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La Chiesa non sa più cos’è la musica sacra

Ultimo Aggiornamento: 26/06/2007 14:59
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26/06/2007 14:59
 
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Il rapporto fra note e liturgia: le gerarchie sono disposte a dare fiducia all’arte o vogliono imporle dei limiti?

Sir John Eliot Gardiner, celebre direttore d’orchestra inglese e direttore artistico del Festival di musica sacra Anima mundi, ha tenuto all’Università di Pisa una lezione su Bach: il genio del dramma sacro. Per gentile concessione del maestro ne riportiamo alcuni passaggi.

Quando venne ingaggiato dalla Chiesa di Lipsia, il contratto di Johann Sebastian Bach precisava che la musica da lui composta non doveva essere «troppo operistica». I pastori luterani volevano che fosse ben chiara la distinzione fra teatro e chiesa: chi andava ad assistere a una funzione non doveva sentire in quel luogo sacro una musica profana. Ma dopo aver firmato il contratto, Bach si è attenuto a queste precise istruzioni?

Prima di rispondere, vorrei ricordare una caratteristica davvero singolare della sua enorme produzione: dei sei famosi compositori europei nati attorno al 1685 - con lui, l’italiano Domenico Scarlatti, il francese Jean-Philippe Rameau, i tedeschi Johann Mattheson, Georg Philipp Telemann e Georg Friedrich Händel - Bach è stato l’unico a non scrivere opere per il teatro. Così almeno dice l’apparenza. In verità, la funzione della domenica mattina era la sola forma di spettacolo e di divertimento musicale, l’unico show possibile a Lipsia, città che a quel tempo non aveva un teatro d’opera.

Le cantate duravano meno di mezz’ora e il problema che più stava a cuore a Bach era quello di riuscire a catturare l’attenzione del pubblico, che certo non ascoltava quella musica con la devozione che abbiamo noi. I fedeli avevano l’abitudine di arrivare in chiesa poco prima del sermone del Pastore mentre, durante la musica, preferivano salutarsi, scambiare due parole davanti alla chiesa o, se fuori faceva troppo freddo, addirittura dentro. Parlavano, disturbavano e possiamo immaginare il dispiacere di Bach nel vedere la propria arte trattata in un modo così distratto. Oppure la gente andava a prendere un caffè, la grande novità di quegli anni. Bach sapeva bene che il rapporto fra il concetto di «dramma» e quello di «sacro» è molto antico: nella nostra civiltà, le prime testimonianze scritte dedicate a un’attività teatrale accompagnata dalla musica le troviamo proprio nel repertorio sacro, nel «dramma liturgico», nel «theatrum Ecclesiae». Il Cantico di frate sole di San Francesco era eseguito con musica e cantato, ballando, forse dallo stesso Francesco; a Firenze nel 1400, la Rappresentazione di Abramo e Isacco richiedeva per il ruolo di Sara, oltre al canto, anche la danza: oggi ci riesce difficile immaginarlo, ma la «fabula saltica» - lo spettacolo danzato - è stato un genere che per secoli ha accompagnato le rappresentazioni sacre. D’altra parte, chi abbia assistito a una messa in una chiesa africana dei nostri giorni sa quanto la danza e il canto siano ancora parte integrante della liturgia. Certe forme di libertà musicale del passato ci sembrano perfino sconvenienti: la famosa lauda detta dei Peccatori a una voce di Lucrezia Tornabuoni veniva cantata sulla melodia profanissima del Canto de’ votacessi di Lorenzo il Magnifico.

Bach, allora, come poteva sperare che quei fedeli distratti seguissero la sua musica? Conosceva molto bene l’opera italiana, lo affascinava il suo potere di raccontare ed eccitare tutte le passioni dell’uomo, anche le più terrene. Amava molto Antonio Vivaldi, che di opere ne ha scritte tantissime e colme di meraviglie vocali. Non dobbiamo pensare a Bach solo come a un musicista che dialoga con l’Assoluto: era attento ai caratteri umani, come lo era stato Monteverdi, come dopo di lui lo saranno Mozart, Rossini e Verdi. In tante arie, duetti, passaggi corali delle sue cantate sacre, scritte per la Chiesa di Lipsia, sembra proprio di trovarci a teatro: anche senza scene e costumi possiamo immaginare di vedere e ascoltare dei personaggi, la loro dimensione umana, i loro gesti, i loro affetti, i loro sorrisi, le loro lacrime.

Al riguardo, la Chiesa di Lipsia era molto divisa: i «pietisti» erano nettamente contrari all’impudicizia teatrale e lodavano l’antico canto gregoriano, più rispondente alla loro rigorosa e astratta idea di fede. Altri luterani, invece, conoscevano bene il potere della musica operistica ed erano disposti ad assecondare la sfida di Bach. Per rispondere alla nostra questione, credo proprio che Bach non volle attenersi ai limiti stabiliti nel suo contratto: la passione per la libertà e il fascino della musica glielo impedì. Credo anche che le diverse posizioni della Chiesa di Lipsia non fossero lontane dai problemi che la Chiesa contemporanea - cattolica e luterana - deve affrontare riguardo alla musica: ha fiducia o teme il suo potere, è disposta a concederle libertà o preferisce imporle delle regole più limitanti? Che cosa precisamente intende quando i suoi massimi esponenti parlano di «musica sacra»: sacro è il luogo che la ospita, oppure il brano che si esegue, o la qualità dell’interpretazione? Al riguardo, mi sembra manchi una visione chiara e condivisa.

www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200706articoli/23082gi...





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Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
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