Nei dieci comandamenti, che non ho discusso facendo la sintesi della Genesi e dell’Esodo per non spezzare la cronologia, si riassume tutta l'eticità e la religiosità ebraico-cristiana.
Come spesso nella Bibbia, il testo compare in due redazioni, in Esodo (20) e in Deuteronomio (5) e questo comporta già la necessità di badare agli sviluppi storici di questa legislazione e di questa moralità. Che in essa siano presenti molti elementi di legislazioni di altri paesi, è cosa ben nota: ci si può rifare, ad esempio, all'antico codice di Hammurabi, del 1750 circa a.C., o alle più recenti leggi assire del sec. XIII a.C. (basta poi recarsi in Egitto a visitare una qualunque tomba e si ritroveranno gli ultimi 7 comandamenti in positivo: io ho rispettato questo, io ho rispettato quello,...) In generale si attribuisce a merito degli ebrei l'aver saputo costringere in brevi sentenze quello che, nelle altre legislazioni è disperso in una casistica interminabile: e certo questo è vero, ma soltanto per la prima redazione. Forse ciò era anche dovuto, se il loro testo originario era davvero così antico, alla necessità di una memorizzazione orale presso un popolo di nomadi che non disponeva di biblioteche, ma portava tutti i suoi beni sul dorso di asini e cammelli e li riponeva in tende. E alle opportunità mnemoniche risale certo anche la formulazione prevalentemente in negativo dei comandamenti (non far questo, non far quello).
La cosa proibita risulta meglio, e tutto il resto è permesso.
D'altra parte, le lungaggini casistiche seguono subito anche nella Bibbia, col codice dell'alleanza (Es., 20-23), e poi col codice deuteronomico (Di., 12-26) e la legge di santità (Lv., 17-26), per non parlare del Levitico tutto intero. Sono prescrizioni successive, in gran parte risalenti all'epoca in cui ci sarà un sacerdozio consolidato, con un suo tempio e una sua complessa liturgia.
Ma, tornando ai dieci comandamenti, per iniziare, di tutto vi si parla, meno che di circoncisione: più che giusto, da parte dell'incirconciso Mosè, e contribuisce a una loro possibile universalizzazione. Il loro numero, e la loro diversa struttura fecero discorrere molto: se alcuni sono enunciati brevissimi, altri svolgono discorsi complessi. Flavio Giuseppe li sintetizzò perfettamente (Ant. lud., III, 91), ma la Chiesa cattolica, presa tra la necessità di conservare il numero perfetto di dieci (la potente tetrakis), e quella ancor più stringente di conformarli alla propria teologia e liturgia, dovette cambiare un pò le cose. Si attestò infine sulla proposta di sant'Agostino, togliendo il secondo comandamento che proibiva le immagini, e risolvendo in due l'ultimo: con scarsa intelligenza e mediocre risultato come vedremo.
Io qui mi soffermerò sulla redazione biblica originaria, ma tenendo presente anche quella cristiano-cattolica: e questo ci aiuterà a capire come nella storia degli uomini possa accadere che si assumano parole antiche per dire cose nuove.
Il primo comandamento: «Io sono Geova tuo Dio...: Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es., 20, 2 = Dt., 5, 6), è comunemente gabellato come la fondamentale affermazione della unicità di dio e come prova dell'originario monoteismo degli ebrei. Comunemente, dico; ma non per gli addetti alle segrete cose, dato che oggi perfino i teologi sanno ben distinguere tra monoteismo e politeismo, anche se non si curano troppo di dar pubblica voce alle loro distinzioni.
In realtà quel comandamento prova, al più, l'unicità non di dio, ma del dio di Israele: prova cioè che gli ebrei avevano come loro proprio un solo dio. Intanto questo non esclude che essi riconoscessero, e in molte occasioni venerassero, anche gli dèi di altri popoli: anzi, sia nelle affermazioni di principio sia nella pratica di vita, questo avvenne per secoli. Ma, quel che più conta, proprio quel testo in apparenza monoteista dimostra il sostanziale politeismo di Israele. Non solo vi si parla di Geova (e non del «Signore», come dicono i cristiani), ma questo dio chiamato per nome è un dio in mezzo ad altri dèi, che hanno altri nomi. Se no, che bisogno ci sarebbe di un nome? e che bisogno avrebbero avuto i cristiani di sostituirlo appunto con «Signore»? Il «non avere altri,dèi», non significa affatto negare la loro esistenza, ma soltanto escluderne il culto; e la parola «Elohim», del primo versetto della Bibbia e in altri suoi passi, indica inequivocabilmente altri dèi, e non Geova. Insomma, per gli ebrei, in questa fase del- la loro storia e in questa tipica manifestazione della loro religiosità, si può parlare semplicemente di politeismo corretto da una esclusiva monolatria o, più semplicemente, di politeismo monolatrico.
Solo molto lentamente passeranno dalla proibizione del culto di altri dèi alla affermazione della loro inesistenza: ma all'inizio il loro dio è inequivocabilmente un dio tra gli altri, con la sola differenza che è un dio «geloso». Quello stesso comandamento che per gli ebrei era il secondo e che i cristiani hanno cancellato, nel proibire il culto delle immagini (ma i cattolici dopo molte battaglie continueranno a venerarle), ammonisce: «Io, Geova, sono il tuo dio, un dio geloso» (ivi): e questa faccenda della gelosia (di cosa se non di altri dèi?) torna più volte, sia in Esodo, sia in Deuteronomio, in Giosuè, in Geremia, in Ezechiele ecc. ecc. E’ una dichiarazione di un esclusivismo intollerante e settario, che il popolo ebraico abbandonò a più riprese per lunghi periodi della sua storia, soprattutto durante il fiorire dei suoi due regni di Israele e di Giuda, più o meno profondamente influenzati dalle culture delle popolazioni dominate e confinanti. Non è necessariamente una loro superiore idea della divinità. Dovrà passare del tempo perché da un dio geloso si passi a un dio unico, perché il totem di una tribù di beduini (o qualunque cosa siano stati gli ebrei delle origini) divenga il creatore del cielo e della terra, perché il padre e il «signore» di quei pochi divenga il Padre e il Signore di tutti. Per arrivare a questa concezione, il popolo ebraico dovrà vivere la dura esperienza della sconfitta, che è sconfitta e scomparsa del suo «dio degli eserciti», e poi trovarsi proseguito e insieme smentito dalla sua filiazione cristiana, la quale sola ritrova, bene o male, e più male che bene, un dio universale. Anche i suoi profeti, Isaia nella seconda metà dell'VIII sec. a.C., Geremia alla fine dello stesso secolo, Ezechiele dopo un altro secolo, parlano sempre del «nostro» dio e degli «altri dèi». Sono più tardive le affermazioni effettivamente monoteiste.
La concezione diffusa resta quella di un dio (che dal momento della conquista è «dio degli eserciti», 1 Som., 1, 3) in mezzo agli altri. Così sulla bocca di Mosè nel canto della vittoria per il successo dell'esodo, sentiamo dire: «Chi è come te fra gli dèi, Geova?» (Es., 5, 11), così sulla bocca di Salomone, quando parla al popolo consacrando il tempio, sentiamo dire: «Geova, Dio di Israele non c'è un Dio come te, né lassù nei cieli, né quaggiù sulla terra!» (1 Re, 8, 23), non ce n'è «uno come lui» vuol dire che ce sono tanti, diversi e inferiori a lui.
Lo stesso cristianesimo, del resto, conservò a lungo, anche nelle riflessioni dei suoi massimi pensatori, una strana incertezza sull'esistenza o meno di altri dèi o demoni, e insistendo tanto su Satana (anche con gli ultimi papi) e aggiungendo agli angeli pagano-biblici i suoi santi, ha contribuito non poco a conservare nell'opinione diffusa una concezione politeistica.
Resta tuttavia che il primo comandamento, letto come è nel testo biblico originario e come viene adattato nelle traduzioni cristiane, ha due significati del tutto diversi: chiaro il primo, equivoco il secondo. A essi se ne sta aggiungendo oggi un terzo, che riconquista una sua chiarezza monoteistica. Leggiamoli tutti e tre.
«Io sono Geova, tuo Dio» è chiaramente la formula di un politeismo monolatrico, che ha bisogno del nome per distinguere questo dio dagli altri.
«Io sono il Signore, tuo Dio» è la formula che si impone nel cristianesimo trionfante e separato ormai del tutto dall'ebraismo nel IV sec. d.C., ma, presa com'è tra l'incudine della tradizione e il martello della nuova concezione, resta a metà, del tutto sgangherata e insignificante. Non spiega niente, è semplicemente una tautologia.
Nel secondo racconto sulla vocazione di Mosè c'è un passo che dice
«Dio (Elohim) parlò a Mosè e gli disse: "Io sono Geova! Sono apparso ad Abramo, a Isacco e Giacobbe come Dio onnipotente [El Shaddai], ma col mio nome di Geova non mi sono mai manifestato a loro"» (Es., 6, 3). Stando alla lettera della Bibbia, questa è una palese menzogna, cosa disdicevole per il libro di dio. Chi ha letto la Bibbia sa che la rivelazione del nome era già avvenuta. Geova (questa volta lui, e non Elohim) si era già rivolto ad Abramo dicendogli: «Io sono Geova, che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese» (Gen., 15, 7); e Abramo gli aveva risposto: «Signore {Adonai) Geova...» (15, 8). E questa era stata, nel racconto biblico, la prima volta che Geova si era manifestato col suo nome. Poi di visioni di Isacco non ci si dice niente, ma quanto a Giacobbe, si dice che lo vide in sogno e che udì il nome: «Ecco, Geova gli stava davanti e disse: "Io sono Geova, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco"» (28,13). Dunque, era già la seconda volta che Geova si presentava col suo nome, in sogni o visioni, tra i quali è difficile stabilire una sicura differenza. E, a parte questo, prima di quella «falsa» dichiarazione a Mosè, ho contato 190 volte nella Bibbia il nome di Geova, sia nella narrazione del compilatore, sia sulla bocca dei personaggi, che mostrano così di conoscerlo.
Lo nomina per prima Eva (Gen., 4, 1), per ringraziarlo di aver avuto Caino; poi ci si dice che dai tempi dell'altro suo figlio Set «si cominciò ad invocare il nome di Geova» (4,26), ed era già un errore dato che lo aveva già invocato Eva. Poi lo nomina Lamech, padre di Noè (5, 29); poi Noè lo benedice come dio di Sem, di cui «Cam divenga schiavo» (9, 26), davvero nobile occasione per nominare dio; poi l'invocano Sara, Lot, Làbano, Lia, il servo di Abramo, e anche quell'Esaù, figlio di Abramo, che sarà escluso dal popolo di Abramo. Altre volte si dice, usando il discorso indiretto, che costoro e altri «invocarono il nome di Geova», e altre volte il nome è nominato dal redattore tra gli altri personaggi della sua storia.
In tutti questi casi avvengono strani pasticci: si alternano vari nomi, oltre a Geova, di cui è difficile dire se siano nomi propri o nomi comuni: Elohim (gli dèi), El Shaddai (dio onnipotente o dio della steppa), Adonai (Signore), ai quali si può aggiungere El Elijón, il dio altissimo,il cui sacerdote Melchisedech benedice Abramo, ricevendone in cambio la «decima di tutto» (Gen., 14, 18-20). E’ evidente che si tratta di nomi che corrispondono a varie tradizioni religiose, mesopotamiche o fenicie o egizie, assimilate dagli ebrei. Quanto a Geova, che appare più nettamente come un nome proprio, si è discusso molto sulla sua forma e sul suo significato. Per la forma, si tratta delle quattro consonanti dell'alfabeto ebraico traslitterabili come YHWH, sostenute poi dalle vocali di Elohim o di Adonai. Per il significato, si è detto che corrisponde a «Io sono colui che sono» o «ciò che sono», cioè l'esistente, ciò che è.
Una cosa, tuttavia, è certa: che le varie tradizioni confluite nella Bibbia (elohista, geovista, sacerdotale, e poi deuteronomista) coi loro intrecci creano non poche ambiguità. Se davvero Geova si è rivelato per la prima volta col suo nome a Mosè, allora la Bibbia non avrebbe dovuto mai pronunciarlo prima; se Geova è il dio degli ebrei, allora non avrebbe dovuto farlo invocare da Eva, Set, Lamech, Noè, Nimrod, cioè da personaggi che precedono Abramo e la nascita del popolo ebraico. Ed è comunque strano sentir dire: «Geova disse: Io sono el Shaddai», e poi: «Elohim disse: Io sono Geova». Troppi nomi, e troppa confusione di soggetti e predicati! Lo svolgersi cronologico e il mutarsi di un culto e dell'idea stessa di dio viene qui a manifestarsi sotto forma di confusione grammaticale.
Nel mondo cristiano, c'è solo da sorridere per i nuovi pasticci che si è riusciti, un'altra volta, ad aggiungere.
Quando il suocero madianita di Mosè, Jetro (o Reuel), udito il miracoloso racconto dell'esodo, commenta (nelle traduzioni cristiane): «Ora io so che il Signore è più grande di tutti gli dèi» (Es., 18, 11); quando Mosè nel suo canto di vittoria per l'esodo dice: «II Signore è prode in guerra. Si chiama Signore» (15, 3); quando all'inizio del Salmo 110, attribuito a Davide, si legge: «Oracolo del Signore al mio Signore», è evidente che ci si sta prendendo in giro: si tratta di frasi totalmente insensate, che vanno invece lette: «Or io so che Geova...», «Si chiama Geova...»; «Oracolo di Geova...» (e qui il secondo «Signore» è Adonai).
Il fatto è che si vuole dare una lettura monoteista di testi chiaramente politeisti, dove Geova, dio degli ebrei, è contrapposto ad altri dèi. E quanto al fatto che Geova sia il dio degli ebrei, mi sta bene: ma di sicuro lo è soltanto a partire da Mosè, influenzato forse dal faraone Akenaton, perché, rileggendo i passi che riguardano Abramo e gli altri, appare, se non evidente, probabile che il redattore geovista può aver interpolato anche lì il suo nome, cosi come l'ha interpolato anche prima, mettendolo sulla bocca di Eva, che proprio non poteva conoscerlo.
Resta per ora solo da enunciare il secondo comandamento: «Non pronuncerai invano il nome di Geova tuo Dio...» (Es.,20, 7).
La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
Le religioni dividono. L'ateismo unisce
Il sonno della ragione genera mostri (Goya)