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Noi insegnanti produciamo servi

Ultimo Aggiornamento: 24/11/2018 20:28
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Pietro Ratto sulla scuola di oggi
 


Pietro Ratto, insegnante, scrittore e filosofo, parla delle condizioni in cui versa la scuola italiana, di cosa insegna davvero ai ragazzi e di cosa dovrebbe invece insegnare.


Pietro Ratto, scrittore, filosofo e saggista. Già noto al pubblico di Byoblu per l’intervista sul caso Moro . Pietro, il tuo ultimo libro “La scuola nel bosco di Gelsi” parla di scuola con la “esse” maiuscola. Il tuo personaggio, il Prof. Gelsi, ricorda un po’ Robin Williams ne “L’Attimo fuggente“. Cosa c’è che non va nella scuola italiana?

L’aspetto negativo è questa trasformazione progressiva che l’istruzione pubblica ha subìto in una logica aziendale. La scuola è sempre più un sistema (soprattutto dal 2000 in avanti è diventata un sistema in cui i ragazzi sono stati progressivamente trasformati in clienti e “il cliente ha sempre ragione”) in cui, tramite questa scuola dell’autonomia, i singoli istituti locali si sono trovati in competizione per attirare più clienti possibili. Quindi questo ha significato anche promuoverli più facilmente, con iniziative promozionali del tipo: “Promossi o recuperati“.

Lo stesso concetto di recupero ha regnato incontrastato per il primo decennio del terzo millennio in Italia, nel senso che un alunno poteva permettersi di non studiare per anni continuando ad andare avanti essendo promosso sempre, con recuperi in extremis. Si è creata una situazione in cui si è parlato sempre più di saperi minimi. Si è diffusa una disistruzione di ragazzi sempre meno a conoscenza dei fatti, sempre meno istruiti – appunto. Addirittura per un lungo periodo c’è stata l’assenza del voto di condotta, o comunque il voto di condotta è stato considerato ininfluente. E in questa situazione, dopo una prima fase di coccole, siamo entrati nella seconda fase, quella attuale, in cui gli alunni sono oramai inebetiti, annichiliti, con una bassa cultura, così come probabilmente un certo sistema vuole, così come il modello americano impone. Quindi una cultura molto bassa, un grado di consapevolezza pressoché pari a zero. Passioni politiche, interessi, convinzioni religiose pari a zero, nel senso che basta aderire alla tradizione: ragazzi che in classe te li trovi come delle specie di mummie, non interessati a nulla se non all’ultima generazione di smartphone. Insomma, in qualche modo gli elettori ideali, i cittadini consumatori ideali, individui che sono come delle nere lavagne vuote, su cui puoi scrivere quello che vuoi.

In effetti quello che stai dicendo mi fa pensare che la scuola, come qualunque altra attività, è in grado di attirare investitori. Ma non è come sottomettere l’insegnamento dei valori elevati della vita alle esigenze di un pensiero neoliberista?

Sì. Perché in realtà ormai chi va a scuola è inserito nell’ottica del profitto, del primeggiare sugli altri, ognuno per sé. La stessa introduzione, avvenuta con la riforma Berlinguer, del concetto di credito scolastico, ha portato a una svalutazione della centralità del voto, con la sua connotazione morale: se prendevi quattro ti vergognavi, ti sentivi un verme perché avevi preso quattro. Adesso il voto è solo un tramite per arrivare a un punteggio e il punteggio è il più possibile appiattente: annulla molto le differenze tra i più bravi e i meno bravi. E soprattutto è l’anticamera dei soldi: i ragazzi a scuola sono tirati su in forte competizione gli uni con gli altri, finalizzando tutto a prendere più credito possibile, più punteggio possibile, per una questione utilitaristica. C’è questa idea del sapere che deve servire a qualcosa.




Guarda Nicholas Negroponte mentre dice che la competizione, a scuola e fuori dalla scuola, è la radice di tutti i mali.

Sempre più spesso mi capita di insegnare mentre spiego e sentirmi interrompere da qualcuno: “Questa cosa la dobbiamo sapere? Questa cosa serve?“. Non è che ci siano la passione o l’interesse: c’è soltanto l’interrogativo rispetto a quanto ciò che diciamo possa poi essere spendibile in termini di credito, in termini di pezzi di carta, in termini di soldi, in termini occupazionali.

Una delle strategie che io trovo più orrende è proprio quella dell’orientamento scolastico. Cioè i ragazzi vengono convogliati solo in alcuni rami, in alcuni percorsi di studio universitario e poi occupazionale: quelli che interessano a chi gestisce l’aspetto tecnologico, quelli più valorizzati nel sistema economico, scoraggiando invece inclinazioni artistiche, inclinazioni letterarie e umanistiche. Perché? Perché ormai da un po’ di tempo sappiamo tutti che la potenza di uno Stato è basata sulla sua capacità tecnologica, su quella economico-capitalistica e non certo sulla bellezza delle sue opere d’arte o sulla musica, come in Italia invece dovrebbe essere.

Ma in che modo gli interessi estranei alla scuola, oggi, riescono ad imporre una certa direzione all’istituto che sponsorizzano?

Si indottrinano persone che interiorizzano che l’unica cosa che conta sono i soldi, attraverso l’insegnamento della scuola, della televisione e della pubblicità. Bisogna apparire, bisogna essere di successo. Tra i vari termini orrendi di cui si alimentano tutte le ultime riforme scolastiche, c’è quella del “Successo formativo“. Cioè, l’essere promossi è ormai un processo formativo. Io mi ricordo che mia madre mi diceva: “A scuola devi andare bene perché è un tuo dovere“. Io dicevo: “Ho preso 8!“, e lei: “Beh! Era tuo dovere!“. Ecco, invece adesso è un “successo formativo” che in qualche modo gonfia di significato il vuoto di una conoscenza spesso piuttosto mediocre. È chiaro che è tutta una rincorsa a costruire una società, un sistema di persone che ha in cima alla sua scala di valori questo apparire, questo possedere, questo avere più soldi possibile, ma infelice.

La cosa che noto di più è questa diffusissima infelicità che si dirama dai ragazzi di quest’età, fino poi agli individui di età superiore. Una società in cui ogni individuo non è messo nelle condizioni di essere ciò che è, ovvero di realizzare sé stesso, costituirà una società di infelici. Ce l’ha insegnato Platone ne “La Repubblica” e di fatto le cose stanno effettivamente andando in questa direzione.

Pietro – o dovrei dire Professor Gelsi -, nel liceo dove insegni recentemente ci sono state delle manifestazioni. Cosa è successo?

Il fatto stesso che ci siano state delle manifestazioni è già qualcosa di assolutamente incredibile, di questi tempi! I ragazzi sono spinti ad accettare tutto da una scuola che educa alla servitù, al non lamentarsi, alla sottomissione. A scuola si esercita una forma di terrorismo già dai primi anni delle secondarie superiori. Si ripete cioè: “Occhio, guarda che siamo in crisi – cosa che è sempre molto utile da ribadire – e quindi sarà difficilissimo trovare lavoro. Dunque prendi qualsiasi cosa ti capiti, non alzare la testa, non farti valere, sottomettiti alle logiche neoliberiste e a tutto quello che ne consegue“. Quindi nessuno si lamenta più. Il fatto stesso che nel mio liceo qualcuno abbia osato lamentarsi del freddo, visto che si viveva in gran parte delle aule e dei corridoi a 14 gradi per sei ore di seguito, ha suscitato un grandissimo scalpore. Quasi tutti gli insegnanti si sono nascosti dietro a un dito. Da un lato speravano che i ragazzi si lamentassero perché loro stessi avevano freddo. Dall’altro, però li punivano se lo facevano, “perché io devo interrogare, perché io devo spiegare“.

Insomma, il sistema che si sta creando è un sistema che insegna molto bene a sottomettersi. Faccio un esempio per tutti: è un classico trovare il ragazzo che ti dice: “Sì prof, è andato bene il tema“. Gli chiedi: “Come fai a sapere che è andato bene?“. Risponde: “È andato bene perché ho detto quello che voleva la professoressa“. Cioè “io so per esempio che la professoressa è di sinistra e che se dico cose di sinistra allora mi da otto, mentre se comincio a dire cose di destra allora mi da cinque“. Questo è il modo grazie al quale, con una gravissima responsabilità da parte nostra, noi produciamo servi e questa scuola – che ha preso spunto dal sistema d’istruzione statunitense – è una scuola fortemente globalizzata, finalizzata esattamente a questo genere di obiettivo.

Nel tuo romanzo il professor Gelsi sprona i suoi studenti a mettere in dubbio gli stessi insegnamenti che ricevono. Questo è l’opposto del pensiero unico che permea il sistema in cui viviamo. Quale valore ha il dubbio e come lo si coltiva, in un mondo che emargina gli anticonformisti?

Il dubbio ha un valore totale. Io dico sempre ai miei ragazzi: “Se c’è un’unica cosa che deve restarvi nell’animo, alla fine dei cinque anni di liceo, quella cosa è il dubbio. La cultura è soltanto quello. Non è il sapere, ma è il dubbio di non sapere“. E d’altra parte, socraticamente, la questione è sempre la stessa: è il sapere di non sapere che fa la differenza tra chi è, forse, sapiente e chi no. Sapiente nel senso che sa che non sa e che quindi deve continuare a cercare. Il dubbio scatena – quando non è scetticismo fine a sé stesso – voglia di capire, voglia di interessarsi, di cercare e dunque scatena un impegno personale, individuale, di ognuno di noi che, in modo singolare, mette in gioco le sue aspirazioni, ma anche i suoi dubbi e le sue richieste di chiarimenti e di maggiori informazioni, che portano poi a un percorso individuale di crescita continua. Finché c’è dubbio c’è la crescita, quando si arriva alla certezza si smette di crescere.

È una scuola che invece svende il sapere a un livello estremamente banale, marginale. Una scuola che sforna esperti. Non so se ci avete fatto caso: in tv, in tutte le trasmissioni, vengono fuori esperti anche delle cose più idiote!  In questi mesi il Ministro della Pubblica Istruzione sta ufficialmente consultando degli esperti relativamente all’uso degli smartphone e dei telefoni in classe, dopo aver proibito l’uso dei cellulari dal 2007. Tra l’altro probabilmente per colpa mia, perché era nato tutto da una lettera che avevo mandato alla stampa e che si erano rimbalzati da un giornale all’altro, passando per La Repubblica, e che poi era finito a “Otto e Mezzo” quando c’era ancora Ferrara, che aveva intervistato il Ministro dell’Istruzione dell’epoca – Fioroni – e aveva detto: “In questa lettera c’è scritto che i ragazzi possono usare il cellulare in classe! Ma stiamo scherzando? Ma qui bisogna fare qualcosa!” Il ministro aveva risposto: “Entro 15 giorni stabilirò qualcosa e farò uscire una circolare“. E poi entro 15 giorni aveva fatto uscire la circolare contro l’uso dei cellulari. Proprio in questi giorni il Ministro Fedeli sta dicendo che invece “è logico, in questa nuova atmosfera tecnologica e consumistica, che si cambino le carte in tavola“. Sta dicendo che invece, forse, bisogna pensare che questi siano utili strumenti didattici e convoca degli esperti. Io mi chiedo quale sia l’esperto dell’uso dello smartphone in classe! Siamo a un tale livello di banalità! Mi ricordo tanti anni fa Grillo che nelle puntate di “Te la do io l’America” prendeva in giro quella cultura americana del tutto facile, della risata facile per sciocchezze banali, di questo senso dell’umorismo di livello banalissimo. Ecco, siamo così! Siamo in una società in cui quando vuoi fare una battuta, o vicino ci metti la faccina che ride, o la gente non ride perché non capisce la battuta. Ci siamo americanizzati. E questo grazie soprattutto alla nostra scuola.

In una delle sue lezioni il professor Gelsi parla del “Seminare senza curarsi del raccolto”. Come si può conciliare questo obiettivo con l’attuale stato di fatto, dove ciò che conta invece è proprio il risultato?

Questo è un punto di un’importanza enorme. Intanto confesso tutta la mia incapacità, perché me lo ripeto ogni giorno, di imparare a seminare senza curarmi del raccolto, ma poi è purtroppo umano, o comunque bassamente umano per quel che mi riguarda, rimanerci male se il raccolto è poco. Ma uno dei più grandi filosofi dell’ottocento, Kierkegaard, ha insistito moltissimo su questo aspetto dell’obiettivo. E dopo lui altri, compreso in Italia Augusto Del Noce. I problemi insiti in una cultura per obiettivi è stato analizzato benissimo dai grandi filosofi come un pericolo enorme, perché se un obiettivo venga raggiunto o meno è qualcosa che si valuta dal di fuori, nel momento in cui viene esternato. Noi stessi all’inizio dell’anno dobbiamo esplicitare i nostri obiettivi didattici, e poi chiunque volesse metterci i bastoni fra le ruote potrebbe verificare se li abbiamo effettivamente raggiunti o meno. Ecco, questa cultura per obiettivi è una cultura che di fatto vanifica e banalizza il lavoro, che spesso non è valutabile così facilmente da un punto di vista esteriore.

Faccio soltanto un esempio: si è parlato di una valutazione scolastica degli insegnanti tramite organi appositi, per vedere se e quanto siano in grado di insegnare. Ecco, entro che tempi e secondo quali modalità? In base a quali criteri? È un discorso che stanno svendendo a un prezzo bassissimo, ma che in realtà è di uno spessore enorme. Io ti dico: come faccio alla fine dell’anno a essere valutato dai ragazzi, quando io stesso so che il valore che i miei insegnanti hanno avuto per me è – di fatto -, compreso e “coscientizzato” nel corso di anni, decenni? È magari dopo decenni che ti rendi conto di quella famosa frase, di quell’intervento, di quell’evento che credevi casuale, ma che era assolutamente studiato per insegnarti a capire qualche cosa di più dalla tua vita. Ecco, questa questione è terrificante perché rientra in questo voler fare in fretta, in questo voler esteriorizzare tutto, in questo banalizzare l’inoggettivabile.

Secondo te cos’è cambiato nell’istruzione che ricevono oggi i nostri ragazzi da quella di 30 anni fa, per esempio?

Beh! Tutte queste cose senz’altro. Io mi ricordo da quando ho cominciato a insegnare, all’inizio degli anni 90, :i si lamentava molto della riforma di Gentile. Di fatto la scuola reggeva ancora su quelle che erano le linee direttive della scuola gentiliana della metà degli anni venti. E si diceva: “È una scuola fascista o comunque nata in quell’ambito“. Ma c’erano dei concetti, come quello della vocazione all’insegnamento, come una missione con un ruolo che non può essere in nessun modo insegnato, perché l’insegnante quel ruolo ce l’ha dentro. Insegnante è colui che sa insegnare perché dentro di sé è insegnante! C’era una fiducia nei nostri insegnanti, che poi di fatto è la fiducia che forse avevamo gli uni nei confronti degli altri. Una società invece basata su questo clima del sospetto, questo mettere tutti contro tutti, questo smantellamento di ogni valore ha portato a tutta una serie di privazioni e di abbassamenti del valore degli insegnanti, così come di moltissimi altri profili. L’insegnante adesso è un impiegato. “L’insegnante che viene valutato meglio”, l’insegnante “che piace di più ai dirigenti”…Attenzione, perché anche lì una cosa è un Preside e una cosa è un dirigente. Non ci sono più i Presidi, ci sono i “dirigenti“, in una logica assolutamente aziendale. L’insegnante non può essere l’impiegato, quello che compila i moduli, quello che progetta per rendere la scuola sempre più apprezzabile dall’esterno, ma deve essere un insegnante nel senso di “lasciare un segno“. Invece gli insegnanti oggi non lasciano nulla! Lasciano il vuoto, quel vuoto che ci portiamo dietro tutti e che abita nella nostra società.

Secondo te la scuola è  l’unico spazio dove apprendere, oppure ci sono altri luoghi deputati a questo? Per esempio mi viene in mente la rete.

Io credo che la scuola, soprattutto questa scuola, non sia certo ormai il luogo ideale per l’apprendimento, se non per il tipico apprendimento di una serie di miserie tipiche dell’umanità odierna. Una scuola, invece, una scuola fatta di insegnanti veri, è la scuola che può “insegnare”. Gli insegnanti veri sono persone che sanno lasciare un segno, che coinvolgono, che danno un’impronta importante ai ragazzi. Sì, la rete è importante. Io insegno filosofia e storia. Non termino mai una lezione di storia che non finisca con questa esortazione: andate a informarvi!

Per esempio mi viene in mente l’interpretazione recente dell’archeologo che, rispetto alla famosa questione del cavallo di Troia nell’Odissea, studiando meglio la situazione, arriva a ipotizzare che si trattasse di una nave fenicia e non di un cavallo. Cosa che avrebbe anche molto più senso perché io francamente, fossi stato un troiano, mi fossi trovato un cavallo di legno davanti alla città, l’ultima cosa che avrei pensato sarebbe stata di portarlo dentro, mentre una nave fenicia in perfette condizioni può risultare utile, può far gola. Ecco, questo è l’esempio, questa è l’idea: cioè noi segniamo cose su cui magari ci andiamo a inpuntare per decenni: “Ma non hai detto che era… ma non sai niente sul cavallo di Troia? Quattro!“, quando in realtà poi scopriamo dopo 20 anni o dopo secoli che era una balla.

Allora informatevi! E informarsi vuol dire andare a cercare. C’è il problema della verità: come faccio a sapere chi ha la verità? Questo è un problema, ma forse la verità non è tanto la conseguenza di una certa testimonianza: forse la verità è il dialogo tra le varie testimonianze. Cioè forse la verità è il confronto: forse la verità sta nel problematizzare non nel risolvere. E si ritorna a quello che secondo me è l’aspetto fondamentale: “La cultura sta nella domanda, non nella risposta“.

“Professor Gelsi”, si rivolga ai suoi studenti e gli dica quello che vuole.

Io esorto gli studenti a pretendere una scuola che li coinvolga, che li interessi, che li appassioni. Avete diritto ad una scuola che vi faccia saltare sulle sedie, che vi prenda, una scuola nella quale il tempo passi alla stessa velocità con cui passa quando siete col fidanzato, quando siete a giocare a calcio, quando state suonando la chitarra con il vostro gruppo. Deve essere una scuola interessante nel senso proprio di interessarvi, di farvi entrare all’interno del meccanismo, di farvi partecipare. Voi vi meritate una scuola così, una scuola che in qualche modo vi chiami in causa, che vi faccia sentire vivi e che riesca a produrre in voi la felicità, cioè accordare per ognuno di voi la propria strada e la propria capacità di realizzare se stessi.

https://www.byoblu.com/2017/12/15/insegnanti-produciamo-servi-pietro-ratto/#more-45895
[Modificato da kelly70 24/11/2018 20:31]



La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
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Le religioni dividono. L'ateismo unisce


Il sonno della ragione genera mostri (Goya)


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