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Lettura laica della bibbia

Ultimo Aggiornamento: 24/06/2015 20:57
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14/08/2007 01:03
 
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La falsa circoncisione di Mosè


Mosè ha vinto, ed ha portato in salvo "una grande massa di gente promiscua ... e raccogliticcia" (12,38). Così il popolo di Israele è fatto di gente raccogliticcia? La cosa è normale se si segue una idea di liberazione (egiziani schiavi, schiavi di altri Paesi, mezzi sangue, di tutto cerca di sottrarsi alla schiavitù). La cosa diventa imbarazzante se la si guarda dal punto di vista della tradizione religiosa che vorrebbe un popolo, il popolo di Abramo puro ed incorrotto ed inoltre, caspita!, circonciso (con tutti i problemi che nascono nella ammissione o meno della circoncisione degli egizi). Questa storia della circoncisione è un poco ossessiva e riguarda anche Mosè, come abbiamo già visto. Vi è un brano dell'Esodo che suona straordinario. Come quella lotta notturna della Genesi con non si sa chi. "Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, Geova gli venne incontro e cercò di farlo morire. Allora Zippora [la moglie, n.d.r] prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi [cioè il sesso, n.d.r] e disse: 'Tu sei per me uno sposo di sangue a causa della circoncisione' " (4,24-26). L'interpretazione di questo passo oscuro ed apparentemente fuori posto è che Geova, adirato per la non circoncisione di Mosè [è straordinario questo dio che si accorge ora del fatto che chi deve guidare il suo popolo non ha i requisiti per farlo!, n.d.r], voglia ucciderlo; e che allora la moglie, circoncidendo il figlio ma fingendo di staccare il prepuzio dal pene del marito, simuli la circoncisione. A questo punto si resta allibiti: l'apparenza, il rituale liturgico, soppianta la realtà?!?! E Geova che se la beve. Verrebbe da ridere se la cosa non fosse estremamente seria.

Cosa si ricava? Mosè non era circonciso e non lo fu. Quindi non era ebreo nel senso della tradizione ebraica. In tal senso il brano precedente diventa comprensibile se solo si sostituisce al soggetto "Geova", l'altro soggetto "il popolo di Geova". La circoncisione falsa era un modo per far digerire Mosè agli ebrei e non certo per ingannare dio. E questo Mosè, sia qual sia il suo status è il fondatore dello Stato ebraico, di quella "masnada di gente raccogliticcia", ribellatasi ai lavori forzati del faraone. E' il capo dei ribelli, lo spartaco della situazione che, dopo una fuga avventurosa, si sottrae ad un dominio odioso per andarlo ad imporre ad altri popoli che hanno il solo torto di trovarsi in mezzo (nella zona di nessuno) dei due grandi imperi, quello dell'Eufrate e quello del Nilo. Mosè si guadagnerà i galloni di capo di quel popolo nella lunga traversata del deserto tra mille difficoltà. Il non circonciso sarà a capo del popolo dei circoncisi e quelli che non lo erano lo saranno ad opera di Giosuè, al momento dell'ingresso nella terra promessa.

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14/08/2007 01:05
 
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Le tavole della Legge

Mosè sta quindi fondando il nuovo Stato di Israele. Oltre a quella egiziana, altre culture interverranno. A cominciare da quella della moglie di Mosè, Zippora, che era di cultura madianita. Il padre di Zippora, Jetro (che prima si chiamava Reuel, n.d.r.) gli fornirà il primo modello di organizzazione dello Stato. Poiché Mosè da solo tentava di mettere ordine tra la sua gente raccogliticcia, Jetro gli dice: "Perché siedi tu solo, mentre il popolo sta presso di te dalla mattina alla sera? ... Ti voglio dare un consiglio, e Dio sia con te! Tu stà davanti a Dio in nome del popolo, e presenta le questioni a Dio. A loro spiegherai i decreti e le leggi ... Invece sceglierai tra tutto il popolo uomini integri che temono Dio, uomini retti ..., e li costituirai sopra di loro come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine: Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà una questione importante, la sottoporranno a te ..." (18,14 e 19,22). Vi è qui un passaggio fondamentale. Una cultura diversa, sedentaria, definisce uno Stato per un popolo nomade. Nasce una burocrazia piramidale di giudici con un capo che la amministra in nome del popolo. E' una operazione analoga a quella di Solone in Grecia e di Servio Tullio a Roma: spariscono le tribù a favore di divisioni della popolazione in base al numero. Ma qui nasce un problema che a questo punto tutti si sono posti. Se ne rende conto anche Geova. Non vi sono leggi da amministrare! Ed allora Geova costruisce una sceneggiatura alla Cecil B. De Mille e fornisce le Leggi che mancavano.

Gli israeliti si erano accampati accanto al monte Sinai quando Mosè venne convocato da Geova in mezzo a una bufera o una eruzione vulcanica (visione laica, n.d.r.). Egli disse a Mosè di riferire queste parole al suo (di Geova, n.d.r.) popolo: "Se custodirete la mia alleanza, sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa!" (19,5). E qui uno potrebbe anche preoccuparsi. Da una terra promessa si passa a tutta la terra! Dalla promessa di una conquista si passa ad una nazione santa! Qui abbiamo effettuato una svolta storica rispetto ad Abramo. Dette le cose ora scritte al popolo, questo in coro disse: "Quanto Geova ha detto, noi lo faremo!" (19,8). Ecco uno dei primi pronunciamenti popolari in favore di Geova. Da qui nasce il geovismo come religione esclusiva del popolo ebraico, di quella masnada raccogliticcia. Geova annuncia successivamente a Mosè: "Ecco io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te, e credano sempre anche a te" (19, 9). Ed a questo seguono minacce di morte ripetute più volte per chi toccherà il monte. Mosè aggiunge per buon peso, tre giorni di astinenza sessuale per il popolo. Ed ecco l'evento così preparato.

"Appunto al terzo giorno, sul far del mattino, ci furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte ed un suono fortissimo di tromba ... Tutto il popolo fu scosso dal terrore. Il monte Sinai era tutto fumante" (19,16 e 17). Geova aveva Mosè di fronte. Gli ordina, incomprensibilmente (a meno che non gli servisse un interprete, n.d.r.), di scendere dal monte e di tornare su con Aronne. A questo punto Geova "pronunciò queste parole..." (20,1) e qui vi è il decalogo che viene ripetuto in due versioni. In una è lo stesso Geova che scrive con il suo dito le tavole. Nell'altra Geova detta a Mosè le leggi, raccomandandogli di scrivere con calligrafia chiara. Il fatto straordinario è che in tale decalogo non vi è traccia della circoncisione, dell'unico comandamento di Geova ad Abramo. In fondo non interessava troppo questo aspetto a Mosè, proprio perché non era un ebreo. Comunque Mosè comunicò le leggi al popolo ed il popolo le accettò. Ricomincia qui il racconto appena terminato dell'apparizione di Geova a Mosè (succede spesso, n.d.r.) e si aggiunge la minuziosa descrizione del tempio e delle vestimenta dei sacerdoti (cosa saranno forse lo sapeva solo il compilatore del VII secolo a.C. oppure il riferimento era ad altre religioni, n.d.r.). Arriviamo alla fine di questa seconda narrazione, al ritorno di Mosè dalla montagna per leggere al popolo di Geova le sue (di Geova?) volontà. Ma qui vi è la sorpresa. Il popolo di Geova si diverte con un vitello d'oro (il Bue Api?) con tutte le perfide conseguenze per il popolo di Israele (e non solo). Qui Geova sapeva di antemano cosa avrebbe trovato Mosè appena disceso dal monte. E Geova vuole distruggere quel popolo. Ma Mosè intercede e Geova perdona. C'era da sperare che il perdono chiesto da Mosè a Geova fosse anche di Mosè. Invece questi imbufalisce al vedere vitello e danze e se la prese con le tavole della legge sbattendole per terra e spezzandole! Un vero sacrilegio, soprattutto nel caso che queste tavole fossero state scritte dalla stesa mano di Geova (prima versione della trasmissione delle leggi).

Mosè spezzò anche il vitello d'oro e lo bruciò, fatto che mostra quindi l'essere il vitello di legno dorato. Ma l'ira prosegue contro "questo popolo che non aveva più freno perché non aveva più freno" (32,25) (caspita, una logica stringente!, n.d.r.). Mosè disse che chi era con Geova doveva mettersi dalla sua parte, facendo quindi un vero appello alla guerra civile. Tutti i leviti gli si raccolsero intorno e Mosè disse loro: "Dice Geova, dio d'Israele: 'Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell'accampamento da una porta all'altra: ognuno uccida il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente' " (35,25-27). Qui Mosè mente perché poco prima Geova gli aveva detto che perdonava il suo popolo. Oppure ha mentito il profeta. Sta di fatto che i leviti "agirono secondo il comando di Mosè, e in quel giorno perirono circa tremila (un'altra versione parla di ventimila) uomini del popolo" (32,28). Il tutto ha l'apparenza di un colpo di Stato da parte di Mosè e della sua tribù (i leviti genitori e balia) contro altre tribù.

Mosè si compiace con gli assassini e li promuove. Geova li benedice perché hanno ammazzato amici e parenti. Qui Geova, ripeto, era stato buono ma si intravede l'uso della religione come instrumentum regni. La cosa prosegue con Mosè che va a raccontare a Geova quello che Geova gli aveva raccontato ed era accaduto. Geova si adirò per quanto sente (qui non resta che stupire) e "percosse il popolo perché aveva fatto il vitello fatto da Aronne" (32,35). Ed a questo punto, sembrerà incredibile, ma ricomincia tutta la storia di Mosè che va sul Sinai,...eccetera, fino all'arrabbiatura e alla strage e....

Con quest'altra storia edificante si chiude l'Esodo.

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14/08/2007 01:09
 
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I Leviti, sacerdoti gendarmi

Mosè è ora il capo del popolo di Israele. Seguiremo altre sue vicende su altri libri del Pentateuco. Intanto occorre dire che già dagli episodi del Sinai intravediamo i leviti come suoi sacerdoti-gendarmi. La Bibbia in molte parti ci dice che i leviti erano "mansueti" come il loro capostipite, Levi. Ma se andiamo a ricordare ci ritroviamo con il massacro che Levi, insieme a suo fratello Simeone, realizza a Sichem. Massacro per il quale sarà maledetto dal padre Giacobbe, per poi essere premiato con il sacerdozio e con il fatto che tutti gli altri fratelli dovevano dargli una decima. L'altro è il massacro di coloro che non facevano parte della tribù levita e che insieme ad Aronne avevano festeggiato con il vitello dorato.

Osserviamo intanto che, con Mosè, cambia la struttura del potere tra gli ebrei. Prima il capotribù era tutto, anche sacerdote. Ora il sacerdote inizia a costituire una casta separata dagli altri. Una casta cui dallo stesso Mosè viene assegnato il potere di controllo, anche militare, sul popolo. In punto di morte Mosè benedirà i leviti per lo stesso motivo per cui Giacobbe li aveva maledetti: la violenza assassina che non guardava in faccia a nessuno. Dice Mosè: "Dà a Levi i tuoi Tummin, ed i tuoi Urim all'uomo a te fedele [questa espressione sta per: dai agli uomini che ti dico gli strumenti per conoscere la volontà di Dio], a lui che dice del padre e della madre: io non li ho visti ; che non riconosce i suoi fratelli ed ignora i suoi figli. Essi insegnano i tuoi decreti a Giacobbe e la tua legge ad Israele" (Dt., 33,8-10).

La vocazione omicida dei leviti si ripropone anche in altri episodi (vivo ancora Mosè, ma morto Aronne). Alcuni di questi episodi rappresentano la ribellione di altre tribù. In qualche modo si ripeteva a Mosè ciò che in Egitto gli aveva detto quello schiavo ebreo: insomma, chi credi di essere per poterci comandare? Altri episodi avevano origini diverse. Il più orrendo è quello di Peor, raccontato in Numeri . Il protagonista è Pineas, figlio di Eleazaro, figlio di Aronne, quindi per diritto ereditario, gran sacerdote. Siccome gli israeliti avevano iniziato ad avere rapporti con le donne dei madianiti, Geova ordinò a Mosè (che aveva sposato una madianita!) di "appendere al palo i colpevoli, davanti a Geova, il sole [reminiscenza del dio sole di Akenaton?,n.d.r]" (Nm.,25,4) al fine si immagina di educarli.. Ma Pineas utilizzò una variante: vedendo un israelita andare con una madianita, "prese in mano una lancia, seguì quell'uomo di Israele nella tenda e li trafisse tutti e due, l'uomo di Israele e la donna, nel basso ventre" (Nm.,25,8), cioè nel sesso. Si torna alle origini, al delitto d'onore o comunque a sfondo sessuale, inaugurato da Levi con i sichemiti. Questo duplice assassinio viene premiato per bocca di Geova in persona: "Io stabilisco con lui un'alleanza di pace, che sarà per lui e la sua stirpe dopo di lui, un'alleanza di un sacerdozio perenne, perché egli ha avuto zelo per il suo Dio e ha fatto il rito espiatorio per gli israeliti" (Nm.,25,12-13). Ma vi è di più, proprio nell'ultima frase della penultima citazione, quella di Mosè: si attribuisce a questi sacerdoti-gendarmi-assassini un compito di grande responsabilità: quello dell'insegnamento della religione.

Tra vari episodi, ci viene raccontata anche la congiura ordita contro Mosè da parte della sorella Maria (profetessa) e dal fratello Aronne. "Maria e Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope [madianita,n.d.r] che aveva sposato ... Dissero: 'Geova ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?' " (Nm.,12,1-2). Rispetto a tutto quello che si è detto prima, il discorso dei congiurati non fa una piega, particolarmente la proibizione di sposare donne straniere. Ma Geova si schiera ancora con Mosè in modo coreografico: "Scese in una colonna di nube, si fermò all'ingresso della tenda" rimproverando i due fratelli ed esaltando Mosè. E, quando se ne andò, "la nuvola si ritirò di sopra la tenda, ed ecco, Maria era lebbrosa, bianca come neve" (Nm.,12,5 e 9), salvo farla guarire dopo 7 giorni.

Chiudo con il seguire le vicende "cronologiche" della Bibbia. Continuerò invece con quattro degli episodi più significativi presi in altri Libri e con delle considerazioni generali.

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14/08/2007 01:11
 
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Giosuè e il dio eletto


Sul fatto che quella "masnada di raccogliticci" al seguito di Mosè avesse un dio certo vi è da discutere. Intanto fu Mosè il primo a dare una direttiva certa, con il massacro sotto il Sinai di tutti coloro che non erano con Geova. I leviti inaugurarono la casta dei sacerdoti-gendarmi ed il tutto resta così in termini di potere, fino a Giosuè, quando vi è un altro cambiamento strutturale. Passiamo quindi ai libri storici. per seguire un poco le vicende di Giosuè, braccio destro, erede di Mosè e conquistatore di gran parte della terra promessa, nella quale, nonostante le tante e ripetute promesse, Geova impedì a Mosè di entrare.

Geova è un dio che ha un'alternanza di adesione. E Giosuè è un'altra tappa che porta all'adesione ma in modo diverso, come vedremo. Al termine delle sue conquiste, prima di morire (a 110 anni!), Giosuè raduna tutte le tribù di Israele a Sichem per parlare loro e cercare risposte plebiscitarie. Egli ricorda che: "I vostri padri, come Terach padre di Abramo e padre di Nacor, abitarono dai tempi antichi oltre il fiume [alta mesopotamia], e servirono altri dei" (Gs. 24,2) e ricorda la storia della conquista attribuendone merito a Geova concludendo: "Temete dunque Geova, e servitelo con integrità e fedeltà; eliminate gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume [a Carran] e in Egitto, servite Geova. Se vi dispiace di servire Geova, scegliete oggi chi volete servire: se gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume, oppure gli dei degli Amorrei, nel paese dei quali abitate" (24,14 e 15).

In questo brano si dicono varie cose. A Carran, Abramo aveva altri dei e non conosceva Geova. In Egitto gli ebrei che seguirono Mosè avevano altri dei, come il Bue Api che tentarono di ricostruire (il vitello dorato).

Nell'esodo gli ebrei sembrano proprio non avere ancora un loro dio. A questo punto Giosuè offre una scelta, addirittura tra tra tre gruppi di divinità, quelle mesopotamiche, quelle egizie e quelle palestinesi (amorree) ma con l'avvertenza (da non trascurare, per le possibili conseguenze!) che egli e la sua casa hanno scelto di "servire Geova". Di fronte a questa cosa gli ebrei avevano già una risposta, o no? "Lungi da noi l'abbandonare Geova per servire altri dei ... Anche noi vogliamo servire Geova, perché egli è il nostro dio" (Gs., 24,16-18). Ma Giosuè insiste con un discorso in cui sembra negare ciò che vuole: "Voi non potrete servire Geova, perché è un Dio santo, un Dio geloso ... Se abbandonerete Geova e servirete dei stranieri, egli vi si volterà contro ..." (24,19-20) ed il popolo, naturalmente: "No! Noi serviremo Geova!" (24,21).

Abbiamo qui un ottimo quadro di una società politeista con un venditore di un dio rispetto ad un altro. Per di più un tal dio è anche geloso e vendicativo. Definizione di un principio di intolleranza verso altre religioni che vuol dire, verso altre culture ed altri popoli. E Giosuè può concludere: "Voi siete testimoni contro voi stessi che vi siete scelto Geova per servirlo ... Eliminate gli dei dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso Geova, dio di Israele" (24,22 e 23). Ecco che il popolo eletto ha in realtà eletto il suo dio: la vera storia del popolo eletto da dio ci si è rivelata come la storia del dio eletto dal popolo! Anche se, naturalmente vi sono altrove affermazioni opposte (ma la Bibbia dice e dirà sempre tutto ed il contrario di tutto).

La scelta solenne fatta in presenza di Giosuè, naturalmente non fu definitiva. I tradimenti seguirono. Infatti, "Dopo quella generazione ne sorse un'altra, che non conosceva Geova ... e servirono i Baal ... e seguirono altri dei di quei popoli che aveva intorno" (Gdc., 2,10,12). C'è a questo punto da osservare che vi è una sorta di lunga marcia dal politeismo al monoteismo con la triste constatazione del fatto che questo non fu certo un avanzamento, ma una chiusura verso gli altri, una sorta di razzismo.

Su Giosuè vi ancora altro da dire. Con il racconto delle sue imprese troviamo nei libri storici l'inizio di quella categoria storica che è l'idea dello sterminio di chi non è con lui, dalla propria parte. Israele mostra dalla Bibbia di non conoscere altri rapporti con altri popoli che non siano di sterminio. E lo sterminio va oltre la strage in campo di battaglia (opera indegna di ogni esercito); esso investe tutta la popolazione, talvolta risparmiandone bambini e donne per farne schiavi e concubine (ma talvolta sacrificando anche loro , come contro i madianiti). Questo sterminio è presenza ossessiva in tutto il libro di Giosuè: "Così Giosuè batté tutto il paese ... Non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni essere chje respira, come aveva comandato Geova, dio d'Israele" (Gs., 10,40). Ebbene questo è un ritornello che si ripete SEMPRE nel libro di Giosuè. E la Bibbia si compiace talmente dello sterminio da inventare perfino il noto episodio del sole e della luna fermati da Giosuè per prolungare il giorno, in modo da completare il massacro; e da spiegarci come gli ebrei si trattenessero sei mesi nel paese dei madianiti, per non lasciarvi superstiti. E non mancano frasi lapidarie del tipo: "Poi il paese non ebbe più guerra"; "Nessuno mosse più lingua contro gli israeliti".

Viene subito in mente l'Iliade che tra ogni crudeltà prevede l'infinita tenerezza tra Ettore ed Andromaca ed il loro figlioletto Astianatte; c'è il tragico pianto di Achille per la morte dell'amato Patroclo; c'è la pietà dello stesso Achille di fronte al padre del nemico ucciso ... E così per ogni altra tragedia guerresca dell'antichità. A lato di vergogne vi è sempre la speranza che nasce dalla pietà, dal tentare di avvicinarsi alle ragioni del "nemico". Qui no! Qui non vi è mai ombra di pietà. Lo sterminio deve sempre essere compiuto fino in fondo. E neanche a prendersela con il popolo ebraico. E' Geova che vuole così! Questo, cioè quello descritto dalla Bibbia, è il suo mondo di promesse.

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Salomone, Giosia ed Esdra

Dopo Giosuè, il periodo dei giudici, quello dell'effettiva conquista, vede l'alternarsi del geovismo con culti assorbiti da popolazioni locali. Con l'avvento della monarchia, le cose non andranno diversamente. Saul, il fondatore della monarchia, per iniziativa del giudice-sacerdote Samuele, cade in disgrazia per "non aver fatto ciò che è giusto agli occhi di Geova", cioè per non aver sterminato tutti i filistei. Con gli eredi di Saul, Davide e suo figlio Salomone, si ha il periodo d'oro della monarchia nel nome di Geova ma con molti cedimenti ad altri culti: "Giuda e Israele erano numerosi come la sabbia del mare e mangiavano e bevevano allegramente" (1 Re, 4,20). Davide fu il fondatore della monarchia teocratica e colui che trasportò l'arca dell'alleanza a Gerusalemme. Inoltre egli fabbricò un altare, su una delle alture della prima sconosciuta Gerusalemme, sul quale sacrificare a Geova. Qui, nella Bibbia seguono racconti, come sempre non concordanti nel vari Libri. La loro caratteristica comune è che sono costruiti, come nel costume di molte tradizioni antiche, in una epoca in cui i fatti sono già accaduti ma con la pretesa sensazione che i fatti siano profetizzati da un'epoca precedente. Quindi il famoso tempio di Salomone sembra essere profetizzato già sotto Davide ed in modo da tentare paralleli con Mosè e la sua costruzione dell'Arca dell'alleanza, dati i progetti che vengono forniti dallo stesso Geova.

Ma prima di andare oltre su questo tempio che segnerà, nella Bibbia, una svolta politica e culturale è, come già detto, fondamentale riferirsi allo studio ponderoso di due archeologi ebrei contemporanei, Israel Finkelstein (Nadler Institute of Archeology all'Università di Tel Aviv) e Neil Asher Silberman (Centre for Public Archeology and Heritage Presentation, Belgio), recentemente pubblicato in Italia e dal titolo: Le Tracce di Mosè, Carocci, 2002. Dicono i nostri autori: "Una lettura ravvicinata della descrizione biblica dell'epoca di Salomone suggerisce in modo evidente che si tratta della raffigurazione di un passato idealizzato, una gloriosa età dell'oro. ... Oltretutto non esiste neanche un singolo testo egiziano fra quelli noti che nomini David o Salomone per la loro ricchezza e la loro potenza. E le testimonianze archeologiche dei famosi progetti architettonici di Salomone a Gerusalemme sono inesistenti. Gli scavi effettuati nel diciannovesimo ed all'inizio del ventesimo secolo intorno alla collina del Tempio a Gerusalemme non sono riusciti ad identificare nemmeno una traccia del leggendario edificio o del complesso palazzo di Salomone" (pag. 143). Questa testimonianza scientifica da parte di studiosi ebrei dovrebbe sgombrare il campo da mitologie e superstizioni. Si tenga presente quanto detto nella interpretazione di ciò che segue.

La costruzione del tempio, da parte di Salomone, rappresenta, come accennato, un momento di accentramento del potere politico e religioso nella terra di Giuda, la più meridionale di tutte le tribù e la più lontana dai contatti esterni, soprattutto con le popolazioni del nord. Questa commistione di potere politico e religioso viene fuori clamorosamente (ed in modo blasfemo) in una frase della Bibbia: "Salomone decise di costruire un tempio al nome di Geova ed una reggia per sé" (2 Gr., 1,18) nella quale frase vi è la perfetta parità dei poteri e non una discendenza di uno dall'altro. Questa è l'eredità che noi abbiamo nella Chiesa di Roma: per secoli sulle chiese hanno figurato nomi di Papi e/o di santi, dimenticando l'origine dei luoghi di culto.

Il tempio in quanto tale mostra che si abbandona la tradizione cananea e fenicia e quella israelitica dei tabernacoli e le tende. Ora intervengono ingegneri, artigiani, artisti,.... si passa ad una religione con caratteri piuttosto sincretisti (ogni popolo ha il suo dio e rispetta quello degli altri) per l'apporto delle culture fenicie e libanesi, culture di coloro che dovranno costruire. Il re fenicio Chiram aiuta Salomone nell'opera dedicata a Geova, mentre Salomone continuerà ad adorare i Baal ed Astarti fenici (il profeta ci dice che questa cosa era dovuta all'influenza delle 700 mogli e 300 concubine di Salomone - sic! -). Inoltre il tempio è una flagrante violazione di tutte le leggi mosaiche. E' violata la prescrizione di non scolpire immagini di alcun essere vivente, infatti, come solo esempio, il bacino dell'acqua lustrale poggia su ben dodici buoi di bronzo inoltre "c'erano leoni, buoi e cherubini; le stesse figure erano sulle traverse ... sulle pareti scolpì cherubini, leoni, ecc..." (1 Re., 7,25-27). Insomma Salomone gareggia con i popoli vicini, inizialmente indicati da sterminare. E nel discorso di inaugurazione del tempio Salomone afferma varie cose che mostrano che quanto dice è quanto già sapeva il cronista, al momento della redazione. Infatti Salomone afferma che il tempio è inadatto per un dio dei cieli (il fatto è straordinario per chi ha terminato una impresa come quella) e, nel fare ciò mostra che dovevano esservi delle opposizioni al suo operato. Egli parla poi di suo popolo che sarà sconfitto perché ha peccato contro Geova, di deportazione del suo popolo verso altre terre, di preghiere che da lontano rivolgeranno a Geova "rivolti verso il paese che tu hai dato ai loro padri, verso la città che ti sei scelta e verso il tempio che io ho costruito al tuo nome" (1 Re., 8,47-48) mostrando che dalla Bibbia deriva il modo di pregare dei musulmani. In questo discorso vi è anche un elemento di tolleranza fondamentale (a parte il solito ridiscutere dell'appropriatezza di tal dimora per Geova), purtroppo smentito rapidissimamente nel futuro. Dice Salomone: "Anche lo straniero, che non appartiene ad Israele tuo popolo, se viene da un paese lontano, a causa del tuo nome ..., se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora" (1 Re., 8,41-43).

La visione salomonica del mondo diviso a metà tra geovismo e sincretismo non durò. A Salomone successe lo scisma religioso e la secessione politica. Il regno unitario era durato un centinaio d'anni (1030-931 a.C.). Nacque, ad opera del generale di Salomone, Geroboamo, un regno di Israele del Nord (10 tribù!) dove prevalse il sincretismo e dove i leviti erano appartati dal potere e dove erano tollerati culti idolatrici, tra cui quello del vitello. Dall'altra parte rimase solo la piccola tribù di Giuda sotto il comando di Roboamo. I leviti, sacerdoti prima sparsi per tutto il territorio, si concentrarono in Giuda, appena privati del sacerdozio. Questa fuga dal nord al sud di sacerdoti geovisti si ripeterà due secoli dopo, al momento della caduta del regno d'Israele sotto i colpi dell'impero assiro di Sargon II (721 a.C.). Questa grande migrazione di leviti in giudea, dove già erano in maggioranza, fa nascere il sentimento dell'unità nazionale che doveva compiersi alla luce di una nuova alleanza con Geova (seconda legge che Geova aveva consegnato a Mosè). Dei re che si susseguono, la Bibbia ne salva solo due (il regno di Israele aveva peccato per aver fatto ciò che non è giusto agli occhi di Geova): Ezechia (716-687) che regnò dopo la caduta di Israele e Giosia (640-609). Ezechia sembra restaurare la prescrizione di rappresentare essere viventi e, seguace di Mosè e Geova, fa distruggere il serpente di bronzo che usava Mosè sopra al suo bastone (ma non si occupa delle altre immagini nel tempio). Ezechia comunque iniziò un restauro del tempio, restauro che proseguì per molto tempo. Giosia continuò tale restauro e, durante tali operazioni, il gran sacerdote Chelkia ritrovò il libro della legge, quel codice, attribuito a Mosè e poi inserito nel Deuteronomio. Con tale libro si fece opera di indottrinamento, alla quale Giosia fece seguire atti concreti. Riferendosi agli oggetti di altri culti (ed anche al culto di Geova professato fuori dal tempio), Giosia userà questi verbi: "bruciare, demolire, profanare, far scomparire, frantumare, fare a pezzi, tagliare, immolare, riempire con ossa umane o bruciarvele sopra" (23,4-14). Inoltre "immolò sugli altari tutti i sacerdoti delle alture locali e vi bruciò sopra ossa umane" (23,20), indi "fece scomparire anche i negromanti, gli indovini, i penati, gli idoli e tutti gli abomini che erano nel paese di Giuda e in Gerusalemme, per mettere in pratica le parole della legge, scritte nel libro trovato dal sacerdote Chelkia nel tempio" (23,24).

Il cronista è entusiasta: "Prima di lui non era esistito un re che come lui si fosse convertito a Geova con tutto il cuore e tutta l'anima e con tutta la forza, secondo tutta la legge di Geova; dopo di lui non ne sorse un altro simile" (23,25). Geova non ricambiò tante attenzioni e Giosia fu ucciso al primo incontro con il faraone Nekao che passava di lì per andare in Assiria. Questo entusiasmo del cronista e la liquidazione dei posteri, nasce dal fatto che, sotto Giosia vi fu la compilazione del corpo centrale della Bibbia. Si trattava di esaltare in qualche modo, colui che pagava per questa operazione (in tal senso i "giornalisti", non hanno cambiato molto il loro comportamento).

La deportazione del popolo di Israele del 721 a.C. era stata e rimase senza ritorno: nel paese, accanto a pochi ebrei poveri (agricoltori ed artigiani in gran parte) lasciativi dai deporatatori assiri, furono introdotti coloni dai paesi vicini, con il risultato di una popolazione mista, quella dei samaritani aperta a varie religioni. Tra queste anche il geovismo perché, secondo la Bibbia, gli assiri avevano commesso l'errore dal quale Geova aveva messo in guardia gli ebrei al momento della conquista, cioè di spopolare troppo il paese, ridando spazio pericolosamente a belve feroci. Furono quindi proprio i nuovi abitanti a invocare l'invio di preti leviti, esperti del luogo.

La deportazione di Giuda ebbe invece un suo piccolo ritorno dopo mezzo secolo, anche se il grosso degli israeliti e giudei restò in Babilonia. Principali promotori del ritorno furono il profeta Ezechiele, Esdra, "sacerdote e scriba della legge del Dio del cielo" (Esd.,7,12) e Neemia, "coppiere del re" (Neh.,1,11). Nei libri dedicati a questi personaggi si descrive la ricostruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme (mentre la reggia di Salomone non sarà ricostruita). Il vero artefice del ritorno fu il nuovo signore di Babilonia, Ciro (585-530 a.C.) già re di Persia, della dinastia degli Achemenidi, che si rifaceva alla religione del dio Ahura-Mazda, disposta ad identificare il suo dio con il dio unico degli ebrei e a tollerare tutti i culti. A seguito di un editto di Ciro, 42.370 persone e 6.337 tra schiavi e schiave tornano a Gerusalemme con la naturale opposizione di chi ormai da anni abitava quelle terre (samaritani ed arabi). La ricostruzione procede ma diventa necessaria la vigilanza armata. I samaritani chiedono di partecipare a tale impresa ma non vengono accettati. Allora si rivolgono al successore di Ciro, Artaserse, per avvertirlo di questa popolazione, da sempre ribelle, che presto o tardi provocherà sedizioni. Dopo una breve sospensione dei lavori, il re Dario, reintegrerà le disposizioni di Ciro con un suo editto. A questo punto si aggiunge uno strano documento che dovrebbe essere del successore di Dario, Artaserse II (404-358), indirizzato ad Esdra per invitarlo "a fare inchiesta in Giudea ed a Gerusalemme intorno alla osservanza della legge del tuo dio" (7,14), ed in più gli viene ingiunto: "Quanto a te, Esdra, con la sapienza del tuo dio, che ti è stata data, istruisci quelli che non la conoscono" (7,25).

Si tratta di una novità rispetto all'editto tollerante di Ciro. Ora si tratta di intervenire sulle coscienze, a cui si fa seguire una precisa sanzione: "A riguardo di chiunque non osserverà la legge del tuo dio e la legge del re, sia fatta prontamente giustizia o con la morte o con il bando o con ammenda in denaro o con il carcere" (7,26).

Così, alla ricostruzione materiale del tempio segue quella ideale del geovismo. Quella provincia dell'impero persiano può di nuovo instaurare l'intolleranza, questa volta con un ordine di un re straniero. Ma vi è un qualcosa di più triste della pena di morte invocata da Artaserse, la più spietata ferocia degli ebrei contro se stessi. Con Esdra nasce il giudaismo che sarà implacabile con ogni deviazione dalla legge che non voleva inquinamenti di razza (a questo punto, la cosa pare straordinaria). Ai capi che vengono a segnalargli che né il popolo, né gli stessi leviti e sacerdoti si sono separati dalle popolazioni locali, anzi, "hanno preso in moglie le loro figlie per sé e per i loro figli; e così hanno profanato la stirpe santa" (9,1-2). Esdra risponde prima lacerandosi le vesti e strappandosi la barba ed i capelli per la disperazione, e poi tenendo un discorso al popolo per ammonire che "il paese di cui voi andate a prendere possesso è un paese immondo per l'immondezza dei popoli indigeni" e "per questo non dovete dare le vostre figlie ai loro figli, né prendere le loro figlie per i vostri figli" (9,11 e 12).

E' l'antico precetto mille volte violato, ma che da questo momento sarà messo definitivamente ed intransigentemente in pratica. L'assemblea del popolo di Geova, rimanderà alle loro terre le mogli ed i figli nati da essi (come definire ciò?). Viene sancito la distruzione dei beni e l'espulsione dalla comunità per chi non esegue entro tre giorni la decisione. Inizia così la violenta separazione che dà il via al giudaismo. Resta da mettere d'accordo ciò con quanto aveva sostenuto Salomone, a proposito dell'accettazione dello straniero ma, tant'è, queste continue contraddizioni ora giungono al termine. Il giudaismo presenta, rispetto a persecuzioni e violenze comuni a tutte le altre comunità religiose, la triste novità del ripudio delle mogli e dei figli considerati stranieri. Si tratta di una pia violenza esercitata in nome di dio.


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Vicende storiche di Israele

Questa ricostruzione termina qui.

Offro ora una periodizzazione ed una sintesi molto breve delle vicende storiche di Israele, dopo le migrazioni dei patriarchi tra Mesopotamia ed Egitto durante alcuni secoli del II millennio a.C., narrate nella Genesi, dopo le vicende dell'esodo dall'Egitto sotto Mosè, e la promulgazione a opera sua della prima legge, narrate appunto in Esodo, relative al sec. XIII.

1) 1225-1030 a.C.: Conquista della terra promessa, contemporanea allo stabilirsi dell'egemonia assira in Mesopotamia. Fu opera non di Mosè né di Giosuè e della sua generazione (1225-1200 a.C.), come narra il suo libro, ma dei capi, politici e religiosi, detti giudici, in generale geovisti, che gli succedettero nel corso di circa due secoli. Né fu azione rapida e comune di tutte le dodici tribù fraternamente unite, bensì una serie di iniziative sparse e contrastate delle singole tribù. Alla conquista si accompagna un'epoca di imbarbarimento, un vero e proprio "medioevo", confermato dalle scoperte archeologiche. Avvenimento chiave del geovismo: l'assemblea di Sichem convocata da Giosuè, che vede l'adesione delle tribù del nord, che forse non erano discese in Egitto, e l'assenza di Giuda dislocato invece al sud.

2) 1030-931 a.C.: Passaggio alla monarchia unitaria per tutti i territori conquistati dalle dodici tribù (ne abbiamo una versione monarchica e una antimonarchica). L'iniziativa è del sacerdote e giudice Samuele, che incorona re Saul; coi suoi successori Davide e Salomone, la conquista viene consolidata e ampliata e si instaura una monarchia teocratica. Al geovismo apertamente proclamato e accentrato in Gerusalemme si accompagna tuttavia un certo sincretismo, con l'apertura ai culti di divinità dei popoli vicini. Avvenimento chiave: la costruzione del tempio in Gerusalemme, che tuttavia non esclude ancora le sedi locali di culto sulle "alture", e l'assemblea nazionale convocata da Salomone per l'occasione.

3) Dal 931 a.C.: Secessione e scisma religioso tra i due regni, sulla base delle divisioni culturali e amministrative emerse già sotto Salomone. Al nord, dieci delle dodici tribù costituiscono il regno di Israele (Samaria), destinato a durare due secoli. Vi prevalgono culti stranieri (Baal) con repressioni sanguinose del geovismo, come "quando Gezabele [moglie fenicia del re Achaz] uccideva i profeti di Geova (2 Re, 18, 4). A sud, resta il regno di Giuda, più spesso geovista ma nemmeno esso sottratto alle tentazioni di sincretismo religioso. Tra i due regni, alternative di alleanze e di guerre.

4) 931-721 a.C.: Regno di Israele, e sua fine a opera degli assiri: deportazione degli israeliti in Babilonia e insediamento di altre popolazioni, accanto ai superstiti, sui loro territori. Ne nasce la popolazione mista dei samaritani, non ignari di Geova, cugini-rivali per secoli dei giudei del sud. Forse proprio dai profughi di Israele in Giuda, convinti che la disfatta fosse dovuta all'abbandono del culto di Geova, vengono riportati in Giuda i testi sacri.

5) 721-587 a.C.: Sopravvivenza del regno di Giuda, per quasi un secolo e mezzo, continuamente minacciato da assiri ed egizi. Accoglienza dei profughi di Israele e del loro geovismo a opera di Ezechia. Avvenimento chiave: restaurazione del geovismo a opera di Giosia (622 a.C.), subito contrastata, "riscoperta" della legge (Deuteronomio = seconda legge), accentramento del culto nel tempio di Gerusalemme e abolizione sanguinosa del culto sulle alture. Ma nemmeno il geovismo salva dalla distruzione il regno di Giuda e dalla deportazione la sua popolazione.

6) 587-537 a.C.: Cattività babilonese anche per i giudei, ad opera dei caldei, succeduti agli assiri. È questo il periodo in cui la privazione di una patria reale rinsalda il bisogno di preservare la patria ideale. La lettura e anzi la riscrittura del libro della legge (Torah), sollecitata dal profeta Ezechiele, preserva gli ebrei dal totale assorbimento tra le altre popolazioni dell'impero babilonese (caldeo).

7) 537-332 a.C.: Ritorno del "resto" degli ebrei in Giuda. Ciro il grande, re dei medo-persiani, abbatte l'impero caldeo e in nome del "dio del cielo" ridà libertà di culto alle popolazioni soggette. Gli ebrei, tornati a Gerusalemme, ricostruiscono il tempio e le mura, sotto la guida di Esdra e Neemia. Avvenimenti chiave: lettura pubblica della Torah (è il momento della "terza legge") e ripudio di mogli straniere coi loro figli: nascita del giudaismo.

8) 332-134 a.C.: Età ellenistica. La conquista dell'Oriente da parte dei greco-macedoni di Alessandro Magno segna un nuovo assoggettamento degli ebrei ai regni alessandrini: quello egizio dei Lagidi, fino al 240 a.C., quello antiocheno dei Seleucidi, dal 240 al 142 a.C.: Antioco IV Epifane profana il tempio (175-164 a.C.). All'interno del popolo ebreo si combattono una tendenza sincretista ellenizzante e una geovista nazionalistica.

9) 175-134 a.C.: Vittoriose rivolte giudaiche dei Maccabei contro gli antiocheni in nome di Geova. Si profila la presenza dei romani (già nel 189 a.C. Cornelio Scipione aveva sconfitto Antioco III, e nel 133 Attalo re di Pergamo aveva lasciato in eredità i suoi regni ai romani); i Maccabei cercano la loro alleanza e creano uno Stato indipendente. "I giudei erano considerati amici alleati, e fratelli da parte dei romani" (I Mac., 14, 40).

10) 134-64 a.C.: Monarchie miste, relativamente indipendenti: moltiplicarsi delle sette religiose all'interno del geovismo, con le dispute sulla interpretazione della Torah, che daranno poi luogo alla costituzione di quell'altra raccolta di testi che ha nome di Talmud. Nel 64 a.C. Pompeo riduce la Siria e la Palestina a provincia romana: si succedono "etnarchi" e "tetrarchi", tra cui Erode, sotto il controllo dei romani.

11) 52 e 70 d.C.: Le due diaspore finali del giudaismo. La prima è quella, "attiva", del giudaismo cristiano, che col concilio di Gerusalemme (52 d.C.) decide di aprirsi a tutte le genti (i "gentili"); la seconda è quella, "passiva", del giudaismo geovista, avvenuta ad opera di Tito dopo la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.). Nel primo caso si può ripetere con Seneca e sant'Agostino che "i vinti dettero le proprie leggi ai vincitori"; nel secondo che comunque i vinti non furono mai domati, e conservarono la propria identità nazionale e religiosa.


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I dieci comandamenti


Nei dieci comandamenti, che non ho discusso facendo la sintesi della Genesi e dell’Esodo per non spezzare la cronologia, si riassume tutta l'eticità e la religiosità ebraico-cristiana.

Come spesso nella Bibbia, il testo compare in due redazioni, in Esodo (20) e in Deuteronomio (5) e questo comporta già la necessità di badare agli sviluppi storici di questa legislazione e di questa moralità. Che in essa siano presenti molti elementi di legislazioni di altri paesi, è cosa ben nota: ci si può rifare, ad esempio, all'antico codice di Hammurabi, del 1750 circa a.C., o alle più recenti leggi assire del sec. XIII a.C. (basta poi recarsi in Egitto a visitare una qualunque tomba e si ritroveranno gli ultimi 7 comandamenti in positivo: io ho rispettato questo, io ho rispettato quello,...) In generale si attribuisce a merito degli ebrei l'aver saputo costringere in brevi sentenze quello che, nelle altre legislazioni è disperso in una casistica interminabile: e certo questo è vero, ma soltanto per la prima redazione. Forse ciò era anche dovuto, se il loro testo originario era davvero così antico, alla necessità di una memorizzazione orale presso un popolo di nomadi che non disponeva di biblioteche, ma portava tutti i suoi beni sul dorso di asini e cammelli e li riponeva in tende. E alle opportunità mnemoniche risale certo anche la formulazione prevalentemente in negativo dei comandamenti (non far questo, non far quello).

La cosa proibita risulta meglio, e tutto il resto è permesso.

D'altra parte, le lungaggini casistiche seguono subito anche nella Bibbia, col codice dell'alleanza (Es., 20-23), e poi col codice deuteronomico (Di., 12-26) e la legge di santità (Lv., 17-26), per non parlare del Levitico tutto intero. Sono prescrizioni successive, in gran parte risalenti all'epoca in cui ci sarà un sacerdozio consolidato, con un suo tempio e una sua complessa liturgia.

Ma, tornando ai dieci comandamenti, per iniziare, di tutto vi si parla, meno che di circoncisione: più che giusto, da parte dell'incirconciso Mosè, e contribuisce a una loro possibile universalizzazione. Il loro numero, e la loro diversa struttura fecero discorrere molto: se alcuni sono enunciati brevissimi, altri svolgono discorsi complessi. Flavio Giuseppe li sintetizzò perfettamente (Ant. lud., III, 91), ma la Chiesa cattolica, presa tra la necessità di conservare il numero perfetto di dieci (la potente tetrakis), e quella ancor più stringente di conformarli alla propria teologia e liturgia, dovette cambiare un pò le cose. Si attestò infine sulla proposta di sant'Agostino, togliendo il secondo comandamento che proibiva le immagini, e risolvendo in due l'ultimo: con scarsa intelligenza e mediocre risultato come vedremo.

Io qui mi soffermerò sulla redazione biblica originaria, ma tenendo presente anche quella cristiano-cattolica: e questo ci aiuterà a capire come nella storia degli uomini possa accadere che si assumano parole antiche per dire cose nuove.

Il primo comandamento: «Io sono Geova tuo Dio...: Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es., 20, 2 = Dt., 5, 6), è comunemente gabellato come la fondamentale affermazione della unicità di dio e come prova dell'originario monoteismo degli ebrei. Comunemente, dico; ma non per gli addetti alle segrete cose, dato che oggi perfino i teologi sanno ben distinguere tra monoteismo e politeismo, anche se non si curano troppo di dar pubblica voce alle loro distinzioni.

In realtà quel comandamento prova, al più, l'unicità non di dio, ma del dio di Israele: prova cioè che gli ebrei avevano come loro proprio un solo dio. Intanto questo non esclude che essi riconoscessero, e in molte occasioni venerassero, anche gli dèi di altri popoli: anzi, sia nelle affermazioni di principio sia nella pratica di vita, questo avvenne per secoli. Ma, quel che più conta, proprio quel testo in apparenza monoteista dimostra il sostanziale politeismo di Israele. Non solo vi si parla di Geova (e non del «Signore», come dicono i cristiani), ma questo dio chiamato per nome è un dio in mezzo ad altri dèi, che hanno altri nomi. Se no, che bisogno ci sarebbe di un nome? e che bisogno avrebbero avuto i cristiani di sostituirlo appunto con «Signore»? Il «non avere altri,dèi», non significa affatto negare la loro esistenza, ma soltanto escluderne il culto; e la parola «Elohim», del primo versetto della Bibbia e in altri suoi passi, indica inequivocabilmente altri dèi, e non Geova. Insomma, per gli ebrei, in questa fase del- la loro storia e in questa tipica manifestazione della loro religiosità, si può parlare semplicemente di politeismo corretto da una esclusiva monolatria o, più semplicemente, di politeismo monolatrico.

Solo molto lentamente passeranno dalla proibizione del culto di altri dèi alla affermazione della loro inesistenza: ma all'inizio il loro dio è inequivocabilmente un dio tra gli altri, con la sola differenza che è un dio «geloso». Quello stesso comandamento che per gli ebrei era il secondo e che i cristiani hanno cancellato, nel proibire il culto delle immagini (ma i cattolici dopo molte battaglie continueranno a venerarle), ammonisce: «Io, Geova, sono il tuo dio, un dio geloso» (ivi): e questa faccenda della gelosia (di cosa se non di altri dèi?) torna più volte, sia in Esodo, sia in Deuteronomio, in Giosuè, in Geremia, in Ezechiele ecc. ecc. E’ una dichiarazione di un esclusivismo intollerante e settario, che il popolo ebraico abbandonò a più riprese per lunghi periodi della sua storia, soprattutto durante il fiorire dei suoi due regni di Israele e di Giuda, più o meno profondamente influenzati dalle culture delle popolazioni dominate e confinanti. Non è necessariamente una loro superiore idea della divinità. Dovrà passare del tempo perché da un dio geloso si passi a un dio unico, perché il totem di una tribù di beduini (o qualunque cosa siano stati gli ebrei delle origini) divenga il creatore del cielo e della terra, perché il padre e il «signore» di quei pochi divenga il Padre e il Signore di tutti. Per arrivare a questa concezione, il popolo ebraico dovrà vivere la dura esperienza della sconfitta, che è sconfitta e scomparsa del suo «dio degli eserciti», e poi trovarsi proseguito e insieme smentito dalla sua filiazione cristiana, la quale sola ritrova, bene o male, e più male che bene, un dio universale. Anche i suoi profeti, Isaia nella seconda metà dell'VIII sec. a.C., Geremia alla fine dello stesso secolo, Ezechiele dopo un altro secolo, parlano sempre del «nostro» dio e degli «altri dèi». Sono più tardive le affermazioni effettivamente monoteiste.

La concezione diffusa resta quella di un dio (che dal momento della conquista è «dio degli eserciti», 1 Som., 1, 3) in mezzo agli altri. Così sulla bocca di Mosè nel canto della vittoria per il successo dell'esodo, sentiamo dire: «Chi è come te fra gli dèi, Geova?» (Es., 5, 11), così sulla bocca di Salomone, quando parla al popolo consacrando il tempio, sentiamo dire: «Geova, Dio di Israele non c'è un Dio come te, né lassù nei cieli, né quaggiù sulla terra!» (1 Re, 8, 23), non ce n'è «uno come lui» vuol dire che ce sono tanti, diversi e inferiori a lui.

Lo stesso cristianesimo, del resto, conservò a lungo, anche nelle riflessioni dei suoi massimi pensatori, una strana incertezza sull'esistenza o meno di altri dèi o demoni, e insistendo tanto su Satana (anche con gli ultimi papi) e aggiungendo agli angeli pagano-biblici i suoi santi, ha contribuito non poco a conservare nell'opinione diffusa una concezione politeistica.

Resta tuttavia che il primo comandamento, letto come è nel testo biblico originario e come viene adattato nelle traduzioni cristiane, ha due significati del tutto diversi: chiaro il primo, equivoco il secondo. A essi se ne sta aggiungendo oggi un terzo, che riconquista una sua chiarezza monoteistica. Leggiamoli tutti e tre.

«Io sono Geova, tuo Dio» è chiaramente la formula di un politeismo monolatrico, che ha bisogno del nome per distinguere questo dio dagli altri.

«Io sono il Signore, tuo Dio» è la formula che si impone nel cristianesimo trionfante e separato ormai del tutto dall'ebraismo nel IV sec. d.C., ma, presa com'è tra l'incudine della tradizione e il martello della nuova concezione, resta a metà, del tutto sgangherata e insignificante. Non spiega niente, è semplicemente una tautologia.

Nel secondo racconto sulla vocazione di Mosè c'è un passo che dice

«Dio (Elohim) parlò a Mosè e gli disse: "Io sono Geova! Sono apparso ad Abramo, a Isacco e Giacobbe come Dio onnipotente [El Shaddai], ma col mio nome di Geova non mi sono mai manifestato a loro"» (Es., 6, 3). Stando alla lettera della Bibbia, questa è una palese menzogna, cosa disdicevole per il libro di dio. Chi ha letto la Bibbia sa che la rivelazione del nome era già avvenuta. Geova (questa volta lui, e non Elohim) si era già rivolto ad Abramo dicendogli: «Io sono Geova, che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese» (Gen., 15, 7); e Abramo gli aveva risposto: «Signore {Adonai) Geova...» (15, 8). E questa era stata, nel racconto biblico, la prima volta che Geova si era manifestato col suo nome. Poi di visioni di Isacco non ci si dice niente, ma quanto a Giacobbe, si dice che lo vide in sogno e che udì il nome: «Ecco, Geova gli stava davanti e disse: "Io sono Geova, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco"» (28,13). Dunque, era già la seconda volta che Geova si presentava col suo nome, in sogni o visioni, tra i quali è difficile stabilire una sicura differenza. E, a parte questo, prima di quella «falsa» dichiarazione a Mosè, ho contato 190 volte nella Bibbia il nome di Geova, sia nella narrazione del compilatore, sia sulla bocca dei personaggi, che mostrano così di conoscerlo.

Lo nomina per prima Eva (Gen., 4, 1), per ringraziarlo di aver avuto Caino; poi ci si dice che dai tempi dell'altro suo figlio Set «si cominciò ad invocare il nome di Geova» (4,26), ed era già un errore dato che lo aveva già invocato Eva. Poi lo nomina Lamech, padre di Noè (5, 29); poi Noè lo benedice come dio di Sem, di cui «Cam divenga schiavo» (9, 26), davvero nobile occasione per nominare dio; poi l'invocano Sara, Lot, Làbano, Lia, il servo di Abramo, e anche quell'Esaù, figlio di Abramo, che sarà escluso dal popolo di Abramo. Altre volte si dice, usando il discorso indiretto, che costoro e altri «invocarono il nome di Geova», e altre volte il nome è nominato dal redattore tra gli altri personaggi della sua storia.

In tutti questi casi avvengono strani pasticci: si alternano vari nomi, oltre a Geova, di cui è difficile dire se siano nomi propri o nomi comuni: Elohim (gli dèi), El Shaddai (dio onnipotente o dio della steppa), Adonai (Signore), ai quali si può aggiungere El Elijón, il dio altissimo,il cui sacerdote Melchisedech benedice Abramo, ricevendone in cambio la «decima di tutto» (Gen., 14, 18-20). E’ evidente che si tratta di nomi che corrispondono a varie tradizioni religiose, mesopotamiche o fenicie o egizie, assimilate dagli ebrei. Quanto a Geova, che appare più nettamente come un nome proprio, si è discusso molto sulla sua forma e sul suo significato. Per la forma, si tratta delle quattro consonanti dell'alfabeto ebraico traslitterabili come YHWH, sostenute poi dalle vocali di Elohim o di Adonai. Per il significato, si è detto che corrisponde a «Io sono colui che sono» o «ciò che sono», cioè l'esistente, ciò che è.

Una cosa, tuttavia, è certa: che le varie tradizioni confluite nella Bibbia (elohista, geovista, sacerdotale, e poi deuteronomista) coi loro intrecci creano non poche ambiguità. Se davvero Geova si è rivelato per la prima volta col suo nome a Mosè, allora la Bibbia non avrebbe dovuto mai pronunciarlo prima; se Geova è il dio degli ebrei, allora non avrebbe dovuto farlo invocare da Eva, Set, Lamech, Noè, Nimrod, cioè da personaggi che precedono Abramo e la nascita del popolo ebraico. Ed è comunque strano sentir dire: «Geova disse: Io sono el Shaddai», e poi: «Elohim disse: Io sono Geova». Troppi nomi, e troppa confusione di soggetti e predicati! Lo svolgersi cronologico e il mutarsi di un culto e dell'idea stessa di dio viene qui a manifestarsi sotto forma di confusione grammaticale.

Nel mondo cristiano, c'è solo da sorridere per i nuovi pasticci che si è riusciti, un'altra volta, ad aggiungere.

Quando il suocero madianita di Mosè, Jetro (o Reuel), udito il miracoloso racconto dell'esodo, commenta (nelle traduzioni cristiane): «Ora io so che il Signore è più grande di tutti gli dèi» (Es., 18, 11); quando Mosè nel suo canto di vittoria per l'esodo dice: «II Signore è prode in guerra. Si chiama Signore» (15, 3); quando all'inizio del Salmo 110, attribuito a Davide, si legge: «Oracolo del Signore al mio Signore», è evidente che ci si sta prendendo in giro: si tratta di frasi totalmente insensate, che vanno invece lette: «Or io so che Geova...», «Si chiama Geova...»; «Oracolo di Geova...» (e qui il secondo «Signore» è Adonai).

Il fatto è che si vuole dare una lettura monoteista di testi chiaramente politeisti, dove Geova, dio degli ebrei, è contrapposto ad altri dèi. E quanto al fatto che Geova sia il dio degli ebrei, mi sta bene: ma di sicuro lo è soltanto a partire da Mosè, influenzato forse dal faraone Akenaton, perché, rileggendo i passi che riguardano Abramo e gli altri, appare, se non evidente, probabile che il redattore geovista può aver interpolato anche lì il suo nome, cosi come l'ha interpolato anche prima, mettendolo sulla bocca di Eva, che proprio non poteva conoscerlo.

Resta per ora solo da enunciare il secondo comandamento: «Non pronuncerai invano il nome di Geova tuo Dio...» (Es.,20, 7).




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Il terzo comandamento ci porta in apparenza, nel nome di Geova, in ambiente terreno; ma in realtà restiamo nellapura teologia. Non a caso nella redazione deuteronomista è il più prolisso. La sostanza è questa: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo... Perché in sei giorni Geova ha fatto il cielo e la terra e il mare, e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo...» (Es., 20, 8-11)

Questa del sabato è la sola vera presenza diffusa del primo racconto della creazione nel resto della Bibbia e anche nella tradizione cristiana, al livello del senso comune.

Qui la teologia assume un grande valore umano: il diritto a essere periodicamente liberi dal lavoro, un diritto che può essere pienamente conquistato solo nelle civiltà che dispongano di un surplus di prodotti (o in cui alcuni pochi dispongano di molti schiavi), viene qui affermato come valore di principio. Certo anche i greci avevano la loro scholé, e i latini il loro otium, nonché le loro feste periodiche: e sebbene le feste periodiche fossero per tutti, padroni o servi, e talvolta, come i saturnali, comportassero un momentaneo rovesciamento dei rapporti tra loro, tuttavia la scholé o otium come tempo per gli «svaghi» intellettuali era cosa riservata agli uomini liberi, ignota agli schiavi. Per gli ebrei questo riposo assume un valore generale di edificazione, che i romani non riescono a comprendere. Seneca, citato da sant'Agostino nella Città di dio, diceva che «perdevano circa la settima parte della loro vita senza far niente» (VI, 11); e Tacito ripete: «Dicono che nel settimo giorno abbiano stabilito il riposo (otium} perché quel giorno avrebbe portato la fine delle loro pene [dell'esodo]. Altri invece che sia in onore di Saturno...» (Hist., V, 4), che qui Tacito identifica palesemente con Geova.

Comunque, l'osservanza di questo riposo del sabato divenne a poco a poco assurdamente ossessiva, e la Bibbia ci dà subito un tragico esempio di come venisse fatto rispettare: «Mentre gli israeliti erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna nel giorno di sabato... Geova disse a Mosè: "Quell'uomo deve essere messo a morte: tutta la comunità lo lapiderà fuori dall'accampamento"» (Nm., 15,32-36).

Se questo racconto ha tutta l'aria di un apologo moralistico, intercalato in prescrizioni liturgiche da qualche pio sacerdote redattore del testo che noi possediamo, l'osservanza del sabato si definì sempre più rigorosamente. A un certo momento si giunse a redigere un preciso canone di trentanove lavori proibiti nei vari campi: agricolo (seminare, arare, cuocere), pastorale (filare), di sartoria (cucire due punti, strappare il filo necessario per cucirli), cacciare, scrivere due lettere dell'alfabeto, cancellare dalla tavoletta quanto necessario per scriverle, costruire o demolire più di tanto, accendere o spegnere un fuoco, battere col martello e così via. La casistica era davvero infinita: «Può un sarto portare con sé l'ago di sabato? Può una donna raccogliere un granello di pepe cadutole di bocca il sabato?».

Certo è che il rispetto del sabato portò non poche sofferenze agli ebrei, che consideravano la sua violazione come un atto sacrilego, in quanto negava il culto del loro dio, e intendevano rispettarlo anche in guerra. Il libro dei Maccabei lamenta che, durante le persecuzioni di Antioco Epifane, «non era possibile osservare il sabato, né celebrare le feste tradizionali, né fare aperta professione di giudaismo» (2 Mac., 6, 6), e aggiunge particolari tremendi: «Altri che si erano raccolti nelle vicine caverne per celebrare il sabato..., vi furono bruciati dentro, perché essi avevano ripugnanza a difendersi per il rispetto a quel giorno santissimo» (6,11).

Più tardi, anche nelle guerre contro i romani il sabato fu occasione di disastri. Tito Livio, citato da Flavio Giuseppe, racconta dell'espugnazione di Gerusalemme da parte di Pompeo, nel 63 a.C.: «Presa la città nel giorno del digiuno, mentre i romani, entrati a forza, sgozzavano quelli che erano nel tempio, tuttavia costoro continuavano a celebrare il rito divino; né per timore di perdere la vita né per la moltitudine di quelli già uccisi furono volti in fuga, ritenendo meglio sopportare presso gli altari tutto ciò che era necessario soffrire, piuttosto che trascurare un comandamento delle leggi patrie» (Ant. Iud., XIV, 4,3).

Le stesse cose ci racconta lo stesso Flavio Giuseppe nella sua Guerra giudaica, riferite in particolare alla guerra condotta da Vespasiano e conclusa dal figlio Tito con la definitiva presa e distruzione di Gerusalemme; tra gli altri episodi che tralascio, parlando dell'assalto agli alloggi sacerdotali, ci informa che lì, dal tetto «ogni settimana, secondo il rito, uno dei sacerdoti saliva per preannunciare nel pomeriggio col suono della tromba l'inizio del sabato, e la sera del giorno dopo per annunciarne la fine, dando così al popolo il segnale per la sospensione e la ripresa del lavoro» (Bel. Iud., IV, 582). Dove si trova anche l'indicazione dell'origine del suono delle campane nelle chiese cristiane per chiamare al rito e, con anche maggiore evidenza, l'origine delle preghiere del muezzin islamico dall'alto dei minareti. Si può aggiungere a quella che veniva dal discorso di Salomone per l'inaugurazione del tempio, di pregare rivolti verso la città santa, che anticipa la preghiera musulmana verso la Mecca.

Queste cose fanno capire la santità del sabato. Ma perché non raccontare anche, a questo punto, di come gli ebrei seppero ripagare i cristiani per il fatto di averlo sfruttato per vincerli, e poi di averglielo sottratto e scambiato con la domenica, con imprevedibili conseguenze?

Avvenne nel 408 d.C. Reparti giudaici delle truppe romane attaccarono di sorpresa, di domenica, i visigoti, già accampati nell'Italia settentrionale in una posizione incerta se di ospiti o di invasori dell'impero. Fosse o no intenzionalmente una provocazione o una vendetta degli ebrei contro i cristiani (che tali erano i visigoti), l'attacco ottenne un effetto che certo non dovette dispiacere agli ebrei: né a quei pochi tra loro che erano soldati romani né alla loro maggioranza dispersa nell'impero. I visigoti percepirono l'attacco mosso, di domenica, contro di loro, cristiani, come un'azione di anticristiani (e certo tali erano gli ebrei), e li dovettero identificare semplicisticamente coi «pagani», come già allora si chiamavano gli eredi della cultura ellenistico-romana. Così pensarono di vendicarsi sulla aborrita Roma pagana, e corsero ad assediarla attraversando mezza Italia: e dopo due anni di assedio la presero, la saccheggiarono e massacrarono gran parte della popolazione, risparmiando però i cristiani. Si può dunque dire che coloro che, sia pure indirettamente provocarono la prima caduta di Roma, furono gli ebrei, che così vendicarono la caduta di Gerusalemme. Se si aggiunge questa materiale, concretissima vendetta a quella già compiuta, anch'essa indirettamente a dire il vero, attraverso la cristianizzazione di Roma, che è, volere o no, una giudaizzazione, si potrà misurare quali siano state le forze della religione ebraica, e quali possano essere le forze della religione in generale. Nel bene o nel male.




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Storicità dei comandamenti terreni (4°- 10°)

Ai tre comandamenti concernenti la divinità, cioè la sua esclusività per gli ebrei, il suo nome e la santificazione del sabato (più il divieto di venerare immagini), fanno seguito comandamenti morali sui nostri comportamenti terreni.

Anche su questi e sulla loro storia ci sarebbero infinite cose da dire, ma mi limiterò al minimo indispensabile.

Il quarto comandamento, nello scendere dal cielo in terra, comincia opportunamente dal rapporto tra generazioni: «Onora il padre e la madre...» (Es., 20, 12 = Df., 5, 16). Certo, trattandosi di un rapporto bilaterale tra le due generazioni, avrebbe potuto comandare con altrettanta legittimità «Ama i tuoi figli»; ma è evidente che tra queste due possibilità c'è stata una scelta obbligata, condizionata cioè dal carattere patriarcale (in senso lato) della società ebraica di allora. Curiosamente, nella proposizione che completa il comandamento, il protagonista reale, anche se sottinteso, del discorso sono proprio i figli: «... perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà Geova tuo Dio» (ibidem).

Pare evidente che la vita di ciascuno possa prolungarsi non in quanto egli abbia onorato, da giovane i suoi genitori, ma in quanto sia egli stesso «onorato» da vecchio dai propri figli: che sono dunque il soggetto reale dell'azione comandata. Ma per l'autore del comandamento il soggetto ideale resta comunque il padre; e che si dimentichi di comandargli di amare il figlio non è senza significato. Le letterature antiche ci hanno tramandato varie vicende illustranti il rapporto padre-figlio (Edipo ecc.) Tuttavia, ciò che nella letteratura greca ha dato comunque origine a un problema, si svolge senza problemi nella Bibbia: il figlio ha doveri verso il padre, non il padre verso il figlio. In che cosa poi consistano questi doveri, è presto detto: «onorare» significa concretamente «mantenere», anche se in questo non si esaurisce tutto l'«onore» dovuto al padre.

Nell'insieme, infatti, la dipendenza dei figli dai padri era totale, né cessava con l'età: il padre combina i matrimoni dei figli, e al figlio «testardo e ribelle, che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre, e, benché l'abbiano castigato, non dà loro retta» (Dt., 21, 18), tocca la lapidazione a opera di tutti gli uomini della sua città; e la sanzione è fortemente sottolineata: «Così estirperai da te il male, e tutto Israele lo saprà e avrà timore» (21, 21). A maggior ragione, «colui che ucciderà suo padre o sua madre sarà messo a morte»(Es.,21,17).

Ed eccoci così arrivati al quinto comandamento, che dice semplicemente: «Non uccidere» (Es., 20, 13 = Dt., 5, 17). Ma anche qui le cose non sono così semplici. Questo è in sé il comandamento più umano, ma è anche il più bugiardo sulla bocca di Mosè, ed è quello meno rispettato dallo stesso Geova e, perciò, da tutti coloro che hanno spirito religioso. A parte tutti gli altri viventi, destinati da dio a morire uccisi da altri viventi o dall'uomo, è lo stesso Jahvè a punire morte con morte, quando promette che chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte. E Mosè? Ma come? Fresco dell'uccisione e della sepoltura sotto la sabbia dell'egiziano, e dell'esaltazione di Geova, prode in guerra, che con «la sua destra annienta il nemico» egiziano; pronto poi, in occasione del vitello d'oro, a dar ordine ai suoi leviti di uccidere ognuno il proprio fratello, il proprio amico, il proprio parente; a far lapidare un uomo per una bestemmia o per aver raccolto legna il sabato; a esultare, chiamandola «una cosa meravigliosa», per la morte di Gore e di Datan e Abiram con tutte le loro famiglie, e a organizzare l'espiazione, cioè il massacro, per le quattordicimilasettecento persone che avevano protestato per quella morte; e a eseguire poi scrupolosamente tutti gli stermini di altri popoli, comandati secondo lui dal dio Geova...: questo Mosè darebbe poi l'ordine di «non uccidere»?

L'ipotesi è totalmente assurda, anche se, evidentemente, significa soltanto «non uccidere ebrei innocenti, ma uccidi poi gli ebrei colpevoli di qualche trasgressione e gli impuri stranieri, a piacimento». No: questo comandamento non significa affatto quello che noi pensiamo che possa significare oggi; e non è nemmeno il comandamento cristiano, dal momento che anche i cristiani hanno commesso e benedetto per millenni tutti gli omicidi e i genocidi: ufficialmente a cominciare dall'imperatore Teodosio e dal santo Agostino, che santamente ammoniva di non uccidere alcun uomo «eccetto quelli che dio comanda di uccidere» (De Civ., VIII): dio, o chi immagina di essere il suo interprete.

Insomma, la pena di morte è sempre presente in questi pii codici, come negli empi codici di tutti gli altri popoli. Non c'è differenza: «Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte» (Es., 21, 12) il taglione lo vuole.

E passiamo al sesto comandamento, che dice: «Non commettere adulterio» (Es., 20, 14 = Dt., 5, 18), e che, malgrado l'apparenza, non è poi cosi chiaro. Naturalmente, nemmeno questo è un'invenzione di Mosè, trovandosi già nel codice di Hammurabi, vecchio ai suoi tempi di mezzo millennio; ed è soprattutto da interpretare per quello che vale in una società che praticava tranquillamente poligamia e concubinato. Sorvolo sul fatto che in italiano ci veniva comunemente tradotto, e insegnato quando eravamo bambini, con l'indecifrabile «non fornicare», senza che ci venissero date le opportune, o inopportune, spiegazioni, si che noi pensavamo irresistibilmente alle formiche, senza capire quali fossero le loro colpe. Ci si diceva anche, con formulazione più ampia: «Non commettere atti impuri», e questo risultava chiaro anche alla incipiente malizia infantile, riferendosi senza dubbio a pratiche sessuali come la masturbazione o onanismo, sul quale la Bibbia ci ha già erudito con molta confusione, e altre simili. Nella sostanza, questo comandamento allude essenzialmente ai rapporti extramatrimoniali, con donne a loro volta sposate o anche soltanto fidanzate, e con meretrici. A questi si riferisce il Codice deuteronomico: «Quando un uomo verrà colto in fallo con un donna maritata, tutti e due dovranno morire» (Dt., 22, 22); «Quando una fanciulla vergine è fidanzata, e un uomo... pecca con lei, condurrete tutti e due alle porte della città e li lapiderete così che muoiano» (22, 23). Dove l'unica cosa sicura è che Mosè, non avendo città, non poteva dare quest'ordine, che appartiene dunque a un'età successiva. E comunque, anche questo comandamento, nonostante la parità delle pene per i due sessi, ha tutta l'aria di rivolgersi solo all'uomo, primo responsabile, anche se si continuerà per secoli a parlare della «fragilità» della donna e della condiscendenza dell'uomo. È però interessante che nel Levitino (molto più recente)le proibizioni sessuali cominciano con un riferimento preciso: «Non farete come si fa nel paese d'Egitto dove avete abitato, né come si fa nel paese di Canaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi...»(Lv., 18, 3); e si continua con una minuziosa casistica di pratiche incestuose tra consanguinei» ripresa anche nelle «Maledizioni» di Mosè in Deuteronomio (27), che né Mosè né gli antichi patriarchi né i successivi re, tutti intenti a praticare anche una rigorosa endogamia, si sono mai sognati di evitare. Ma basta con questo peccato, ossessivo nella Bibbia e più ancora in tutta la tradizione cristiana fino a oggi.

Il settimo comandamento è anch'esso breve e conciso: «Non rubare» (Es., 20, 15 = Dt, 5, 19).

Ma la sua apparente perentorietà vale quanto quella del «non uccidere». E’ evidente che per gli aspetti dello sterminio o consacrazione a Geova, che riguardano le cose, il saccheggio in guerra dei beni dello straniero non è un rubare, come non è un uccidere lo sterminio di nemici. E’ invece un rubare l'appropriarsi dei beni consacrati.

Per il resto non mancano sia nel Codice dell'alleanza in Esodo sia nel Codice deuteronomico alcune specificazioni di questo divieto: «Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all'indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse» (Es., 22, 24); «Alla fine di ogni sette anni celebrerete l'anno di remissione:... ogni creditore... lascerà cadere il suo diritto...» (Dt., 15, 1-2). Si tratta dunque di limiti posti all'usura, che il cristianesimo medievale riprenderà universalizzandoli, ma che qui sono significativamente considerati solo come riguardanti i rapporti interni al popolo di Israele.

L'ottavo comandamento dice: «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Es., 20, 16 = Dt., 5,20): dal che risulta un'altra volta evidente che la si poteva lecitamente pronunciare contro gli altri, e si spiega così l'iniziale imperturbabilità di Giacobbe allo spergiuro di Simone e Levi contro i sichemiti. Comunque, nell'ambito del prossimo, cioè del popolo d'Israele, anche questo comandamento aveva una sua primaria importanza, trattandosi di una società in cui nei giudizi dei tribunali la testimonianza giurata in nome di dio aveva valore determinante. In realtà, questo comandamento andrebbe associato al secondo, che ammonisce di non nominare il nome di dio invano: questo è infatti il senso del «giurare», impegnarsi solennemente di fronte a dio, invocando il suo nome. Gli antichi, anche i romani, ci credevano tanto che il giuramento valeva anche se estorto a forza.

Il nono e il decimo comandamento dicono: «Non desiderare la casa del tuo prossimo» (Es., 20, 17) ovvero «Non desiderare la moglie del tuo prossimo» (Dt., 5, 21). E qui debbo anzitutto ricordare che nella Bibbia ebraica questi comandamenti costituiscono insieme il decimo, dovendosi contare anche il secondo sul divieto delle immagini. Comunque, l'un testo e l'altro, opportunamente sostituendo la moglie alla casa e viceversa, più o meno concordi ammoniscono: «...Non desiderare la moglie (la casa) del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bene, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (ibidem). Queste due diverse redazioni, risolte dai cristiani cattolici accettando l'ordine del Deuteronomio, che mette prima la moglie, e separando le due prescrizioni per recuperare il numero complessivo di dieci, testimoniano una certa evoluzione ma non eliminano certo tutte le aporie. Innanzitutto, questo duplice comandamento, sulla moglie e le cose, è già anticipato nel sesto («Non commettere adulterio») e nel settimo («Non rubare»), e non se ne vede proprio la necessità. Poi conserva sempre la limitazione al «prossimo», dal quale restano evidentemente esclusi quelli che tali non sono, cioè gli stranieri. Inoltre ricompare il carattere maschilista di questi comandamenti che, con minore o maggiore evidenza, dichiarano sempre la donna come proprietà dell'uomo. Come il figlio rispetto al padre, così la donna rispetto all'uomo non è mai soggetto di diritti e responsabile delle proprie azioni: anche se in caso d'adulterio uomo e donna vengono ugualmente lapidati; la donna resta una proprietà dell'uomo, associata alla casa, per la quale pare fatta da natura.

Unica consolazione di questo non edificante precetto nella redazione cristiana è che la «cosa-donna» è nominata a sé non mescolata agli animali come nel racconto dei doni fatti dal faraone ad Abramo, dove, trattandosi però di schiavi, veniva allegramente elencata cosi: «greggi e armenti, schiavi e schiave, asine e cammelli».

Superfluo dal punto di vista della morale, disturbante dal punto di vista della disposizione e della simmetria dell'insieme, valido solo a ribadire il carattere patriarcale dell'intero testo e il suo riferirsi solo alle cose interne a un dato popolo, questo comandamento conclude anche il mio discorso.

Come da un insieme cosi limitato e contraddittorio sia potuta derivare una morale valida per millenni, è un problema aperto. Abbiamo in parte capito come il limitato e parziale possa diventare universalmente umano, quando la perdita della forza materiale costringa a riflettere sui valori ideali. Resta tuttavia, e resterà indefinita, la contraddizione persistente tra la predica che qui ascoltiamo, e la pratica che tutti pratichiamo. Tutti: e finora soprattutto i predicatori, che in privato e in pubblico, come individui e come Stati cristiani e anzi «cristianissimi», li hanno sistematicamente violati tutti. E tra i violatori si sono sempre distinti i potenti, i cui peccati sono stati perennemente giustificati e benedetti in nome di Dio.

La religione non ha mutato in niente i costumi dell'uomo: li ha resi, semmai, più contraddittori con le idealità proclamate, aggiungendovi così la sua ipocrisia: «accumulando duol con duolo», per dirla con Dante. In questo senso è stata davvero, ed è tuttora, il male del mondo.


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Considerazioni dell'autore

Questa sarebbe una storia infinita ed in realtà lo è. Come fare con la logica e la ragione a convincere chi alla fede affida le sue speranze. Tutto sarebbe ancora comprensibile, al secondo ordine, se ci si affidasse ad un dio immateriale a cui rivolgersi con ogni preghiera. Il fatto è che qui si vuole creare un dio che dovrebbe discendere da fatti terreni, un personaggio poco raccomandabile che sarebbe stato meglio non aver mai conosciuto. Un vendicativo assassino. Un geloso ed invidioso. Il peggio dei peggiori degli uomini perché ha la forza di fare del male e la usa.

SAUL - I culti e le leggende antiche ci raccontano di indovini che diventavano capaci di prevedere quando cadevano in trance ballando vorticosamente sotto l'effetto di droghe. E' il motivo per cui i sogni (e le profezie che ne conseguivano) nella Bibbia hanno grande rilevanza, le droghe in un popolo che viveva in deserti sterminati alleviavano molto la vita. Il racconto di un aneddoto relativo a Saul ci dà buona mostra di quanto ho appena detto. Saul si dirige verso la città di Gabaa appena uscito dalla sua tenda. Prima di arrivare gli si fanno incontro dei profeti che cantavano e suonavano mentre profetizzavano. Entrato nel gruppo Saul iniziò a profetizzare con loro (il profetizzare aveva il senso di improvvisare rime accompagnati da musica, il cantare insomma. A Roma la cosa si mantiene ancora: gli stornellatori accompagnati da una chitarra sono dei profeti eccellenti).

DAVIDE - Il grande Davide è ricordato solo nella Bibbia. Poveraccio nessuno che ricordi un tale mito ! In un certo periodo il Re si era comportato male avendo disubbidito a Dio. Dio naturalmente lo deve punire e, nella sua magnanimità, gli permette di scegliere la pena: "Vuoi tre anni di carestia nel tuo paese o tre mesi di fuga davanti al nemico che t'insegua oppure tre giorni di peste nel tuo paese ?". Davide scelse la peste ed il popolo ebraico su ancora decimato "da Dan a Betsabea morirono settantamila persone del popolo. Ma il signore si pentì (che strazio! che incostanza! che volubilità!) di quel male che aveva fatto e disse all'angelo che distruggeva il popolo 'Basta, ritira ora la tua mano!' " (II Sm. 24-13).

SALOMONE - La premessa è che sotto il regno di Salomone "Giuda ed Israele erano diventati numerosi come la sabbia del mare e mangiavano e bevevano allegramente" (I Re. 4). Naturalmente la grandezza di petulanti elemosine in Egitto si misura a suon di piramidi. E Salomone, con le stesse modalità con cui si costruivano le piramidi, si mise a far costruire il Tempio: "Il re Salomone reclutò il lavoro forzato [facendo smettere le gozzoviglie di cui prima, n.d.r.] ed il lavoro forzato era di trentamila uomini. Salomone aveva settantamila operai addetti al trasporto di materiale e ottantamila scalpellini a tagliar pietra sui monti, senza contare gli incaricati dei prefetti che erano tremila trecento preposti da Salomone al comando delle persone addette al lavoro. Il re dette ordine di estrarre grandi massi, tra i migliori perché venissero squadrati per le fondamenta del tempio" (I Re 4/14). Boooooooom!!! Ma vi rendete conto delle bestialità che sono scritte in questo pezzo ? E pensare che i due archeologi di cui ho già detto, proprio alla ricerca di queste fondamenta, non hanno trovato nulla! Ma poi la cosa prosegue con tagli di cedri che richiamano alla mente il legno utilizzato da Felipe II per costruire l'invincibile armata. Con pranzi pantagruelici giornalieri che avrebbero lasciato senza fiato Ramses II: "I viveri di Salomone ogni giorno erano di 140 quintali di fior di farina e 270 quintali di farina comune, dieci buoi grassi, venti da pascolo e cento pecore, senza contare i cervi, le gazzelle, le antilopi ed i volatili da stia.. Salomone possedeva 4000 greppie per i cavalli dei suoi carri e dodicimila cavalli da sella" (I Re 5/6). La Bibbia prosegue magnificando il personaggio che fa regali alla Regina di Saba da lasciarla senza fiato che ha trecento concubine e e settecento principesse come mogli ed una di queste era la figlia di un faraone. Quale ? Ma scherzate ? mai date precise su cose verificabili ! Senza vergogna e senza preoccupazioni per la verificabilità nel futuro che, da bravi profeti, non immaginavano avesse memoria.

IL DIO DELLA BIBBIA - Una specie di Dea Kalì, un mostro tremendo e terrorifico, un disastro in tutto. E' millantatore e bugiardo (I Sm 9/15) (I Sm 7/16) (Es 32/10). E' illogico e superficiale (Es 32) (Gn 4/3). E' spietato e violento (Dt 13) (I Sm 15) (Dt 2/30) (Dt 3/6) (Dt 7/16) (I Sm 2/6). E' totalmente insicuro ed ha sempre bisogno di prove. E' vendicativo (Nm 31). Ignora il futuro. E' ambizioso, vanitoso, amante delle adulazioni e del lusso (Gn 25, 26, 27, 28, 29, 30) (Lv 1/14). E' un ricattatore. E' uno schiavista (Lv 27). E' collerico e criminale (Dt 28/15). E' incoerente e contraddittorio (Lv 9 e segg.) (Gn 4/15) (Nm 11 e segg.). Consola le donne sterili (Gn 21) (Gn 25/25). E' disilluso e frustrato 2 Sm 7/5) (Gn 16). Andate a leggere questi brani, vi accorgerete quanto i peggiori incubi di ogni letteratura del terrore sono favolette per bambini piccoli. Un dio così è proprio in svendita. Un dio che va bene per un popolo raccogliticcio, senza tradizioni culturali, perennemente errabondo per il deserto.

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