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Lettura laica della bibbia

Ultimo Aggiornamento: 24/06/2015 20:57
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...I dieci comandamenti

Storicità dei comandamenti terreni (4°- 10°)

Ai tre comandamenti concernenti la divinità, cioè la sua esclusività per gli ebrei, il suo nome e la santificazione del sabato (più il divieto di venerare immagini), fanno seguito comandamenti morali sui nostri comportamenti terreni.

Anche su questi e sulla loro storia ci sarebbero infinite cose da dire, ma mi limiterò al minimo indispensabile.

Il quarto comandamento, nello scendere dal cielo in terra, comincia opportunamente dal rapporto tra generazioni: «Onora il padre e la madre...» (Es., 20, 12 = Df., 5, 16). Certo, trattandosi di un rapporto bilaterale tra le due generazioni, avrebbe potuto comandare con altrettanta legittimità «Ama i tuoi figli»; ma è evidente che tra queste due possibilità c'è stata una scelta obbligata, condizionata cioè dal carattere patriarcale (in senso lato) della società ebraica di allora. Curiosamente, nella proposizione che completa il comandamento, il protagonista reale, anche se sottinteso, del discorso sono proprio i figli: «... perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà Geova tuo Dio» (ibidem).

Pare evidente che la vita di ciascuno possa prolungarsi non in quanto egli abbia onorato, da giovane i suoi genitori, ma in quanto sia egli stesso «onorato» da vecchio dai propri figli: che sono dunque il soggetto reale dell'azione comandata. Ma per l'autore del comandamento il soggetto ideale resta comunque il padre; e che si dimentichi di comandargli di amare il figlio non è senza significato. Le letterature antiche ci hanno tramandato varie vicende illustranti il rapporto padre-figlio (Edipo ecc.) Tuttavia, ciò che nella letteratura greca ha dato comunque origine a un problema, si svolge senza problemi nella Bibbia: il figlio ha doveri verso il padre, non il padre verso il figlio. In che cosa poi consistano questi doveri, è presto detto: «onorare» significa concretamente «mantenere», anche se in questo non si esaurisce tutto l'«onore» dovuto al padre.

Nell'insieme, infatti, la dipendenza dei figli dai padri era totale, né cessava con l'età: il padre combina i matrimoni dei figli, e al figlio «testardo e ribelle, che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre, e, benché l'abbiano castigato, non dà loro retta» (Dt., 21, 18), tocca la lapidazione a opera di tutti gli uomini della sua città; e la sanzione è fortemente sottolineata: «Così estirperai da te il male, e tutto Israele lo saprà e avrà timore» (21, 21). A maggior ragione, «colui che ucciderà suo padre o sua madre sarà messo a morte»(Es.,21,17).

Ed eccoci così arrivati al quinto comandamento, che dice semplicemente: «Non uccidere» (Es., 20, 13 = Dt., 5, 17). Ma anche qui le cose non sono così semplici. Questo è in sé il comandamento più umano, ma è anche il più bugiardo sulla bocca di Mosè, ed è quello meno rispettato dallo stesso Geova e, perciò, da tutti coloro che hanno spirito religioso. A parte tutti gli altri viventi, destinati da dio a morire uccisi da altri viventi o dall'uomo, è lo stesso Jahvè a punire morte con morte, quando promette che chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte. E Mosè? Ma come? Fresco dell'uccisione e della sepoltura sotto la sabbia dell'egiziano, e dell'esaltazione di Geova, prode in guerra, che con «la sua destra annienta il nemico» egiziano; pronto poi, in occasione del vitello d'oro, a dar ordine ai suoi leviti di uccidere ognuno il proprio fratello, il proprio amico, il proprio parente; a far lapidare un uomo per una bestemmia o per aver raccolto legna il sabato; a esultare, chiamandola «una cosa meravigliosa», per la morte di Gore e di Datan e Abiram con tutte le loro famiglie, e a organizzare l'espiazione, cioè il massacro, per le quattordicimilasettecento persone che avevano protestato per quella morte; e a eseguire poi scrupolosamente tutti gli stermini di altri popoli, comandati secondo lui dal dio Geova...: questo Mosè darebbe poi l'ordine di «non uccidere»?

L'ipotesi è totalmente assurda, anche se, evidentemente, significa soltanto «non uccidere ebrei innocenti, ma uccidi poi gli ebrei colpevoli di qualche trasgressione e gli impuri stranieri, a piacimento». No: questo comandamento non significa affatto quello che noi pensiamo che possa significare oggi; e non è nemmeno il comandamento cristiano, dal momento che anche i cristiani hanno commesso e benedetto per millenni tutti gli omicidi e i genocidi: ufficialmente a cominciare dall'imperatore Teodosio e dal santo Agostino, che santamente ammoniva di non uccidere alcun uomo «eccetto quelli che dio comanda di uccidere» (De Civ., VIII): dio, o chi immagina di essere il suo interprete.

Insomma, la pena di morte è sempre presente in questi pii codici, come negli empi codici di tutti gli altri popoli. Non c'è differenza: «Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte» (Es., 21, 12) il taglione lo vuole.

E passiamo al sesto comandamento, che dice: «Non commettere adulterio» (Es., 20, 14 = Dt., 5, 18), e che, malgrado l'apparenza, non è poi cosi chiaro. Naturalmente, nemmeno questo è un'invenzione di Mosè, trovandosi già nel codice di Hammurabi, vecchio ai suoi tempi di mezzo millennio; ed è soprattutto da interpretare per quello che vale in una società che praticava tranquillamente poligamia e concubinato. Sorvolo sul fatto che in italiano ci veniva comunemente tradotto, e insegnato quando eravamo bambini, con l'indecifrabile «non fornicare», senza che ci venissero date le opportune, o inopportune, spiegazioni, si che noi pensavamo irresistibilmente alle formiche, senza capire quali fossero le loro colpe. Ci si diceva anche, con formulazione più ampia: «Non commettere atti impuri», e questo risultava chiaro anche alla incipiente malizia infantile, riferendosi senza dubbio a pratiche sessuali come la masturbazione o onanismo, sul quale la Bibbia ci ha già erudito con molta confusione, e altre simili. Nella sostanza, questo comandamento allude essenzialmente ai rapporti extramatrimoniali, con donne a loro volta sposate o anche soltanto fidanzate, e con meretrici. A questi si riferisce il Codice deuteronomico: «Quando un uomo verrà colto in fallo con un donna maritata, tutti e due dovranno morire» (Dt., 22, 22); «Quando una fanciulla vergine è fidanzata, e un uomo... pecca con lei, condurrete tutti e due alle porte della città e li lapiderete così che muoiano» (22, 23). Dove l'unica cosa sicura è che Mosè, non avendo città, non poteva dare quest'ordine, che appartiene dunque a un'età successiva. E comunque, anche questo comandamento, nonostante la parità delle pene per i due sessi, ha tutta l'aria di rivolgersi solo all'uomo, primo responsabile, anche se si continuerà per secoli a parlare della «fragilità» della donna e della condiscendenza dell'uomo. È però interessante che nel Levitino (molto più recente)le proibizioni sessuali cominciano con un riferimento preciso: «Non farete come si fa nel paese d'Egitto dove avete abitato, né come si fa nel paese di Canaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi...»(Lv., 18, 3); e si continua con una minuziosa casistica di pratiche incestuose tra consanguinei» ripresa anche nelle «Maledizioni» di Mosè in Deuteronomio (27), che né Mosè né gli antichi patriarchi né i successivi re, tutti intenti a praticare anche una rigorosa endogamia, si sono mai sognati di evitare. Ma basta con questo peccato, ossessivo nella Bibbia e più ancora in tutta la tradizione cristiana fino a oggi.

Il settimo comandamento è anch'esso breve e conciso: «Non rubare» (Es., 20, 15 = Dt, 5, 19).

Ma la sua apparente perentorietà vale quanto quella del «non uccidere». E’ evidente che per gli aspetti dello sterminio o consacrazione a Geova, che riguardano le cose, il saccheggio in guerra dei beni dello straniero non è un rubare, come non è un uccidere lo sterminio di nemici. E’ invece un rubare l'appropriarsi dei beni consacrati.

Per il resto non mancano sia nel Codice dell'alleanza in Esodo sia nel Codice deuteronomico alcune specificazioni di questo divieto: «Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all'indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse» (Es., 22, 24); «Alla fine di ogni sette anni celebrerete l'anno di remissione:... ogni creditore... lascerà cadere il suo diritto...» (Dt., 15, 1-2). Si tratta dunque di limiti posti all'usura, che il cristianesimo medievale riprenderà universalizzandoli, ma che qui sono significativamente considerati solo come riguardanti i rapporti interni al popolo di Israele.

L'ottavo comandamento dice: «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Es., 20, 16 = Dt., 5,20): dal che risulta un'altra volta evidente che la si poteva lecitamente pronunciare contro gli altri, e si spiega così l'iniziale imperturbabilità di Giacobbe allo spergiuro di Simone e Levi contro i sichemiti. Comunque, nell'ambito del prossimo, cioè del popolo d'Israele, anche questo comandamento aveva una sua primaria importanza, trattandosi di una società in cui nei giudizi dei tribunali la testimonianza giurata in nome di dio aveva valore determinante. In realtà, questo comandamento andrebbe associato al secondo, che ammonisce di non nominare il nome di dio invano: questo è infatti il senso del «giurare», impegnarsi solennemente di fronte a dio, invocando il suo nome. Gli antichi, anche i romani, ci credevano tanto che il giuramento valeva anche se estorto a forza.

Il nono e il decimo comandamento dicono: «Non desiderare la casa del tuo prossimo» (Es., 20, 17) ovvero «Non desiderare la moglie del tuo prossimo» (Dt., 5, 21). E qui debbo anzitutto ricordare che nella Bibbia ebraica questi comandamenti costituiscono insieme il decimo, dovendosi contare anche il secondo sul divieto delle immagini. Comunque, l'un testo e l'altro, opportunamente sostituendo la moglie alla casa e viceversa, più o meno concordi ammoniscono: «...Non desiderare la moglie (la casa) del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bene, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (ibidem). Queste due diverse redazioni, risolte dai cristiani cattolici accettando l'ordine del Deuteronomio, che mette prima la moglie, e separando le due prescrizioni per recuperare il numero complessivo di dieci, testimoniano una certa evoluzione ma non eliminano certo tutte le aporie. Innanzitutto, questo duplice comandamento, sulla moglie e le cose, è già anticipato nel sesto («Non commettere adulterio») e nel settimo («Non rubare»), e non se ne vede proprio la necessità. Poi conserva sempre la limitazione al «prossimo», dal quale restano evidentemente esclusi quelli che tali non sono, cioè gli stranieri. Inoltre ricompare il carattere maschilista di questi comandamenti che, con minore o maggiore evidenza, dichiarano sempre la donna come proprietà dell'uomo. Come il figlio rispetto al padre, così la donna rispetto all'uomo non è mai soggetto di diritti e responsabile delle proprie azioni: anche se in caso d'adulterio uomo e donna vengono ugualmente lapidati; la donna resta una proprietà dell'uomo, associata alla casa, per la quale pare fatta da natura.

Unica consolazione di questo non edificante precetto nella redazione cristiana è che la «cosa-donna» è nominata a sé non mescolata agli animali come nel racconto dei doni fatti dal faraone ad Abramo, dove, trattandosi però di schiavi, veniva allegramente elencata cosi: «greggi e armenti, schiavi e schiave, asine e cammelli».

Superfluo dal punto di vista della morale, disturbante dal punto di vista della disposizione e della simmetria dell'insieme, valido solo a ribadire il carattere patriarcale dell'intero testo e il suo riferirsi solo alle cose interne a un dato popolo, questo comandamento conclude anche il mio discorso.

Come da un insieme cosi limitato e contraddittorio sia potuta derivare una morale valida per millenni, è un problema aperto. Abbiamo in parte capito come il limitato e parziale possa diventare universalmente umano, quando la perdita della forza materiale costringa a riflettere sui valori ideali. Resta tuttavia, e resterà indefinita, la contraddizione persistente tra la predica che qui ascoltiamo, e la pratica che tutti pratichiamo. Tutti: e finora soprattutto i predicatori, che in privato e in pubblico, come individui e come Stati cristiani e anzi «cristianissimi», li hanno sistematicamente violati tutti. E tra i violatori si sono sempre distinti i potenti, i cui peccati sono stati perennemente giustificati e benedetti in nome di Dio.

La religione non ha mutato in niente i costumi dell'uomo: li ha resi, semmai, più contraddittori con le idealità proclamate, aggiungendovi così la sua ipocrisia: «accumulando duol con duolo», per dirla con Dante. In questo senso è stata davvero, ed è tuttora, il male del mondo.


www.fisicamente.net/index-70.htm



La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
Apocalisse Laica
Le religioni dividono. L'ateismo unisce


Il sonno della ragione genera mostri (Goya)


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