’ estasi di santa Teresa).

Nulla di tutto questo nell'AT. L’ ebraismo ha conosciuto una forma di mistica d’ un genere assai diverso: una dottrina occulta, esoterica (la famosa Qabbala), che muove i primi passi all’ alba dell’ era cristiana e si sviluppa soprattutto nel secondo millennio.

 

Anche a prescindere dalle manifestazioni più vistose - quale è appunto l’ estasi - della spiritualità cristiana, va comunque detto che nell’ AT è sostanzialmente assente una certa dimensione dell’ interiorità, e precisamente l’ idea dell’ inabitazione di Dio nel cuore dell’ uomo, idea che troviamo ad esempio nell’ espressione paolina “non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” e che sta alla base del sacramento eucaristico. I Salmi, anche quelli di maggiore profondità psicologica, sono solo richiesta di aiuto, di conforto o di perdono; e Dio rimane sempre esterno all’ orante. 

 

32.  Monachesimo ed ascetismo.  Nato - nelle sue due forme eremitica e cenobitica - fra il terzo e il quarto secolo della nostra era in Egitto e circa un secolo più tardi in Europa (ricevendo grande impulso soprattutto per opera di san Benedetto all’ inizio del secolo sesto), il monachesimo, caratterizzato dai voti di povertà, castità e obbedienza da parte dei religiosi, ha avuto un’ importanza enorme nella storia della Chiesa.

Basti pensare all’ influsso esercitato, sia sul piano pastorale che su quello dottrinale, da ordini religiosi come quelli dei francescani, dei domenicani e dei gesuiti, peraltro affiancati nel corso dei secoli da innumerevoli altri (anche Lutero era monaco, per la precisione agostiniano). Il fenomeno ha avuto anche una versione femminile, con la fioritura, tra l’ altro, di ordini impostati su una rigorosa “clausura”.

   

Accanto al monachesimo, e per lo più al suo interno, si è sviluppato l’ ascetismo, ossia un complesso di pratiche miranti a una perfezione spirituale da conseguire anche a prezzo di severe mortificazioni del corpo. Tale atteggiamento, da considerare un’ esasperazione della mistica della sofferenza (poiché questa non è più solo gioiosamente accettata in quanto proveniente da Dio, ma viene consapevolmente cercata) ha avuto nel medioevo manifestazioni vistose, soprattutto ad opera di confraternite quali quelle dei “Battuti” o “Flagellati”; e non va dimenticata la pratica ancora attuale del cilicio.

 

Presenti e vitali nell’ induismo e nel buddismo, monachesimo ed ascetismo non compaiono nel mondo ebraico se non nelle comunità degli Esseni e dei Terapeuti, fiorite nei due secoli a cavallo dell’ età augustea e poste al margine della grande tradizione del giudaismo, tanto da non essere neppure menzionate nella Scrittura.     

Nell’ antico Israele esisteva la pratica del nazireato, che era però tutt’ altra cosa dal monachesimo, in quanto il voto di rinunzia all’ alcol, al contatto con cadaveri e al taglio delle chiome (cfr. Lv 6, 1-21) era solo temporaneo, e in genere di breve durata. 

 

33.  Mancanza di un centro del culto.  In Israele esisteva un centro esclusivo del culto, il Tempio di Gerusalemme, dove era norma recarsi nel periodo pasquale; ce lo ricorda anche Luca, quando inscena l’ episodio del “ritrovamento” di Gesù bambino. 

Per questo, come scrive Bouyer, citato da N. Bux a Radio Maria, “tutte le sinagoghe al tempo di Gesù, e da quell’ epoca in poi, sono orientate verso Gerusalemme. Il rabbino e il popolo guardano all’ arca dell’ alleanza, e facendo questo si volgono verso Gerusalemme, verso il Santo dei Santi del tempio, in quanto luogo della presenza di Dio per il suo popolo. Le cose restarono così anche dopo la distruzione del tempio.”

È evidente l’ analogia con la pratica islamica di pregare rivolti alla Mecca e col precetto di visitare almeno una volta nella vita la moschea della città santa.

 

Nel cristianesimo le cose stanno ben diversamente. Innanzitutto, non vi è un orientamento canonico delle chiese: l’ orientamento prevalente ad est, che troviamo ad esempio nel duomo di Milano e in quello di Firenze, è contraddetto nientemeno che da quello della basilica centrale della cattolicità, orientata esattamente ad ovest.

Ma quel che più conta, sul piano teologico, è il fatto che non vi è alcuna “esclusività” per quanto riguarda la sostanza del culto: Dio non ha alcuna sede privilegiata. Nel tabernacolo della chiesetta del più sperduto villaggio di montagna è presente Cristo, e quindi Dio, né più né meno che nell’ ostia consacrata a Roma dal pontefice in San Pietro, sotto le colonne tortili del grandioso baldacchino del Bernini.

 

Ancora una volta dobbiamo ribadire che siamo di fronte a una concezione radicalmente diversa del sacro.

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Possiamo fermarci qui nell’ elencazione di tratti qualificanti del cristianesimo non presenti - né sia pur vagamente prefigurati - nell’ AT. Sono da fare due osservazioni importanti.

 

a) Abbiamo volutamente trascurato alcuni tipi di tratti. Più precisamente:

 

1) abbiamo ignorato aspetti genericamente “culturali” dell’ ebraismo che si potrebbero porre a confronto con quelli corrispondenti dei popoli cristiani: non abbiamo considerato ad esempio l’ atteggiamento verso la schiavitù, verso la donna, verso l’ sitituzione famigliare (con i problemi cruciali della poligamia e del divorzio).

Ciò perché intendiamo concentrarci su aspetti prettamente teologici del giudaismo quale ci viene presentato dall’ AT, tralasciando quegli ambiti in cui giocano un ruolo importante fattori storici, etnici, sociologici;

 

2) più in generale, ossia fuori degli ambiti toccati al punto precedente, non abbiamo preso in esame la completa scomparsa, nel nuovo credo, di un gran numero di disposizioni legislative contenute nel Pentateuco e che risultano chiaramente inaccettabili alla coscienza cristiana; la rinuncia a considerare tali elementi è suggerita dalla difficoltà di tracciare una linea di demarcazione che separi inequivocabilmente le due prospettive etico-religiose;

 

3) abbiamo ignorato la scomparsa di numerose prescrizioni rituali di tipo magico (v. ad es. il vero e proprio “giudizio di Dio” descritto in Nm 5); qui la rinuncia è dovuta alla considerazione della presenza, nella teologia cristiana, di quella che è la “magia sacramentale”, in cui vige il principio dell’ efficacia del rito ex opere operato (si veda quanto diciamo al riguardo in “Altre aporie eucaristiche”, nel paragrafo “La ‘coniuratio’  magica”);

 

4) abbiamo sorvolato sull’ esistenza di tematiche che, pur essendo senz’ altro qualificanti per il cristianesimo, nel quale hanno avuto uno sviluppo senza paragone maggiore che nell’ ebraismo, non sono però del tutto sconosciute a quest’ ultimo.

È questo il caso dell’ espiazione vicaria. La presenza del famoso passo isaiano che parla del “Servo sofferente”, la figura a cui può essersi ispirato Gesù o chi ce ne ha trasmesso la memoria, ci induce a non inserirla nell’ elenco



La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
Apocalisse Laica
Le religioni dividono. L'ateismo unisce


Il sonno della ragione genera mostri (Goya)


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Che cosa resta dell' Antico Testamento


Il passaggio del mar RossoL' immagine dell' ammasso di cocci a cui si riduce il cristianesimo se ci si limita a considerare quanto di esso è presente - o almeno prefigurato - nell' AT ne suggerisce un' altra, atta a descrivere quel che la Chiesa ha fatto e fa dell'enorme deposito veterotestamentario.

È l' immagine di un cimitero di automobili, da cui è possibile recuperare molti pezzi ancora pienamente utilizzabili: un volante, una ruota, un sedile, un paio di fari, uno specchietto ...

La Chiesa per secoli e secoli ha fatto (e continua a fare, sia pure con sempre minor convinzione) un' operazione assai simile: ha recuperato e valorizzato tutto quanto del VT si poteva in qualche modo riutilizzare, presentandolo naturalmente (e per lo più, occorre dirlo, in buona fede) come materiale appartenente alla “preparazione”, al “preannunzio” della Buona Novella portata poi da Cristo. 

Premesso che il sessanta o settanta per cento dell’ insieme dei testi veterotestamentari è di fatto lettera morta, essendo accostato pressoché esclusivamente dagli specialisti o dal lettore curioso di antiche storie intriganti e magari piccanti (la situazione è in parte diversa nel mondo protestante, soprattutto nordamericano), noi qui non faremo un inventario simile a quello che abbiamo fatto nel capitolo precedente per mostrare le radicali novità del cristianesimo rispetto al giudaismo. Dovremmo fermare l’ attenzione su una congerie di elementi minuti e poco significativi, quali sono appunto le parti d’ automobile sottratte alla rottamazione delle quali abbiamo parlato.

Ci limitiamo pertanto a individuare alcuni filoni, alcune tematiche che oggettivamente si prestano ad essere riprese e ripresentate al fedele perché per loro natura non sono specificamente giudaiche ed estranee alla prospettiva cristiana.

 

1)  In primo luogo troviamo ovviamente tutti quei testi profetici che, alludendo più o meno apertamente alla venuta di un Messia, vengono etichettati come “profezie messianiche”.

 

Vanno però fatte alcune importanti precisazioni:

 

a) molte di tali asserite profezie sono tali solo in virtù di un’ interpretazione viziata da indiscutibili forzature;

b) tali testi, anche se si usano i criteri più larghi per individuarli, costituiscono una parte infinitesimale della Bibbia ebraica;

c) in ogni caso, non si deve affatto pensare che i libri dei profeti - maggiori e minori - siano prevalentemente dedicati al preannunzio del Messia: raccontano per lo più frammenti di storia del popolo ebraico e contengono innumerevoli promesse di massacri che il Signore compirà nei confronti di vari popoli confinanti o contro gli stessi Israele e Giuda, colpevoli di esser venuti meno ai propri doveri verso il loro Dio.

Anche le profezie “escatologiche”, che presentano i popoli del mondo riuniti ad adorare l’ unico Dio, si pongono, come già si è accennato, fuori della prospettiva cristiana, poiché hanno come sede Gerusalemme e come protagonista il popolo ebraico.

 

Per finire, va ribadito che le supposte profezie (compresa quella del “servo sofferente” di Is 52-53, su cui qui non ci soffermiamo) si riferiscono alla venuta di un uomo, non del Figlio del Dio trinitario.

 

2)  In generale, è suscettibile di recupero e riutilizzo in chiave cristiana tutto quel che si riferisce alla concezione di un dio personale, e sarebbe quindi in via di principio compatibile col credo di qualunque religione teistica.

 

Va sottolineato che, se una tale concezione è sempre, per forza di cose, inevitabilmente antropomorfica (in quanto Dio dialoga e interagisce con l’ uomo, ponendosi al suo stesso livello), quella veterotestamentaria è antropomorfica al massimo grado.

Dio passeggia nel giardino dell’ Eden, scende per vedere da vicino che cosa stan combinando gli uomini a Babele, si presenta ad Abramo sotto l’ aspetto di tre angeli … Soprattutto mostra di provare sentimenti umani, quali il pentimento; e in particolare ira e furore, ai quali proclama egli stesso di dover assolutamente dare sfogo. 

 

S’ intende che, fra i testi che rispondono al requisito qui indicato, un posto di assoluto rilievo lo occupano i Salmi: preghiere di supplica, di ringraziamento o di lode da parte del fedele che sente profondamente il bisogno di parlare con Dio, nella certezza di essere ascoltato. Per citare un esempio famoso: “Come la cerva anela ai corsi d’ acqua, così l’ anima mia anela a te, o Dio” (Sal 42,2).

È chiaro che per la comunità primitiva (si ricordi la conclusione del Vangelo di Luca: “e stavano sempre nel Tempio lodando Dio”) i Salmi costituivano un corpus di preghiere imponente e di grandissima tradizione - nonché in buona parte ancora “fruibili”, per quel che si è or ora detto -, mentre le nuove preghiere non esistevano ancora: praticamente vi era solo il Padrenostro. Logico quindi che i nuovi credenti li abbiano entusiasticamente adottati, inaugurando una pratica destinata a durare nel tempo.

Nel corso dei secoli, poi, specie a partire dalla Riforma, il Salterio si è arricchito dell’ accompagnamento della musica, e all’ arricchimento hanno contribuito, tra gli altri, geni quali Palestrina, Bach, Mozart.   

 

Ma occorre fare alcune importanti osservazioni, che ridimensionano notevolmente la “valenza cristiana” dei Salmi.

In primo luogo, risulta evidente a colpo d’ occhio la loro “alterità” rispetto alle preghiere autenticamente cristiane quando si considera che essi non presuppongono premi o castighi oltremondani per l’ anima.

Mancando la prospettiva escatologica, tutto è incentrato sulla richiesta di grazie temporali, riguardanti questa vita. In particolare, la giustizia che l’ orante chiede a Dio, proclamato suo unico rifugio e sostegno, consiste in un risarcimento dei danni subiti per l’ asserita malvagità del prossimo. Si arriva addirittura a ricordare a Yahweh che non gli conviene lasciar morire il suo fedele, il quale una volta finito nello sheol non potrebbe più lodarlo. 

 

Già questa considerazione configura la presenza di due visioni religiose profondamente diverse. Ma la dissonanza diviene ancora più acuta se si pensa che, a parte i testi che esprimono un vivo senso del peccato (e tra cui spiccano i cosiddetti “salmi penitenziali”, comprendenti il famoso Miserere), in molti casi si può addirittura parlare di una prospettiva egocentrica, per non dire decisamente egoistica: il sedicente “giusto” e sedicente perseguitato chiede che i suoi persecutori (presentati per lo più come cani, tori, bufali o leoni furiosi) vengano annientati, o comunque esemplarmente puniti. È questo il caso dei cosiddetti “salmi di maledizione”, o di vendetta, che non è improprio definire senz’ altro anticristiani.

Un esempio famoso di invettiva pronunciata a nome del popolo tutto è dato dal salmo 137: “Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra”.

 

Negli ultimi tempi la Chiesa ha dovuto prendere atto della vanità di ogni tentativo di vedere in tali testi semplicemente una indignata denuncia del “male”, per così dire metafisicamente considerato. E ha dovuto decidersi alla censura, togliendo dall’ uso liturgico singoli versetti o interi componimenti; tale intervento viene per lo più definito “purificazione”.

 

  3)   Recuperabile e valorizzabile in chiave cristiana è buona parte dei numerosi testi sapienziali, di contenuto gnomico, esprimenti cioè  

considerazioni più o meno profonde su vari aspetti della vita, e in

particolare sulla precarietà della condizione umana; in tale gruppo,

comprendente tra gli altri il libro dei Proverbi e i deuterocanonici Siracide

e Sapienza, vanno rubricati anche non pochi salmi (famose ad esempio

le massime “Ogni uomo è inganno”[115] e “Gli anni della nostra vita

sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica,

dolore: passano presto e noi ci dileguiamo [89]).  

 

Ma si tratta in genere di testi di valenza universale, per lo più simili a tanti altri reperibili in religioni e culture diverse (ad esempio nel buddismo). Sono perciò assai poco qualificanti in senso cristiano.

E opere come Qoelet e il libro di Giobbe, tanto spesso citate e discusse, hanno con l’ ortodossia cristiana un rapporto decisamente conflittuale, tanto da richiedere di regola l’ impegno massiccio dell’ esegesi devota.

 

4)  Il racconto della creazione. Si tratta di un elemento che figurerebbe bene in qualsiasi scrittura sacra di religione monoteistica, in quanto mito eziologico che mostra all’ opera il Dio onnipotente. E nel NT non vi è nulla che lo contraddica circa le modalità della creazione.

Notevole - e sfruttatissismo dalla teologia e dalla catechesi - il particolare del “far l’ uomo a propria immagine e somiglianza”, che non è se non la versione teologica del “far Dio a propria immagine e somiglianza”, ossia della creazione, da parte dell’ uomo, di un Dio personale.

Naturalmente, accanto al racconto della creazione viene conservato e sfruttato sino alla noia, per non dir altro, il racconto della caduta dei progenitori, sul quale (enfatizzato e stravolto) poggia la tesi paolino-agostiniana del peccato originale.   

 

5)  Il Decalogo. Qui la consonanza è quasi assoluta. Ma anche in questo caso vanno fatte alcune osservazioni che di tale consonanza ridimensionano notevolmente la portata.

 

a) Appare innanzitutto evidente che si tratta di universali etnico-religiosi comuni alla stragrande maggioranza delle culture. Per rimanere nell’ ambito storico-geografico d’ Israele, sono notevoli le analogie con testi (tra l’ altro più antichi) come il Codice di Hammurabi e il Libro dei morti egiziano. Con quest’ ultimo, in particolare, a parte la formulazione imperativo-negativa del testo ebraico, si riscontrano corrispondenze pressoché letterali.

Del resto, è evidente che nessun popolo, nessuna comunità organizzata può sopravvivere senza norme elementari che proibiscano azioni volte contro la persona e la proprietà (cfr. “non uccidere” e “non rubare”), che impongano qualche forma di controllo del commercio sessuale e che sanzionino la menzogna e l’ inganno (vedi “non commettere atti impuri” e “non dir falsa testimonianza”). Pure largamente diffusa la cura di assicurare un particolare rispetto all’ anziano, e in particolare ai genitori (“onora il padre e la madre”).

 

Questo per quanto riguarda la tavola destra del decalogo, concernente i doveri verso il prossimo. Per quanto riguarda i doveri verso Dio, contenuti nell’ altra tavola, il discorso da fare non è però diverso: il primo comandamento è proprio di qualunque religione monoteistica; il secondo - che impone rispetto per il nome sacro di Dio - ne è quasi un corollario; e il terzo, prescrivendo un culto, una pratica rituale o devozionale, nella sua ovvietà esprime la quintessenza di qualunque religione non atea. Nulla, quindi, nei primi otto comandamenti dell’ attuale Decalogo cristiano, costituisce un legame veramente significativo e caratterizzante tra giudaismo e cristianesimo.

 

b) La struttura  cristiana del Decalogo differisce da quella originaria, poiché l’ abolizione del divieto di rappresentare la divinità (che costituisce il secondo comandamento biblico) ha determinato uno slittamento di tutti gli articoli, alterando la numerazione: il nostro “settimo: non rubare”, ad esempio, era in origine l’ ottavo della lista. Non occorre neppure dire che la soppressione del comandamento relativo alle immagini divine ha avuto un’ enorme importanza nel differenziare il cristianesimo sia dall’ ebraismo che dall’ islam, concordi nell’ osservarlo scrupolosamente.

La necessità di conservare il numero fatidico di dieci ha poi costretto la Chiesa a sdoppiare l’ ultimo comandamento; sicché la donna, che prima si trovava, come oggetto di desiderio peccaminoso, in compagnia della casa, dell’ asino e del bue, si è provvidenzialmente trovata ad avere un comandamento tutto per sé.

 

c) In alcuni casi la portata del comandamento è decisamente cambiata.

 

Il nostro quinto, che impone di non uccidere, di fatto proibiva solo l’ uccisione dell’ innocente; era infatti, nonché lecita, addirittura imposta l’ uccisione non solo dell’ assassino, ma anche di chi si rendeva colpevole di reati quali, ad esempio, la violazione del riposo sabbatico, l’ adulterio, la pratica omosessuale.

In particolare, viene di regola imposta l’ uccisione di chi volontariamente o involontariamente metta in pericolo l’ ortodossia del popolo eletto: chi istiga ad adorare altri dèi, fosse anche il parente più stretto (cfr. Dt 13, 7 ss.), e naturalmente i popoli vinti sul suolo palestinese o ai suoi confini, popoli da sterminare (donne comprese, v. ad es. Nm 25) per scongiurare il contagio idolatrico. Oltre a ciò, non può venire sottratto alla morte chi è stato consacrato con un voto al Signore: vedi Lv 27, 29 e la vicenda della figlia di Jefte, vero e proprio caso di sacrificio umano.

 

Il settimo comandamento, corrispondente al nostro sesto, suonava “Non commettere adulterio”: chiaramente aveva lo scopo primario e pressoché esclusivo di salvaguardare i diritti del marito. L’ ampliamento di prospettiva compiuto dalla Chiesa (“Non commettere atti impuri”, di qualunque genere) l’ ha di fatto spostato dalla tavola destra del Decalogo alla sinistra, poiché non possono considerarsi azioni volte contro il prossimo, ad esempio, l’ autoerotismo, i rapporti prematrimoniali e, in genere, ogni rapporto tra adulti consenzienti che non leda l’ interesse di terzi. 

L’ ottavo comandamento, “Non rubare”, non proteggeva dal furto i popoli stranieri, i cui beni, in caso di guerra, erano di regola annientati secondo la legge dell’ herem, mentre le terre venivano ovviamente confiscate.

Da notare anche la formulazione del primo comandamento, rivelante che la fede originaria di Israele non era monoteistica, ma monolatrica: il fatto che il culto del popolo eletto vada riservato al solo Yahweh non esclude - anzi, implicitamente ammette - che altri popoli abbiano loro propri dèi.

 

Detto questo, va riconosciuto lo spirito cristiano del decimo comandamento (corrispondente, come si è visto, ai nostri nono e decimo), che considera peccaminoso il desiderio stesso di commettere il peccato: è una nota di interiorità che oggettivamente contrasta col formalismo dominante nella pratica religiosa giudaica. Tanto che ci sorprende il fatto che Gesù presenti il precetto come un compimento, un perfezionamento da lui apportato all’ antica legge (cfr. Mt 5, 27-28: “Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore”).

 

Sempre nel campo dei precetti morali, va ricordato pure il famoso “Ama il prossimo tuo come te stesso”, che Gesù in Mt 19,19 riprende da Lv 19,18. Bisognerebbe però precisarne il senso chiarendo chi si deve considerare “prossimo”; senonché  Gesù, interrogato in proposito, svicola cavandosela con la parabola del Buon samaritano (l’ esegesi ufficiale dice che “ribalta la domanda”!). Sembra comunque di poterne ricavare l’ esortazione ad estendere il concetto oltre i confini del popolo d’ Israele, a cui lo restringe la formulazione veterotestamentaria.

 

d) Accanto al Decalogo, e a suo completamento, figura nel Pentateuco una miriade di altre prescrizioni e disposizioni di vario genere, di cui oggi non soppravvive praticamente più nulla.

 

6)  Numerose affermazioni - sotto forma di norme legislative o di appelli dei profeti - dell’ urgenza di giustizia sociale e di un atteggiamento generoso verso la vedova, l’ orfano, lo straniero.

Inutile dire che anche in questo caso si tratta di ideali e raccomandazioni condivisibili dalla grande maggioranza degli uomini, di tutte le culture e religioni. Inoltre tutto è sempre visto in una prospettiva di retribuzione terrena; la prosperità viene considerata segno della benedizione di Dio. 

Comunque, in questo ambito è giusto dire che il Nuovo Testamento “compie e supera” l’ Antico; qui non c’ è stravolgimento, si può sfruttare il VT sfoggiando una quantità di disposizioni o esortazioni contenute nel Deuteronomio, nel Levitico, nei Proverbi, nei libri di molti profeti. Questi passi si possono quindi considerare ancora pienamente attuali.

 

7)  Alcune affermazioni tratte dai testi cosiddetti “deuterocanonici”, soprattutto dai libri dei Maccabei e dalla Sapienza. Si tratta di libri che non fanno parte della Bibbia ebraica, ma solo della sua antica traduzione greca detta “dei Settanta”; i Giudei non li hanno accolti perché opere tarde e scritte direttamente in greco (anche se di una si è ora rinvenuto l’ originale ebraico, e di altre qualcuno ipotizza che vi fosse). I protestanti li hanno esclusi dal loro canone.

Quel che più conta, ad ogni modo, è il fatto che tali libri non vengono mai citati nel NT; e Gesù non li avrebbe mai potuti utilizzare parlando alle folle della Palestina, per la semplice ragione che non esisteva - o comunque non era conosciuta - una versione ebraica o aramaica.

 

A ciò non osta il fatto che la traduzione greca dei Settanta fosse allora molto diffusa nel mondo ellenistico e che sia stata usata dai redattori finali dei Vangeli. Se è normale infatti che, dovendo tradurre in greco passi biblici, ci si servisse di una versione autorevole già esistente, ciò non implica affatto che Gesù, posto che conoscesse il greco, potesse usarlo per parlare ai suoi interlocutori palestinesi, citando passi di testi di cui, come si è detto, non esisteva una versione conosciuta in ebraico o in aramaico.

È quindi singolare, al limite della stravaganza, che si considerino appartenenti al canone veterotestamentario opere che Gesù non conosceva, o che comunque ignorò completamente nella sua predicazione.

In particolare, la Sapienza è frutto di una cultura in gran parte estranea alla mentalità giudaica. La Chiesa l’ ha furbescamente inserita nel canone perché vi sono alcune affermazioni che le possono servire; ma è arbitrario dire che fa parte dell’ AT, se si pensa che ormai la stessa CEI, nella sua edizione del 2008, la data “tra la fine del I secolo a.C. e l’ inizio del I d.C.”.  Secondo alcuni studiosi sarebbe stata scritta addirittura dopo il 30 d.C., ossia dopo la morte di Gesù!

 

8)  Una moltitudine di spunti, tratti anche dai libri storici, da cui ricavare metafore edificanti. Sin dai primordi del cristianesimo, e in particolare nel Medioevo, è rigogliosamente fiorita la tecnica dell’ interpretazione allegorica, sicché la Bibbia si è trasformata in una sterminata palestra dove da venti secoli si esercita l’ acume di esegeti, teologi e pastori impegnati a reperire nell’ AT “figure”, ovvero “prefigurazioni”, più o meno pretestuosamente  sfruttabili in chiave  cristiana.

In alcuni casi abbiamo un esplicito riferimento ad opera di un evangelista: così è, ad esempio, per “Non gli sarà rotto osso” (Gv 19, 36), che accosta il Cristo morente sulla croce all’ agnello pasquale ritualmente immolato (metafora poi ripresa nell’ Apocalisse). Sempre nel NT (Gal 4, 21 ss.) abbiamo l’ interpretazione paolina di Agar e Sara come figure, rispettivamente, della Vecchia e della Nuova Alleanza; mentre l’ esegesi ha intessuto mirabili ricami sul parallelismo tra l’ Arca dell’ Alleanza e Maria, nonché sul tema della “figlia di Sion”.     

Tra i mille esempi possibili, ricordiamo ancora la liberazione dall’ Egitto vista come metafora della liberazione dell’ anima dalla schiavitù del peccato. Splendido l’ impiego che ne fa Dante quando descrive l’ arrivo al Purgatorio delle anime salmodianti In exitu Israel de Egypto (Pg 2, 46; cfr. Sal 113).

 
Chiudiamo a questo punto l’ elenco dei principali elementi veterotestamentari riutilizzabili in chiave cristiana. Anche qui ci siamo naturalmente limitati ad indicare aspetti di natura specificamente teologica, riguardanti cioè la dottrina, non la cultura.

Sotto profilo culturale, infatti, è superfluo dire che l’ AT ha rappresentato nei secoli un enorme bagaglio di immagini poetiche, di spunti narrativi, di espressioni divenute proverbiali.

 

Per tutte le lingue, le letterature e le arti figurative dell’ Occidente e del mondo slavo, nonché di quello greco, la Bibbia ha costituito, per usare una definizione di Blake resa famosa da Northrop Frye, “il grande codice”; e si tratta certo di un fattore di importanza non inferiore a quella dell’ eredità greco-romana.

Tra i soggetti privilegiati basterebbe ricordare, tanto per fare qualche esempio, il giardino dell’ Eden, il Diluvio, la torre di Babele, il sacrificio di Isacco, il passaggio del Mar Rosso, le mura di Gerico che crollano al sonar delle trombe, le gesta di Sansone, Davide e Golia, la regina di Saba, Giuditta e Oloferne, Giona inghiottito dalla balena ...

Ma tutto questo, va ribadito, è cultura. Con la teologia, e più in generale con la religione, ha ben poco a che vedere.

 

Inutile dire che anche questo elenco, al pari di quello delle differenze qualificanti tra le due religioni, potrebbe venire allungato. Ci pare però che contenga l’ essenziale di ciò che dell’ AT è stato utilizzato ed è realmente ancora fruibile in prospettiva cristiana.

È facile vedere che esso non è nemmeno lontanamente paragonabile all’ altro; e ciò soprattutto sotto il profilo qualitativo, ossia per il rilievo teologico ed ecclesiale delle voci che lo compongono.
http://www.controapologetica.info/testi.php?sottotitolo=Che cosa resta dell'Antico Testamento

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La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
Apocalisse Laica
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29/07/2013 15:03
 
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L' origine del clamoroso equivoco


Gesù MessiaA questo punto si impone una domanda: come ha potuto nascere e affermarsi, mantenendosi poi saldamente nei secoli sino ai nostri giorni, un equivoco così clamoroso?

Il Gesù della storia e il Gesù dei vangeli

Per rispondere a tale domanda occorre fare almeno un accenno a una questione preliminare, che potremmo definire del “Gesù ebreo”, in quanto consiste nello stabilire fino a che punto il Nazareno si conformò alla dottrina e alla prassi del giudaismo.

Non sono rari infatti gli studiosi che sottolineano con forza la stretta osservanza, da parte di Gesù, dei precetti e dello spirito della tradizione religiosa del suo popolo, minimizzando o addirittura negando la sua volontà di provocare una rottura con la tradizione religiosa d’ Israele, e tanto meno di fondare una nuova religione.

Un esempio di radicalità in questo atteggiamento ce lo fornisce P. Flores d’ Arcais: “Gesù non è mai stato cristiano. Non si è mai proclamato Messia. Gesù era un profeta ebraico apocalittico itinerante, che annunciava nei villaggi della Galilea la prossima fine del mondo e l’ incombente trionfo del Regno dove gli ultimi saranno i primi”.

 

Non possiamo qui prendere posizione su una questione del genere. Ci limitiamo a osservare che essa costituisce un aspetto della più vasta problematica relativa al “Gesù storico”, mirante a delineare la figura del Nazareno, e in particolare a stabilire fino a che punto sono attendibili le informazioni che su di lui ci forniscono gli evangelisti.

A questo scopo sarebbe importante sapere quando i vangeli furono scritti, in tutte le loro parti.

 

Oggi alcuni apologeti, sulla scia della tesi di Jean Carmignac secondo cui i testi greci che noi possediamo sarebbero traduzioni (ahimè, assai poco accurate!) di originali semitici, insistono per una datazione più “alta”, ossia più antica, di quella sostenuta dalla maggioranza degli studiosi: i primi vangeli, quello di Marco e forse quello di Luca, risalirebbero a loro giudizio agli anni Quaranta del primo secolo, risultando quindi posteriori di soli dieci o vent’ anni alla morte di Gesù.

Ciò costituirebbe garanzia di fedeltà alla realtà storica, in quanto, si sostiene, eventuali informazioni inesatte sarebbero state smentite dai testimoni ancora presenti in gran numero.

L’ argomento è di per sé capzioso (come noi dimostriamo nel paragrafo “Se avessero mentito sarebbero stati sconfessati” de “Gli appelli al buon senso”, nella monografia “L’ apologetica e i racconti pasquali”); ma il guaio maggiore è che i primi manoscritti completi dei vangeli in nostro possesso risalgono al IV secolo, ossia proprio all’ epoca in cui, col riconoscimento politico ufficiale e i primi due grandi concili, la dottrina cristiana riceveva una sistemazione quasi definitiva. Sicché non abbiamo alcuna garanzia che le primissime versioni di tali testi corrispondessero in tutto e per tutto a quelle che noi possediamo.

È evidente che per il problema che qui ci poniamo sarebbe utile sapere, per ciascuna affermazione attribuita a Gesù, se essa risale effettivamente a lui o è frutto dell’ idea che della sua identità e della sua missione si fece la comunità primitiva dei credenti.   Sarebbe utile, abbiamo detto; non è comunque necessario, poiché a noi interessa in primo luogo porre a confronto, su un piano sincronico, la religione cristiana quale si presenta nel Catechismo della Chiesa cattolica e la religione giudaica testimoniata dall’ AT.

Di conseguenza, non potendo disporre di certezze circa l’ autenticità delle informazioni evangeliche su quel che fece e disse Gesù, noi, come ipotesi di lavoro, considereremo in via di principio autentiche tutte le esternazioni attribuitegli nei vangeli canonici.

Di qui un corollario: poiché molte di tali esternazioni appaiono decisamente contrastanti, dobbiamo supporre che fosse lo stesso Gesù ad essere incerto, ad avere un atteggiamento oscillante. Tutte le contraddizioni scaturite dal lavorio, durato parecchi decenni, che ha portato i testi evangelici alla forma in cui li possediamo, finiscono ovviamente per investire la persona di Gesù, attribuendole tratti di marcata incoerenza.

È comunque legittimo anche ipotizzare che egli in effetti sia giunto solo gradualmente all’ idea della sua missione e della sua provenienza celeste, che vi sia stata cioè un’ evoluzione nel suo atteggiamento, o quanto meno un’ acquisizione graduale di consapevolezza delle novità dirompenti portate dalla sua predicazione.

Concretamente, il problema riguarda soprattutto i primi punti che noi abbiamo elencato fra i tratti qualificanti del cristianesimo: Trinità, Incarnazione (e quindi missione da parte del Padre), morte e risurrezione, nuova alleanza che sostituisce l’ antica e imperativo della predicazione del vangelo a tutte le genti.

Per quanto riguarda il valore dell’ espressione “figlio di Dio”, è vero che essa di per sé non aveva il valore teologico che ha nel “Credo” cristiano, potendo venire intesa nel senso di “figlio secondo la grazia, secondo l’ elezione”; nell’ AT si usava per indicare il re e anche Israele stesso.

Ma già nei sinottici, e in particolare in Marco, vi sono numerosi passi in cui la divinità di Gesù viene più o meno direttamente affermata : v. ad es. Mc 3,11 e 5,7 (l’ annuncio è fatto dai demòni stessi che vengono cacciati); Mc 14,61 (dichiarazione del Nazareno di fronte al Sommo sacerdote) ; Mc 15,39 (esclamazione ammirativa del centurione).

Implicite autoaffermazioni del proprio status divino sono poi due atteggiamenti che Gesù assume più volte: il proclamarsi signore del sabato (di cui si permette di non rispettare i divieti), e l’ arrogarsi il potere e il diritto di rimettere i peccati, prerogativa esclusiva di Dio.

In ogni caso, ci pare indiscutibile che se si accetta la testimonianza del quarto vangelo non è possibile dubitare del fatto che Gesù abbia apertamente proclamato la propria divinità: affermazioni quali, ad esempio, “Io e il padre siamo una cosa sola” o “Chi vede me vede il Padre”; e in particolare il “Prima che Abramo fosse, io sono”, seguito dal rinfaccio di Gv 10, 33 (“Non ti lapidiamo per un’ opera buona, ma per bestemmia, e poiché tu, che sei un uomo, fai te stesso Dio”) ci sembrano inequivocabili. 

Del resto, il “discorso sul pane di vita” di Gv 6 ha senso solo se chi si offre come cibo indispensabile per raggiungere la beatitudine eterna è di sostanza divina.

Gesù e l’ Antico Testamento

È un fatto che Gesù nella sua predicazione utilizza in modo massiccio i riferimenti alla Scrittura - ossia a quel che è per noi l’ AT - e ne presuppone la conoscenza nei suoi ascoltatori. Tanto per fare una minima esemplificazione:

elenca i comandamenti più importanti (Mt 19, 18-19 e 22, 37-40 par.)                                           

parla del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (Mt 22, 32 par.)

nella sinagoga di Nazaret legge il passo di Isaia 61, 1-2 (nonché 58, 6) e proclama compiuta la profezia ivi annunciata;

risponde allo stesso modo agli inviati del Battista (citando da Is 26; 29; 35 e 61);

nell’ episodio della Trasfigurazione identifica il Battista con il profeta Elia tornato sulla terra;

si esibisce in numerosissime citazioni dai Salmi;

si richiama alla Scrittura per tuonare contro i profanatori del Tempio;

“spiega”, prima ai due discepoli di Emmaus e poi agli Undici, passi scritturali che a suo dire preannunzierebbero la sua morte e risurrezione (anche se tali passi ancora oggi nessuno riesce a reperirli, come vedremo in seguito, il bluff di Gesù pare aver funzionato);

ma soprattutto egli afferma di non essere venuto ad abolire la Legge (di cui, sottolinea enfaticamente, non cadrà “neppure uno iota”), bensì a compierla. Senonché, a parte il fatto che egli si contraddice anche formalmente, poiché in realtà annuncia precisi cambiamenti (cfr. i vari “Avete inteso che fu detto ... ma io vi dico ...”), tale affermazione è sfacciatamente mistificatoria: in effetti, col solo fatto di proclamarsi figlio unigenito di Dio egli sgretola letteralmente la religione veterotestamentaria.

 

Gesù insiste molto, anche con atteggiamenti provocatori e clamorosi, sulla condanna dell’ interpretazione farisaica della Legge, attenta al rispetto formalistico delle prescrizioni e chiusa alla percezione della misericordia divina: ma, come dice la Pontificia Commissione Biblica ne “L’ interpretazione della Bibbia nella Chiesa” (p. 81),  “non si trattava da parte sua di capriccio da contestatore, ma, al contrario, di fedeltà più profonda alla volontà di Dio espressa nelle Scritture”.

Insomma, Gesù dà continuamente l’ impressione di voler restaurare la purezza originaria della fede contro le distorsioni di un’ interpretazione legalistica. Tanto che persino quando contrappone il proprio insegnamento ai precetti mosaici, come avviene a proposito del diritto di divorzio (cfr. Mt 5, 32 e 19, 8-9), paradossalmente lo fa affermando di voler rimettere in vigore la Legge originaria, premosaica.

È comprensibile quindi che si imponesse presto l’ idea di un compimento, di un’ interpretazione autentica, da parte di Gesù, della religione veterotestamentaria; mentre in realtà, ripetiamo, si trattava di vero e proprio sovvertimento.

 

Se dai Vangeli allarghiamo lo sguardo ad altri testi del NT, vediamo che anche qui il radicamento veterotestamentario è la regola. Gà nel primo discorso tenuto alla folla il giorno di Pentecoste Pietro si esibisce in lunghe citazioni (dal capitolo 3 di Gioele e dai salmi 16 e 110) che appaiono decisamente forzate.

In particolare, la prima - lunghissima - lascia perplessi: la nuova prospettiva dischiusa dal Cristo (noi oggi potremmo dire: il cristianesimo) ha forse come suo tratto qualificante il profetare e le “visioni” dei giovani, nonché i “sogni” dei vecchi? È evidente che l’ unico modo di attribuire un senso al richiamo biblico è vedervi un preannunzio di parusia imminente (peraltro escluso, come ogni altro preannunzio del genere, dal Magistero e dall’ apologetica).

 

Non meno pretestuoso, per fare un altro esempio, il discorso di alto spessore teologico costruito dall’ autore della Lettera agli Ebrei intorno alla figura di Melchìsedek, enigmatico protagonista di tre soli versetti della Genesi (14, 18-20), richiamato poi in modo non meno enigmatico in un versetto del salmo 110.

Paolo, dal canto suo, in quella che è la prima formulazione del kérygma, non esita a proclamare che “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture ...” (1Cor 15, 3-5); e un’ affermazione simile gli attribuisce Luca in At 26, 22-23: “i Profeti e Mosè dichiararono [...] che il Cristo avrebbe dovuto soffrire e che, primo tra i risorti da morte, avebbe annunziato la luce al popolo e alle genti”.

 

Ma, soprattutto, nei capitoli 9-11 della “Lettera ai Romani” Paolo parla esplicitamente del problema dei rapporti tra la la nuova fede e la fede tradizionale d’ Israele, introducendo la metafora dell’ olivastro innestato sull’ olivo.

L’ innesto sarà fecondo, scrive, perché sana è la radice su cui è stato operato (radice che altro non è se non il giudaismo testimoniato dal nostro AT); al contrario, i rami eliminati per consentire l’ operazione “sono stati tagliati per mancanza di fede”: rappresentano i giudei che non hanno riconosciuto in Gesù il Messia di cui le Scritture parlavano da secoli.

Potranno però sempre ravvedersi, in virtù della loro appartenenza alla radice dell’ olivo buono; in ogni caso, dice Paolo, “l'ostinazione di una parte d'Israele è in atto [solo] fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto [...]” (Rm 11, 25-26).

 

Si configura in sostanza l’ idea di una sorta di biforcazione nella Storia della salvezza, biforcazione in cui i giudei avrebbero sbagliato strada; o, se si preferisce, avrebbero continuato sulla vecchia non accorgendosi che la strada giusta è quella nuova, che dalla vecchia si diparte.

Avrebbero insomma equivocato, non rendendosi conto che Gesù era l’ uomo preannunziato da tutta la Scrittura.

 

Senonché la nuova religione, proprio perché non etnica, bensì universalistica, mostra subito di avere chances enormi, e praticamente “cancella” l’ altra, la sostituisce (anche a causa dell’ intervenuta diaspora di Israele), acquistando facilmente il crisma di “vera interpretazione”, “giusto sviluppo” del giudaismo, “compimento” della Legge profetato da secoli.

Il giudaismo ortodosso diventa così “devianza”; mentre in effetti deviante - e clamorosamente - è proprio il cristianesimo.

Due nodi dottrinali

a)  Sotto il profilo esegetico, uno dei nodi più appariscenti è un problema a cui abbiamo più volte accennato: la ripetuta mistificatoria affermazione secondo cui la vicenda pasquale di Gesù (passione, morte e risurrezione) sarebbe preannunziata “nelle Scritture”, vale a dire nell’ AT.

È Gesù stesso che dà inizio al tormentone parlando ai due di Emmaus: “"Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24, 25-27).

Nientemeno! Si comincia addirittura da Mosè. Sfortunatamente, circa questa meravigliosa abbondanza di preannunzi l’ esegesi devota non riesce a darci alcun lume.

In effetti, anche ammesso che Gesù abbia interpretato la figura del servo sofferente in senso individuale (anziché in senso collettivo, secondo l’ esegesi allora corrente), come poteva rimproverare i discepoli per il fatto di essere rimasti delusi dalla sua morte, dato che del servo sofferente non si dice affatto che sia destinato a risorgere?

Come poteva dunque la sua avvenuta risurrezione non risultare fatto assolutamente imprevedibile, sulla base della Scrittura? (Altra cosa erano i suoi reiterati preannunzi, che però a quella data non erano ancora Scrittura; e “quel che non è nel libro non esiste”, come ci viene continuamente ripetuto.)

 

Comunque sia, poche ore dopo, davanti a tutti gli apostoli, Gesù è ancora più esplicito:

“"Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi".

Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: "Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni"” (Lc 24, 44-48).

È un vero peccato che Luca non ci dica quali passi della Scrittura citò Gesù. A proposito dell’ episodio di Emmaus, la Bibbia CEI, sentendosi in dovere di fornire almeno uno straccio di nota per venire incontro alla più che legittima curiosità del lettore circa tali sortite del Risorto (il quale, si badi, dà una solenne lavata di capo ai discepoli, accusandoli di ottusità e di accidia), non trova di meglio che indicare altri passi di Luca. La nota si presenta come segue:

“24, 25-27 bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze: era stato preannunciato da Dio nella Scrittura. cfr. Lc 9, 22; cfr. Lc 13, 33; cfr. Lc 17, 25; cfr. Lc 24, 7.”

Ora, è chiaro a chiunque che tali passi non appartengono alla Scrittura nota a Gesù e ai suoi discepoli, la quale ovviamente comprendeva soltanto (e neppure integralmente) quello che è il nostro Antico Testamento. Sicché, prendendo sul serio la nota della CEI saremmo nel ridicolo fino al collo: il Risorto rimprovererebbe ai due di Emmaus di non avere debitamente considerato e meditato il Vangelo di Luca!

 

Per scrupolo di completezza, aggiungiamo che anche nel quarto vangelo Gesù, dopo essersi solennemente proclamato Figlio del Padre divino e da lui inviato, afferma di essere prefigurato nella Scrittura: “Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me” (Gv 5,39).

 Qui la Bibbia CEI, per non crearsi grane, finge di non vedere il problema e non fornisce alcuna delucidazione.

 

Benedetto XVI, nel suo secondo volume su Gesù di Nazaret, in uno dei balbettamenti a cui non di rado si riducono le sue argomentazioni tese a difendere l’ indifendibile e a dimostrare l’ indimostrabile, suggerisce a mezza bocca il versetto del salmo 110 (“non permetterai che il tuo santo veda la corruzione”) richiamato anche da Pietro nel discorso di Pentecoste. Quindi, concludiamo noi, è da quel versetto (per di più considerato nella versione greca dei Settanta, come ci dice il Papa stesso, anziché in quella originale ebraica) che i due discepoli avebbero dovuto “ricavare”, e quindi prevedere, l’ evento della risurrezione di Gesù!

 

San Paolo, oltre ai “secondo le Scritture” di cui, come abbiamo visto, correda il suo kérygma in 1Cor 15, ci offre l’ assicurazione che il suo vangelo “annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti” (Rm 16,25-26).

 

Nella prima lettera di Pietro poi si legge: “Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite”.

Qui almeno, pudicamente, si accenna al carattere vago di queste profezie, i cui autori, si dice, cercavano di cogliere con lo sguardo quel che ancora era avvolto nella nebbia. La CEI nella sua nota naturalmente non può far altro che rinviare al solito passo del Servo sofferente, al salmo 22 (in realtà assolutamente irrilevante) e alle parole di Gesù agli Undici riferite da Luca e da noi sopra ricordate.

 

La mistificazione continua comunque il suo percorso sino a quella che si può considerare, quattro secoli dopo, la sistemazione dottrinale del cristianesimo: ancora la definitio del concilio di Calcedonia afferma che il “Cristo Signore unigenito [...] non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo figlio, unigenito, Dio, Verbo e Signore Gesù Cristo, come un tempo hanno insegnato i profeti e poi lo stesso Gesù Cristo, [...] (DS 302). Naturalmente, nessuna indicazione circa i passi di questi profeti, né dai padri conciliari né dal Magistero o dall’ apologetica.

 

Ci siamo soffermati su questo punto perché si tratta di un tema cruciale per quanto riguarda il nesso profondo tra i due testamenti. L’ insistenza a tutti i livelli, negli scritti neotestamentari, su profezie che in effetti non esistono è un pietoso tentativo di occultare la realtà, ossia il fatto che nell’ Antico Testamento non figura neppure il più vago accenno ai due misteri fondamentali del cristianesimo, quello del Dio trinitario e quello dell’ Incarnazione, coi suoi corollari di passione, morte  e risurrezione.

Queste ultime, insieme alla figliolanza divina del Messia, sono state annunciate soltanto da Gesù stesso, ossia proprio dal sedicente Messia e Figlio di Dio.  

 

b)  L’ altro punto su cui va posta attenzione per chiarire il presunto legame tra i due testamenti è di natura teologica. Si tratta di stabilire a che cosa corrisponda il Dio dell’ AT in termini di Dio del NT, di fare cioè una sorta di “conguaglio” tra i due. L’ unica soluzione teologicamente corretta ci pare quella che viene sostenuta, tra gli altri, da J.-H. Nicolas: Yahweh non è altro che la Trinità.

È ovvio infatti che la natura di Dio non può essere mutata nel passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento: se Dio è uno e trino, lo è ab aeterno. Il fatto che l’ AT non accenni mai alla Trinità perché non ne ha il minimo sentore non impedisce a noi, che fortunatamente sappiamo come stanno le cose grazie alla rivelazione neotestamentaria e al magistero della Chiesa, di proiettare sulla figura di Yahweh/Elohim la struttura trinitaria.

 

È irresponsabile dunque liquidare il discorso sul Dio dell’ AT dicendo semplicemente che “di regola ho theós indica il Padre”, quasi che si trattasse di un banale dettaglio di cultura biblica di cui si vuole arricchire il fedele “sprovveduto”. Qui si gioca tutta l’ essenza e la validità del cristianesimo visto come continuatore della religione di Abramo, di Isacco e di Giacobbe: quello del “conguaglio” tra il Dio dall’ Antico Testamento e il Dio del Nuovo è il problema più importante, per quanto riguarda la ricezione del VT nel depositum fidei.

In ogni caso, si dovrebbe almeno trarne la logica conseguenza che non si deve più scrivere “Dio” (o “il Signore”), bensì “il Padre”: se è lui, occorre chiamarlo col suo nome.

 

Si badi che diverso è il discorso da fare per il NT: per quanto la cosa sia teologicamente più che discutibile, qui è pacifico che quando si parla di Dio si intende il Padre, in quanto vi è contrapposizione, esplicita o implicita, rispetto al Figlio (cfr. ad es. Gv 3, 16: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il proprio Figlio, l’ unigenito ....”).

Si tratta in fondo di un’ applicazione del principio sancito dal concilio di Firenze: in Deo omnia sunt unum, ubi non obviat relationis oppositio; quella “contrapposizione di relazione” che nell’ AT, come sappiamo, non può mai darsi per il semplice fatto che è completamente assente la prospettiva trinitaria.                              

 

Ma perché, ci si può chiedere, la Chiesa rifugge dall’ identificazione del Dio trinitario con il Dio di Adamo, di Abramo e di Mosè?

Il motivo ci pare chiaro: approfittando del fatto che sotto il profilo esegetico è indubbio che il Figlio e lo SS sono completamente sconosciuti all’ AT (circostanza di per sé irrilevante, come abbiamo detto, per chi veramente creda alla rivelazione portata da Cristo), si vuole tenere la figura di Gesù “pulita” dalle macchie che offuscano quella di Yahweh.

Per fare un esempio: come immaginare una partecipazione e un ruolo di Gesù Cristo, il Buon Pastore, nel Diluvio e negli altri innumerevoli massacri di innocenti compiuti da Yahweh?

 

Il problema teologico tuttavia rimane, poiché è impossibile non chiedersi: dov’ erano il Figlio e lo SS mentre “il Padre”, ho theós, si esibiva in queste operazioni? Non potevano certo essere in vacanza ai Caraibi.

L’ escamotage si rivela pertanto piuttosto ingenuo: il Dio uno e trino, il “Dio di Gesù”, come prudentemente lo chiamano alcuni esegeti che lo vorrebbero il più possibile distinto dalla divinità irosa e vendicativa che domina l’ AT, non può in effetti non coincidere in tutto e per tutto con quest’ ultima.

Gesù Messia e figlio di Dio

 
Prima di arrivare alla conclusione, è opportuno sottolineare che due sono le fondamentali novità annunciate dal Nazareno: il suo ruolo messianico e la sua natura divina (con i corollari della Trinità e dell’ Incarnazione).

 

Circa il secondo punto, la rottura con la religione veterotestamentaria, nella misura in cui si considerino autentiche le esternazioni di Gesù riportate dai Vangeli, è netta e indiscutibile. Si tratta solo di vedere quando e come, nella realtà, i contenuti rivoluzionari della sua predicazione furono portati a conoscenza dei suoi uditori.

In ogni caso, al termine del suo ministero gli uomini del Sinedrio mostrano di non avere dubbi circa la radicale eterodossia di tale predicazione, che a buon diritto definiscono blasfema.

 

Circa la prima qualifica, invece, in via di principio la pretesa di Gesù non era in conflitto con le Scritture, poiché il Messia era atteso, e i tempi erano maturi per la sua venuta; egli poteva quindi legittimamente avanzare la propria candidatura, legittimandola con i “segni”. E la primissima apologetica cristiana, finché non appare chiaramente definita la fisionomia divina del Cristo, punta proprio sulla sua messianicità, ossia sul suo ruolo di “unto” inviato da Dio.

Di fatto, però, vi era l’ ostacolo della profonda differenza tra la figura del Messia delineata dalle profezie bibliche e quella che Gesù pretendeva di incarnare. 

 

Delle aspettative giudaiche intorno al Messia abbiamo una conferma nei Vangeli stessi, dove i due di Emmaus affermano candidamente di essere costernati per la morte di colui che speravano restaurasse il regno d’ Israele. E quaranta giorni dopo, alla vigilia dell’ Ascensione descritta negli Atti, gli apostoli tutti mostrano di attendersi ancora un evento del genere: a niente son servite le spiegazioni del Risorto.

Nella dinamica neotestamentaria (o, quanto meno, in quella lucana) si dovrebbe dunque intendere che la rivelazione piena del vero ruolo messianico di Gesù gli apostoli l’ ebbero solo a Pentecoste.

 

È probabile quindi che nei primi tempi la polemica cristiano-giudaica si sia  concentrata soprattutto sul controverso ruolo messianico di Gesù.

L’ apologetica cristiana sin dall’ inizio punta sull’ idea che i Giudei non abbiano capito che il Messia ha una missione di riscatto non politico, nazionalistico, bensì spirituale. Questo sarebbe stato il loro equivoco; ma è  chiaro che, a parte l’ enigmatica figura del Servo di Yahweh (che peraltro Gesù formalmente non richiama mai), manca a tale tesi ogni appoggio nell’ AT.

Un messaggio del genere è in effetti recato dal Battista; ma questi non si trova nel Vecchio Testamento, bensì nel Nuovo. E indirettamente conferma che simili prospettive erano appunto frutto dei tempi nuovi, dell’ apocalittica dell’ epoca ellenistica, con la quale Yahweh aveva poco o nulla da spartire.

 

I nuovi credenti, comunque, nella misura in cui - accumulando profezie prretestuose - cercano di dimostrare che, al contrario, Gesù è proprio l’  “unto” profetizzato, si muovono ancora nell’ ambito di una disputa intragiudaica: si tratta di stabilire chi è seguace del giudaismo corretto.

Del fatto che in realtà si è in presenza di una nuova religione probabilmente nessuno dei contendenti è ancora pienamente consapevole, poiché nei primi decenni successivi alla morte di Gesù, quando si formano le “tradizioni” che alla fine confluiranno nei Vangeli, non è facile fare un bilancio obiettivo di tutte le “novità” portate da Gesù, e tanto meno delle altre ancora in via di formazione ad opera dei suoi seguaci.

In termini attuali, potremmo dire che all’ inizio il cristianesimo venne probabilmente considerato dai giudei una setta eretica del giudaismo, pur se essi non potevano esprimersi in questi termini perché era ancora estraneo alla loro esperienza religiosa il concetto stesso di eresia, come abbiamo detto parlando della trasformazione del concetto di fede (v. “Tratti qualificanti ...”, n. 10).

 

Conclusioni

 

Ci pare dunque di poter concludere che non è difficile comprendere come siano andate le cose. Gesù era ebreo, impregnato di cultura e mentalità giudaica, tanto da non perdere occasione di citare dalla Bibbia quanto riteneva potesse servire alle sue argomentazioni, magari anche solo per contrapporre il proprio vangelo ai testi sacri della tradizone o alla pratica religiosa corrente. 

Egli in effetti parte dai presupposti teologici del giudaismo; senonché le novità che si permette di introdurre (sempre che siano almeno in parte attendibili i resoconti evangelici, s’ intende) sono letteralmente devastanti: mentre afferma di voler semplicemente portare a compimento la Legge, di fatto la stravolge, fondando una nuova religione.

Paolo poi fa il resto, con la dottrina del peccato originale e della giustificazione per mezzo della fede nonché con la teoria dell’ olivastro innestato sull’ olivo, teoria che “sistema” definitivamente i rapporti tra le due confessioni.

 

Quello che scaturisce dalla predicazione del Nazareno non è quindi, come vorrebbe l’ apologetica, “un altro volto di Dio”: è, nel senso pieno del termine, “il volto di un altro Dio”.

Ovvero diciamo che si è trattato non di un ritocco estetico, sia pure particolarmente incisivo, ma di un vero e proprio trapianto di faccia. 

 

Il cristianesimo ha la sua matrice nell’ ebraismo, storicamente ne è figlio. Ma non è raro il caso che i figli ripudino il padre e mostrino maggiore affinità psicologica e spirituale con qualcun altro.

Così è avvenuto per il cristianesimo e l’ ebraismo. Il fatto che Gesù, la Madonna e gli apostoli fossero tutti ebrei, come spesso ricorda l’ apologetica, è del tutto irrilevante.

Tra giudaismo e cristianesimo vi è continuità genetica, nel senso che il secondo è generato (meglio sarebbe dire “occasionato”) dal primo; ma si tratta ormai di due organismi radicalmente diversi, quali possono essere il bruco e la farfalla, che pure sono geneticamente legati.

 

Del resto, la storia ci mostra parecchi casi di movimenti politici, sociali o culturali sorti sul tronco di ideologie molto diverse. Il fascismo, ad esempio, nasce dal socialismo, e Mussolini ha sempre sulle labbra “il popolo” (tanto da chiamare “Il popolo d’ Italia” il giornale del partito), presentandosi come autentico paladino dei suoi diritti e dei suoi ideali, in quanto autore della vera rivoluzione, la “rivoluzione fascista”.

Qualche analogia presenta il caso di Hitler, che non per nulla chiama il proprio movimento “nazionalsocialismo”. E si potrebbe ricordare la vicenda di Napoleone: la liberté rivendicata e instaurata dalla rivoluzione frutto della cultura illuministica finì per dar vita al più classico dispotismo.

 

In tutti questi casi, insomma, chi si fa banditore di un’ ideologia nuova si presenta, più o meno esplicitamente, come autentico interprete di un’ altra già largamente diffusa, a cui proclama di voler dare attuazione. Ma in realtà il nuovo ordine politico e culturale si contrappone frontalmente – o è comunque sostanzialmente estraneo - all’ ideologia di cui pretende di essere il compimento.

 

Per concludere: Gesù non è un riformatore religioso, sia pure geniale e radicale; è, a pieno titolo, un fondatore di religione. Il suo annuncio è di fatto una creazione ex novo.

E in ogni caso è creazione ex novo, rispetto al giudaismo veterotestamentario, ciò che dalla sua predicazione è scaturito, poiché alla novità di tale predicazione si sono sommate prima le interpretazioni fornitene dalle tradizioni che han dato vita agli scritti del NT e poi il lavorio teologico dei quattro secoli successivi.

 

Ma il fatto che egli si sia continuamente richiamato alla Scrittura e che i suoi primi seguaci abbiano insistito sul suo ruolo messianico e sulle presunte profezie che lo preannunziavano ha impedito di comprendere tempestivamente che nella prospettiva teologica dischiusa dal Nazareno il VT non serviva più a nulla.

E quando, a metà del secondo secolo, qualcuno se ne accorse, era ormai troppo tardi per intervenire.

 

Del resto, per un’ operazione di questo genere sarebbe stata in primo luogo necessaria una struttura ecclesiale forte e centralizzata, anziché una costellazione di chiese in larga misura indipendenti.

Inoltre sarebbe stato compito estremamente difficile decidere che cosa conservare e che cosa buttare, smembrando la Scrittura; e ciò magari per epurare anche solo determinate parti di singoli libri. 

Da ultimo, di tutta l’ operazione si sarebbe dovuta dare una motivazione teologica, riconoscendo in tal modo ufficialmente le radicali differenze tra le due confessioni.   

 

Si finì quindi per non fare nulla, conservando tutto e riducendo al silenzio le sporadiche voci critiche che si levavano.

Cominciò così il bimillenario lavoro di interpretazione dell’ Antico Testamento alla luce del Nuovo. Ossia un’ esegesi spesso fantasiosa e non di rado fraudolenta.

http://www.controapologetica.info/testi.php?sottotitolo=L'origine del clamoroso equivoco
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La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
Apocalisse Laica
Le religioni dividono. L'ateismo unisce


Il sonno della ragione genera mostri (Goya)


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