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Papa: «Obiezione di coscienza per i farmacisti»

Ultimo Aggiornamento: 01/11/2007 23:23
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29/10/2007 22:04
 
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Anche i farmacisti hanno un «diritto riconosciuto» all’obiezione di coscienza nella fornitura di medicine «che abbiano scopi chiaramente immorali, come per esempio l’aborto e l’eutanasia». Lo ha indicato Benedetto XVI, chiedendo che i farmacisti, importanti «intermediari tra i medici e i pazienti, facciano conoscere le implicazioni etiche dell’uso di alcuni farmaci. In questo campo», afferma il Papa, «non è possibile anestetizzare le coscienze sugli effetti di molecole che hanno lo scopo di evitare l’annidamento di un embrione o di cancellare la vita di una persona. L’essere umano deve essere sempre al centro delle scelte biomediche, e queste sono al servizio dell’uomo. Se ciò non fosse, sarebbero fredde e inumane».
Joseph Ratzinger lo ha detto nell’udienza concessa ai partecipanti al congresso internazionale dei farmacisti cattolici, rimarcando che «il farmacista deve invitare ciascuno a un sussulto di umanità, perché ogni essere sia protetto dal concepimento fino alla morte naturale e perché i farmaci svolgano davvero il proprio ruolo terapeutico. Qualsiasi ricerca o sperimentazione deve avere come prospettiva un eventuale miglioramento del benessere della persona, e non solo la ricerca di avanzamenti scientifici. Il perseguimento di un bene per l’umanità non può essere fatto a detrimento del bene delle persone trattate». […]
Pronta la risposta di Federfarma all’invito del Papa all’obiezione da parte dei farmacisti. «Non possiamo fare gli obiettori di coscienza senza una modifica della legge», ha commentato Franco Caprino, segretario nazionale di Federfarma, l’associazione che riunisce le 16 mila farmacie italiane. «I farmacisti sono costretti, dietro prescrizione medica, a consegnare il farmaco o a procurarlo, se non disponibile, nel più breve tempo possibile. Se non si modifica l’articolo 38 del testo unico delle leggi sanitarie non si può fare altrimenti».

Fonte: Corriere

www.corriere.it/cronache/07_ottobre_29/papa_obiezione_farmacis...



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Cardinale
30/10/2007 06:47
 
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«Non possiamo fare gli obiettori di coscienza senza una modifica della legge», ha commentato Franco Caprino, segretario nazionale di Federfarma, l’associazione che riunisce le 16 mila farmacie italiane. «I farmacisti sono costretti, dietro prescrizione medica, a consegnare il farmaco o a procurarlo, se non disponibile, nel più breve tempo possibile. Se non si modifica l’articolo 38 del testo unico delle leggi sanitarie non si può fare altrimenti».



Ci mancherebbe anche che i farmacisti decidessero se rifiutare o meno di venderti la RU...
Mi immagino il farmacista che si sporge sul bancone e guardando storto la giovane cliente, le domanda:
- A che ti serve questa pillola?
Al che, con tono incredulo arriva la meritata risposta:
- Ma saran cazzi miei?!

[SM=x789050]
[Modificato da Rainboy 30/10/2007 19:09]
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Padre Guardiano
30/10/2007 08:30
 
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RE

Classico esempio di ingerenza e coartazione delle coscienze!!!!
Andrebbero confinati in una sperduta isola dell'oceano Pacifico,naturalmente a nostre spese!!!! [SM=g27812] [SM=g27812] [SM=g27812]


omega [SM=g27825] [SM=g27825] [SM=g27825]
. [SM=x789054] [SM=x789054] [SM=x789054]



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Vivo fra lo Stato Sovrano della Fica e la Repubblica Popolare del Cazzo
30/10/2007 10:19
 
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Visto che ormai alla politica non interessa piu' difendere il principio della laicita' dello Stato (e quindi,neanche andro' piu' a votare in questo schifo di Paese),mi sa che conviene inventarsi una petizione contro le ingerenze della CCR nello Stato e di conseguenza nelle liberta' di scelta dei cittadini,anzi,quasi quasi scrivo a qualche associazione per lanciare l'idea di stilare una bella denuncia contro Ratzinger da inviare alla commissione europea!

A forza di tirare la corda Ratzi prima o poi si ritrovera' con un pugno di mosche in mano!

I politici ormai se ne lavano le mani,e coloro che avrebbero e potrebbero dire qualcosa contro Ratzi come medici e bioetici non hanno tempo da perdere a star dietro a tutte queste invettive,dannazione,la tecnica di bombardare la popolazione e le categorie da parte clericale all'inizio puo' esser tenuta a bada,ci si prova a rispondere,alla lunga pero' diventa stancante e fa perdere un sacco di risorse preziose alla gente e ai professionisti,ecco qual'e' l'unico motivo,i professionisti si sono stancati di rispondere continuamente alle stronzate di Ratzinger,e percio' ad un certo punto il tedesco ha campo aperto per attaccare tutto e tutti con tutto quel suo furore anti-democratico,anti-laicista,dispotico,tiranno e assolutista.

Non rimane altro da fare secondo me che obbligare la UE a intervenire pesantemente nella nostra politica per fermare questo scempio che sta avvenendo nel nostro paese a causa dell'incompetenza politica e a causa di questi bombardamenti mediatici continui e incessanti,ogni giorno che passa la difesa del laicismo si sta affievolendo sempre di piu',e' triste doverlo constatare,e' triste dover ammettere il parziale successo del bombardamento mediatico di stampo clericale,stanno diminuendo le risposte a livello istituzionale in grado di tenere al "collare" il pastore tedesco!

Anche se la gente reagisce nei blogs e nei Forums,le reazioni a livello istituzionale,quelle che contano veramente,sono quasi assenti,anzi,nulle! Si assiste ad un vuoto e ad un silenzio preoccupante,i vari "nani" ,"mortadelle" e "bufale" della nostra politica hanno messo a serio rischio le nostre liberta' individuali!


Paolo
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30/10/2007 10:20
 
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E' vergognoso! I farmacisto DEVONO dare TUTTI i farmaci che sono a disposizione! Tra un pò verrà data ai medici di curare solo chi gli garba!! Ma scherziamo???

GRRRRRRRR



ESTER
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30/10/2007 23:49
 
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Michele Serra e la richiesta di obiezione ai farmacisti


Prima di entrare in farmacia, per evitare discussioni indesiderate sul senso della vita, ci toccherà informarci sugli orientamenti religiosi e morali del gestore? Se cattolico (nel senso militante del termine) potrebbe infatti accogliere l´invito del Papa a estendere l´obiezione di coscienza anche al suo negozio, e rifiutarsi di fare commercio di “farmaci che abbiamo scopi chiaramente immorali”. Ovvero quei farmaci che evitano la gravidanza come la “pillola del giorno dopo”, oppure consentono di interromperla in forme meno dolorose e umilianti rispetto a quelle conosciute e praticate fino a poco tempo fa. E´ l´ennesima tappa della lunghissima marcia del Vaticano all´interno della vita pubblica di questo Paese. Così profondamente innervata, come è ovvio, dalle leggi e dalle regole che governano la vita di tutti - anche dei non cattolici - da rendere inevitabile il continuo cozzo di molti dei pronunciamenti vaticani, specie sulle questioni di carattere etico, scientifico e medico, con l´attività dei legislatori e con la sensibilità profonda di milioni di cittadini. […] Questa idea - illiberale, per usare un termine usato spesso molto a sproposito - che una morale religiosa possa e debba egemonizzare (per salvarlo, naturalmente) un intero consesso sociale, possa condizionale le leggi, benedire ribellioni etiche come l´obiezione anti-abortista perché “nel senso giusto”, ma poi condannare ribellioni etiche come il diritto alla buona morte perché “nel senso sbagliato”, non può non generare un duro conflitto tra le gerarchie ecclesiastiche e una parte molto consistente dell´opinione pubblica laica. Probabilmente molto più consistente della ristretta quota di politici che la rappresenta.

Davvero stupisce, in questo senso, l´inspiegabile sbalordimento espresso dal cattolicesimo più curiale di fronte alle ovvie polemiche e alle ovvie reazioni provocate da ogni nuova sortita vaticana direttamente indirizzata alla vita politica, sociale e anche privata degli italiani: di tutti gli italiani, non solo dei cattolici. E´ come se non fosse contemplata altra etica, altra sensibilità, altra scelta. E dunque l´insorgere imprevisto di altra etica, altra sensbilità, altra scelta, lasciasse letteralmente di stucco i depositari della Verità. E´ come, tornando al caso specifico, se una persona che decide di non avere un figlio (o al contrario di averne uno con metodi “immorali”) non avesse già pensato, già sofferto, già deciso o dubitato abbastanza, non avesse vissuto con serietà sufficiente. Ma davvero la sua sola possibilità di salvezza, per la Chiesa, è sperare di imbattersi in un farmacista con la verità in tasca, che gli neghi i farmaci “immorali” e gli suggerisca di raccomandarsi a un Dio nel quale magari non crede?

Potete scaricare il testo completo dell’articolo di Michele Serra (pubblicato oggi da “Repubblica”) dal sito della Camera dei deputati

Sempre su “Repubblica”, strepitosa vignetta di Bucchi, con un prete che afferma “Riguardo alla omosessualità - obiezione di coscienza ai venditori di letti”

newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArtic...



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Padre Guardiano
31/10/2007 08:06
 
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Re

I loro diktat sono generati dalla loro mente storpiata dalle "raccomandazioni" di vari Padri della Chiesa e dalla loro ipocrisia.
Vergogna assoluta!!!!
Ma non si accorgono di essere semplicemente ridicoli?????!!!! [SM=x789054]



omega [SM=x789054] [SM=x789054] [SM=x789054]



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Vivo fra lo Stato Sovrano della Fica e la Repubblica Popolare del Cazzo
31/10/2007 12:22
 
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All'invito del "pastore" tedesco verso i farmacisti di fare obiezioni di coscienza,riprendo un'articolo che mostra la mistificazione clericale.


Quoto una frase dell'articolista molto significativa:

"L'obiezione di struttura pare piuttosto rientrare nell'ambito del sabotaggio........E' in quest'ottica,dunque,che vanno inquadrati gli inviti rivolti dalle massime autorità ecclesiastiche ai medici,agli operatori sanitari e,più in generale,a tutti i titolari di pubbliche funzioni.....
La legge, dunque, non prevede l’opzione di coscienza del farmacista alla vendita della pillola del giorno dopo. Questa condotta è oggi illecita, costituisce una grave abdicazione del farmacista alla propria funzione pubblica, sino a quando il legislatore non interverrà predisponendo adeguati meccanismi di conversione dell’obbligo di cui all’art. 38 cit., al fine di tutelare l’obiezione di coscienza del farmacista e salvaguardare al contempo la funzionalità del servizio farmaceutico garantendo l’accesso al farmaco nei tempi necessari alla sua efficacia....
In conclusione, in questo caso, come nel caso dell’obiezione di struttura e negli altri casi in cui il cittadino è investito di pubbliche funzioni, l’obiezione di coscienza, diviene espressione di un diritto all’intolleranza religiosa e si traduce in un strumento di negazione del principio di laicità, anteponendo le convinzioni individuali della persona fisica titolare di una “pubblica funzione” al pieno rispetto dei doveri derivanti dal suo officium. L’obiezione, da diritto fondato sulla laicità e sul rispetto della coscienza individuale, diviene strumento di attacco al principio di laicità, attraverso il sabotaggio delle “pubbliche funzioni”: l’obiezione diviene “imposizione” di coscienza.
"


Vale la pena di leggersi l'articolo,secondo il quale Ratzi starebbe istigando ad un vero e proprio sabotaggio del principio della laicita' e sarebbe inoltre passibile dal punto di vista penale!

Questo articolo,anche se lungo,mi e' piaciuto molto,chiarisce alcune idee di principio normativo in merito all'aborto e anche alla pillola del giorno dopo.

da www.radioradicale.it/obiezione-opzione-impostazione-di-c...

Obiezione, opzione, imposizione di coscienza
Pubblicato il 3 Aprile 2007 da Simone Sapienza Invia a un amico, Stampa Note di aggiornamento ad uso anticlericale per la promozione dello Stato laico e della libertà di coscienza.





A cura di Daniele Bertolini.

La nuova arma
E’ in corso da alcuni anni, da parte della Chiesa cattolica, una spregiudicata operazione politica di attacco al fondamentale principio di laicità delle istituzioni, giocata su una furbesca manipolazione del fondamento e del significato dell’obiezione di coscienza.

L’episodio più discusso risale al 30 ottobre del 2000 (all’indomani della messa in vendita previa prescrizione medica nelle farmacie italiane del Norlevo, la c.d. “Pillola del giorno dopo”) quando dal Vaticano giunse un invito, quasi una intimazione, rivolto a medici e farmacisti, a rifiutarsi di prescrivere e vendere il Norlevo, facendo ricorso all’”obiezione di coscienza”. La sfida clericale si collocava in questo modo sia sul piano del merito della controversia circa il momento in cui inizia la gravidanza, sia sul piano (assai più devastante) dei confini di legittimità della legge statuale.

Quanto al primo punto la Pontificia Accademia affermava la natura antiabortiva del farmaco, sulla base della premessa che la “pillola del giorno dopo” provochi una interruzione della gravidanza, processo che – afferma la nota ufficiale diffusa il 30 ottobre 2000 - “comincia dalla fecondazione e non già dall’impianto della blastocisti nella parete uterina”. La gran parte della comunità scientifica internazionale è contraria a questa indebita estensione della nozione di aborto poichè la gravidanza ha inizio con l’annidamento dell’ ovulo fecondato nell’utero, processo che richiede almeno sei o sette giorni. Ma ciò che davvero contava in quella vicenda era il salto di qualità che la Chiesa imprimeva nel suo attacco ai diritti civili e alla libertà di coscienza. La vera novità di quell’esternazione della Pontificia Accademia era lo strumento che furbescamente ed efficacemente la Chiesa brandiva a difesa delle proprie concezioni integraliste sui temi della vita. Da sempre ostile alle concezioni individualiste anche sul terreno degli strumenti della lotta politica, in quanto estranea all’elaborazione liberale e contrattualista del diritto di resistenza di cui sono espressione gli strumenti dell’obiezione di coscienza e della disobbedienza civile, la Chiesa Cattolica con quell’invito al rifiuto della prescrizione e del commercio del medicinale contraccettivo, si appropriava, a sostegno del suo tradizionale disegno clericale, dello strumento libertario per definizione. Dando prova di tenace e machiavellica capacità di adattamento ai mutevoli contesti sociali, ribaltava la logica dell’obiezione di coscienza trasformandola da strumento di affermazione della libertà individuale a strumento di imposizione contro le libertà individuali.

Obiezione di coscienza e resistenza al potere politico
Per comprendere il significato e apprezzare l’efficacia politica di questa mistificazione clericale occorre inquadrare brevemente l’obiezione di coscienza nel contesto delle diverse forme di resistenza al potere e nel raffronto all’ordinamento giuridico vigente.

Bisogna anzitutto considerare che dovere fondamentale di ogni persona soggetta ad un ordinamento giuridico è il dovere di obbedire alle leggi. Questo dovere è chiamato obbligo politico. L’obbedienza alle leggi è basata non sul consenso alle singole norme dell’ordinamento giuridico, ma sull’obbligo politico derivante dall’accettazione di un potere riconosciuto come legittimo. Tale distinzione (obbedienza all’obbligo politico e obbedienza al singolo precetto giuridico) assume un’importanza fondamentale al fine di comprendere il significato dell’obiezione di coscienza. Il tema della resistenza rappresenta l’aspetto negativo – o per meglio dire il rovescio – del problema dell’obbligo politico. Occorre pertanto chiarire che quando si parla parla di “diritto” di resistenza non si allude ad un diritto positivizzato, riconosciuto dall’ordinamento, ma si intende fare riferimento ad un diritto naturale incomprimibile che precede l’obbligo politico e che si richiama ad una sfera immune da coercizioni esterne all’individuo.

L’obiezione di coscienza è una delle più importanti forme di manifestazione del diritto di resistenza al potere e si fonda su una concezione tipicamente liberale e antiautoritaria del potere politico. Essa consiste nel rifiuto deliberato e palese di una legge allo scopo di porre in essere un atto di testimonianza individuale di obbedienza ad un dovere ritenuto superiore, ad una scelta di vita coerente con gli imperativi della propria coscienza. Il rifiuto di obbedire ad uno specifico precetto non implica affatto, in tali situazioni, il rifiuto dell’ordinamento giuridico considerato nel suo insieme. In questo senso la resistenza al potere si colloca nell’alveo della concezione liberale e sfugge a qualsiasi impostazione anarchica di rifiuto in toto del potere politico dello Stato. La disobbedienza civile si distingue dall’obiezione di coscienza e va intesa come azione politica, non violenta, posta in essere, di regola, da un gruppo di persone e sulla base di un piano preordinato, che si richiama non solo a principi di moralità personale, ma a concetti di giustizia generalmente accolti in una determinata società, allo scopo esplicito di ottenere un cambiamento delle leggi o degli indirizzi politici. Mentre l’obiettore non necessariamente compie il suo gesto con l’intenzione di realizzare un atto politico pubblico, ma semplicemente rifiuta per motivi di coscienza di obbedire ad un comando legale, il disobbediente civile con il suo comportamento intende rivolgere un appello al senso di giustizia della maggioranza. Connotati essenziali dell’obiezione di coscienza al potere sono quello dell’apertura, della passività e della nonviolenza. In particolare, l’obiezione di coscienza è aperta in quanto deliberata, non occulta, realizzata pubblicamente; passiva poiché l’obiettore si sottomette volontariamente alla pena prevista per la violazione della legge; nonviolenta in quanto la trasgressione intenzionale della legge se compiuta in modo da arrecare offesa alle persone o all’altrui diritto si porrebbe in contrasto con il significato profondo del gesto di resistenza. Infatti l’obiezione di coscienza è contraria ad una imposizione del potere e, come tale, non può tradursi a sua volta in una forma di imposizione o coercizione su altri individui. In poche parole, l’obiezione di coscienza è immunità da e di coercizione. Esula totalmente dalla logica dell’obiezione di coscienza il conflitto tra scelte individuali differenti. Essa si pone in rapporto (di negazione) con il potere politico, non riguarda il conflitto tra individui, ma tra individuo e potere e, pertanto, l’obiezione non coinvolge soggetti terzi.

L’opzione di coscienza
Chiarito il significato dell’obiezione di coscienza occorre introdurre una importante distinzione. L’espressione obiezione di coscienza, intesa alla stregua di un gesto filosoficamente fondato sul diritto di resistenza al potere, si connota come gesto antigiuridico, cioè contrario all’ordinamento giuridico (obiezione contra legem). Nel momento in cui l’obiezione di coscienza viene giuridicizzata essa perde la sua essenza, sbiadendosi fortemente il suo valore di testimonianza e di affermazione di coscienza capace di ristabilire il proprio primato sulle norme imposte dal potere politico. Qualora l’ordinamento facultizzi il soggetto a scegliere l’uno o l’altro dei comportamenti previsti dalla legge, il conflitto tra norma “interna” e norma “esterna” non viene neppure a porsi, e l’eventuale dichiarazione delle ragioni di coscienza che inducono il soggetto a preferire un comportamento all’altro finisce per rientrare nelle mere modalità di esercizio del diritto di opzione riconosciuto dall’ordinamento.

Tuttavia l’obiezione di coscienza ha assunto nel corso della seconda metà del secolo scorso, proprio in seguito al progressivo affermarsi di una concezione laica e pluralista della democrazia e delle sue istituzioni, la dimensione di un vero e proprio istituto giuridico. E’ ricorrente l’osservazione che gli ordinamenti giuridici hanno legalizzato alcune forme di obiezione di coscienza, la quale viene così a manifestarsi non più solo come contra legem, ma anche come obiezione secundum legem. Per le ragioni sopra esposte non pare corretto riferirsi a questo secondo ordine di fattispecie legali in termini di “obiezione di coscienza”, come se si fosse in presenza di due species riconducibili al medesimo genus. L’obiezione di coscienza appartiene al genus delle resistenza al potere e come tale è per definizione contra legem. Quando l’ordinamento rimette all’individuo la scelta tra comportamenti alternativi pare più corretto parlare di “opzione di coscienza” alludendo così non più ad un gesto di resistenza, ma ad uno spazio di scelta individuale pienamente legittimato dall’ordinamento vigente. Il caso che per primo è stato oggetto di considerazione da parte degli ordinamenti giuridici contemporanei, e che tuttora costituisce il caso praticamente più importante, è quello del rifiuto, motivato da ragioni di coscienza, di prestare servizio militare. La storia dell’obiezione in questo caso conduce dall’ambito della resistenza al potere (contra legem) - della lotta nonviolenta e delle varie iniziative politiche volte al riconoscimento del diritto a non prestare il servizio militare, attuate mediante deliberate trasgressioni degli obblighi di leva – a quello dell’opzione di coscienza (secundum legem), in cui la legge riconosce all’individuo il diritto di essere contrario in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza e di essere ammesso a soddisfare l’obbligo di leva in altri modi previsti dalla legge.

In Italia, ad esempio, fino alla promulgazione (1972) di una legge che regolamentasse la fattispecie, l’obiezione di coscienza fu sempre trattata alla stessa stregua della renitenza alla leva (mancata presentazione al distretto militare per le visite di leva, o alla destinazione assegnata per lo svolgimento del servizio), oppure alla diserzione (che scatta al sesto giorno di renitenza). La legge del 12 dicembre del 1972, n. 772 sull’obiezione di coscienza permise di scegliere il servizio civile sostitutivo obbligatorio, di durata di 8 mesi superiore alla durata del servizio militare che si sarebbe dovuto svolgere.

Intesa in questo seconda accezione (secundum legem) non c’è dubbio che l’obiezione di coscienza sia istituto destinato ad una progressiva estensione del suo ambito di applicazione, proprio per effetto dell’evoluzione sociale in senso pluralistico e dell’accentuarsi del fenomeno della secolarizzazione. Dinanzi a tali fenomeni è evidente il pericolo che si inneschi una dinamica di progressiva disgregazione sociale sino al limite estremo della impossibilità della convivenza. Oggi dunque il problema dell’obiezione di coscienza legale (rectius: opzione di coscienza) non è tanto quello della sua ammissibilità, quanto quello della individuazione dei limiti che ad essa legittimamente possono apporsi, nel giusto contemperamento delle esigenze individuali e di quelle della collettività generale. Per orientarsi in questa complessa tematica conviene analizzare brevemente il fondamento e la struttura dell’obiezione come istituto giuridico.

Il riconoscimento giuridico dell’opzione di coscienza
Nel nostro ordinamento sono tre i casi di opzione di coscienza espressamente riconosciuti dal legislatore. Il primo, ed il più antico, consiste nel rifiuto di compiere il servizio militare (originariamente previsto dalla legge 772 del 15/12/1972) per la ripulsa dell’uso delle armi contro esseri umani. Altro caso riguarda il rifiuto di praticare la vivisezione sugli animali da esperimento, previsto dalla legge 413 del 12/10/1993 che permette a medici, ricercatori, personale sanitario, studenti universitari che abbiano dichiarato la propria obiezione di coscienza di non prendere parte alle attività ed agli interventi diretti alla sperimentazione animale. Il terzo più problematico caso, entrato in uso con la legge 194 del 22/5/1978, è quello che autorizza, in particolari condizioni, l’interruzione della gravidanza entro il primo trimestre di gestazione.

La dottrina e la giurisprudenza che si sono occupati dell’istituto giuridico dell’obiezione di coscienza (rectius: opzione) hanno rinvenuto un fondamento costituzionale negli articoli 2, 19 e 21 della Costituzione. Dalla lettura di queste disposizioni emerge un “abito costituzionale” dell’opzione di coscienza che, ferma restando la necessità dell’ordinamento di realizzare i propri fini, situa l’obiettore (rectius: il soggetto optante) in una posizione di equilibrio tra la ferma volontà di rispettare i precetti della coscienza senza, tuttavia, venir meno all’adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà. Tra le norme citate, quella che maggiormente viene in rilievo quale fondamento costituzionale dell’opzione di coscienza è senz’altro l’art. 19 che costituisce il pilastro di riferimento di tutte le facoltà discendenti dal diritto di libertà religiosa e di coscienza. E’ bene mettere in guardia da una lettura formalistica di tale disposizione che guarda alla libertà di religione non come libertà esclusiva dei credenti, ma come libertà di tutti in materie che toccano la coscienza. Si consideri poi che alla libertà di coscienza è funzionale il principio di laicità dello Stato, che secondo una famosa pronuncia della Corte Costituzionale (n. 203 del 1989), è da considerarsi principio supremo dell’ordinamento. Non è un caso che l’art. 19 abbia fondato le istanze più pregnanti del separatismo liberale.

E’ chiaro, a questo punto, come l’opzione di coscienza sia espressione del principio di laicità e che radicare l’opzione di coscienza sull’art. 19 della Costituzione pone un chiaro limite ad un’applicazione dell’istituto che da strumento di tutela della coscienza individuale non può trasformarsi in strumento di tirannia della coscienza individuale. L’art. 19 Cost., infatti, non configura un diritto all’ “intransigenza in materia religiosa”, chè, altrimenti, si finirebbe col negare la libertà religiosa finendo per riconoscere un paradossale diritto all’intolleranza.

Il principio della libertà di coscienza si raccorda dunque al principio del rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.

Volendo trarre una conclusione dalla lettura delle norme costituzionali si può dire che nel nostro ordinamento l’opzione di coscienza si colloca nel contesto del rapporto tra la “inviolabilità” della coscienza individuale e la “inderogabilita” dei doveri di solidarietà e di cittadinanza.

A questo punto, chiarito il fondamento costituzionale dell’opzione di coscienza, possiamo analizzare la struttura dell’istituto, che, ovviamente, discende direttamente dalle enunciazioni costituzionali.

Il problema fondamentale è quello della c.d. interpositio legislatoris che può riassumersi nel quesito se per rendere effettiva la garanzia che la costituzione riconosce all’obiettore sia necessaria una interposizione del legislatore che configuri nel caso concreto i termini del contemperamento tra le diverse situazioni giuridiche soggettive attive e passive. A nostro avviso, rimanendo nell’ambito dell’obiezione secundum legem (opzione di coscienza), deve ritenersi che, una volta riconosciuto (da una ormai consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione) il diritto costituzionale di libertà (e dunque di opzione) di coscienza, è necessario che, per le nuove obiezioni “rivendicate”, intervenga la positiva interpositio legislatoris. In altri termini, il legislatore interviene dando piena attuazione al precetto costituzionale, disciplinando le modalità esecutive dell’obiezione in modo da comporre in equilibrio i diversi valori costituzionali configgenti nella singola fattispecie, trasformandola da atto contra legem a obiezione secundum legem. È bene tenere presente che questa impostazione legittima l’intervento della Corte Costituzionale, che potrà così sindacare la legittimità costituzionale delle norme di legge ordinaria sotto il profilo del rispetto della libertà di obiezione di coscienza.

Chiarita la natura giuridica dell’opzione di coscienza e il suo fondamento costituzionale occorre ora analizzare brevemente la struttura del suo riconoscimento giuridico e i limiti che essa incontra in rapporto all’ordinamento costituzionale.

La norma che riconosce e disciplina l’opzione di coscienza tutela l’obiettore mediante la conversione (oggettiva o soggettiva) dell’obbligo giuridico in altra situazione giuridica passiva. Il legislatore prevede la possibilità di convertire un determinato obbligo imposto in un altro diverso, che consenta ugualmente di realizzare i fini e di adempiere i doveri posti alla base della previsione dell’obbligo stabilito in via principale. Così la conversione dell’obbligo giuridico diviene la tecnica mediante la quale il legislatore armonizza le diverse forme di esercizio delle libertà costituzionali e gli specifici obblighi sanciti per l’adempimento dei doveri di solidarietà. Le norme che riconoscono e disciplinano le opzioni di coscienza si possono distinguere in tre differenti modelli, a seconda della diversa situazione giuridica passiva nella quale si riconverte l’obbligo principale. Abbiamo così:

i) norme che contemplano un obbligo necessariamente maggiormente gravoso rispetto a quello previsto dalla norma oggetto di obiezione;

ii) norme che statuiscono un obbligo che può essere ugualmente gravoso;

iii) norme che pongono meri oneri per il riconoscimento della condotta obiettante.

Il caso emblematico di obiezione di coscienza – il rifiuto di adempiere agli obblighi di leva – è stato inizialmente riconosciuto mediante una norma del tipo i), infatti, la legge 772/1972 permetteva di scegliere il servizio civile sostitutivo obbligatorio di durata di 8 mesi superiore alla durata del servizio che si sarebbe dovuto svolgere. La legge 230/1998 prevedeva che l’obiettore fosse tenuto a prestare servizio civile per la durata pari a quella del servizio militare di leva scivolando così nel modello del tipo ii). Attualmente, con il venir meno dell’obbligatorietà del servizio militare in Italia (legge 333/2001) è venuta meno anche l’opzione del servizio civile per obiezione di coscienza.

Un esempio di obiezione del tipo iii) è contenuta nella legge 413/1993 che riconosce ai medici, ai ricercatori ed al personale sanitario dei ruoli dei professionisti laureati, tecnici ed infermieristici, che abbiano dichiarato all’atto della presentazione della domanda di assunzione o di partecipazione a concorso la propria obiezione di coscienza, il diritto a non prendere parte direttamente alle attività e agli interventi specificamente e necessariamente diretti alla sperimentazione animale. Questa disposizione subordina l’esercizio del diritto all’opzione di coscienza all’onere formale della dichiarazione fatta nei termini e nelle forme stabilite dalla legge.

L’obiezione all’aborto
Il caso più problematico di opzione legale di coscienza è quello previsto dall’art. 9 della legge 194/78 che stabilisce che

«Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non e’ tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. >La dichiarazione dell’obiettore deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dello ospedale o dalla casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall’entrata in vigore della presente legge o dal conseguimento della abilitazione o dall’assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette alla interruzione della gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l’esecuzione di tali prestazioni. >L’obiezione può sempre essere revocata o venire proposta anche al di fuori dei termini di cui al precedente comma, ma in tale caso la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua presentazione al medico provinciale. L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attivita’ ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attivita’ specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento. Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalita’ previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilita’ del personale. L’obiezione di coscienza non puo’ essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attivita’ ausiliarie quando, data la particolarita’ delle circostanze, il loro personale intervento e’ indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. L’obiezione di coscienza si intende revocata, con effetto immediato, se chi l’ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l’interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente».

Questa disposizione è particolarmente problematica poiché riconosce l’opzione di coscienza senza prevedere obblighi sostitutivi, ma solo alcuni deboli oneri compensativi. Occorre però sottolineare come la norma preveda espressamente che l’opzione di coscienza non possa tradursi in ostacolo alla effettiva possibilità di eseguire gli interventi interrottivi della gravidanza. Dunque, conformemente all’abito costituzionale dell’opzione di coscienza, così come sopra ricostruito, la norma va interpretata (e applicata!) nel senso che l’esplicazione della libertà di coscienza incontra un limite nell’esigenza di salvaguardare la salute della donna e, in particolare, il suo diritto di accedere al servizio pubblico di interruzione della gravidanza. Infatti, per assicurare il raggiungimento delle finalità perseguite, la legge 194, al quarto comma dell’art. 9, fa implicito riferimento al meccanismo di conversione soggettiva dell’obbligo, prevedendo il ricorso alla mobilità del personale; anzi, rivelandosi insufficiente questa misura, a causa del gran numero di obiettori, il legislatore è intervenuto nuovamente sulla materia con l’art. 1, comma 8 del D.l. 678/1981 (convertito con l. 12/1982), permettendo alle unità sanitarie locali, al fine di garantire in ogni caso gli interventi interruttivi della gravidanza, da una parte l’ampliamento delle piante organiche delle unità sanitarie locali con la contestuale copertura dei relativi posti, in deroga al blocco degli organici, dall’altra il ricorso alle consulenze professionali.

Occorre dunque sottolineare con forza che la lettera della legge, in conformità ai precetti costituzionali, impedisce che la c.d. obiezione di struttura (che coinvolge, cioè, un intero reparto), laddove essa si è determinata, faccia prevalere il diritto alla opzione del medico sul diritto della donna a interrompere la gravidanza, determinando un impedimento all’applicazione della norma vigente e quindi “un’abrogazione di fatto” della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. Chiarita la corretta interpretazione della norma occorre comunque rilevarne criticamente la debolezza, rispetto alle finalità generali della legge sull’interruzione di gravidanza, derivante dalla scarsa strumentazione predisposta al fine di rendere effettivamente operante la conversione soggettiva dell’obbligo di erogazione della prestazione sanitaria. La norma è esplicita nello stabilire che le strutture sanitarie siano tenute in ogni caso ad assicurare l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti, ma non prevede meccanismi volti a rendere effettivo l’adempimento di tali prestazioni da parte degli enti ospedalieri. Ciò trova una conferma in alcune drammatiche realtà venutesi a creare in quelle regioni dove a causa degli elevati livelli di obiezione la diminuzione delle interruzioni volontarie di gravidanza nelle strutture pubbliche ha comportato l’aumento del fenomeno dell’aborto clandestino o il procrastinarsi dei tempi dell’intervento abortivo fino a periodi gestazionali limite, con notevole aggravio psicologico per la donna e per lo stesso operatore non obiettore. Alla luce di queste considerazioni pare davvero condivisibile la proposta di legge n. 849 presentata alla Camera dei Deputati nella XIV legislatura volta alla istituzione negli ospedali pubblici di un servizio di fisiopatologia della riproduzione (con competenze in materia di contraccezione, diagnosi prenatale, pap-test, e sterilizzazione oltre che di interruzione volontaria di gravidanza) affidato alla responsabilità un medico non obiettore. Si stabilisce inoltre che la funzionalità del servizio debba essere garantito in ogni caso da un organico medico e paramedico, che non abbia sollevato obiezione di coscienza almeno nella misura del 50 per cento. Si prevede infine l’obbligo per tutte le strutture di ricovero e cura, convenzionate con il Servizio sanitario nazionale per la ostetricia e ginecologia, di applicare la legge relativamente all’interruzione volontaria della gravidanza pena il decadimento della convenzione per il servizio di ostetricia e ginecologia. In tal modo di verrebbe ad integrare l’attuale legge sull’interruzione di gravidanza, garantendone l’effettiva applicazione in modo da impedire l’obiezione di struttura.

L’imposizione di coscienza: ”obiezione di struttura” e sabotaggio clericale
E’ bene, a questo punto, fissare due importanti principi, anticipando in parte le conclusioni della nostra riflessione. In primo luogo, la c.d. obiezione di struttura si colloca al di fuori del quadro costituzionale determinando la prevalenza del diritto alla opzione di coscienza sul diritto della donna a interrompere la gravidanza. Come visto, l’opzione è garantita come diritto costituzionale in quanto strumento di attuazione della libertà di coscienza e garanzia del principio di laicità. Un’obiezione realizzata in modo da pregiudicare un ragionevole contemperamento dei valori costituzionali in gioco, determinando il sacrificio dei doveri inderogabili di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., si pone in palese contrasto con l’abito costituzionale dell’opzione di coscienza. L’obiezione di struttura è contraria alla legge e come tale si colloca al di fuori dell’istituto dell’obiezione secundum legem (opzione di coscienza).

Potrebbe a questo punto ritenersi che i medici che con la loro obiezione di coscienza pregiudichino la piena funzionalità del servizio della struttura nella quale operano pongano in essere una obiezione contra legem del tipo di quelle rientranti nell’alveo della resistenza al potere. Si tratterebbe di gesti illegali ma giustificabili (eticamente e politicamente) alla luce di una particolare concezione dei rapporti tra individuo e potere politico. Tuttavia, a ben vedere, un obiezione di tal fatta esulerebbe completamente anche dall’ambito della resistenza al potere politico. S’è visto infatti che una caratteristica saliente dell’obiezione di coscienza è quella di non coinvolgere soggetti terzi. Per questo motivo, qualora coinvolga un intero reparto, la mancata disponibilità dei medici ginecologi di strutture sanitarie pubbliche a praticare l’operazione di aborto non può essere qualificato come “obiezione di coscienza”, neppure se intesa come forma di resistenza al potere contra legem. In questi casi il c.d. “obiettore” affronta alcuna conseguenza penale o civile. L’obiezione di struttura è, nei fatti, un’azione priva di qualsivoglia responsabilità personale e le cui conseguenze vanno a carico di un soggetto terzo (nel caso di mancata prestazione sanitaria, l’utente richiedente il servizio al sistema sanitario nazionale), contraddicendo pienamente uno dei fondamentali requisiti costitutivi dell’obiezione di coscienza come forma di resistenza al potere. Neppure la disobbedienza civile può essere richiamata, poiché difettano i fondamentali requisiti della passività e della nonviolenza. L’obiezione di struttura pare piuttosto rientrare nell’ambito del sabotaggio, tipica forma di lotta politica basata sull’eversione dell’obbligo politico, estranea ad una concezione nonviolenta dell’agire politico. E’ in quest’ottica, dunque, che vanno inquadrati gli inviti rivolti dalle massime autorità ecclesiastiche ai medici, agli operatori sanitari e, più in generale, a tutti i titolari di pubbliche funzioni.

Sono a questo punto sufficientemente chiari i limiti nell’ambito dei quali si colloca l’istituto dell’opzione di coscienza.

Un primo limite intrinseco all’istituto è dato dal suo carattere di eccezionalità. Abbiamo già considerato la tendenza alla progressiva estensione dell’ambito soggettivo e oggettivo delle opzioni di coscienza, ma è chiaro che i casi in cui la soluzione del conflitto tra valori contrapposti è rimessa alla discrezionalità del singolo individuo, specie nell’ambito dell’esercizio di pubbliche funzioni, non possono che rappresentare un ristretto numero di ipotesi. Vi sono già nel nostro ordinamento altri strumenti procedurali che dovrebbero garantire esigenze di bilanciamento e ragionevolezza (meccanismi della rappresentanza politica, il procedimento legislativo, il referendum, istituti di negoziazione legislativa, le funzioni del potere esecutivo e della pubblica amministrazione etc.).

In secondo luogo, l’opzione di coscienza cede quando confligge con altri diritti costituzionali di pari grado o, eventualmente, di grado superiore. (è il caso dell’obiezione c.d. di struttura).

Infine specifici limiti all’opzione di coscienza riguardano situazioni particolarmente qualificate sotto il profilo soggettivo. E’ il caso di cittadini investiti di pubbliche funzioni, tenuti in ragione del proprio status ad un determinato comportamento. In tali casi, la prevalenza dell’obbligo sul diritto individuale all’opzione deriva come conseguenza necessaria dei sopraesposti precetti costituzionali: la “pubblica funzione” prevale sull’opzione di coscienza individuale, a meno che il legislatore non sia intervenuto (interpositio legislatoris) prevedendo adeguati meccanismi di conversione dell’obbligo in funzione compensativa.

Il caso emblematico è proprio quello della c.d. “pillola del giorno dopo” dal quale ha preso le mosse la nostra analisi. In questa ipotesi sussiste una chiaro obbligo a carico del farmacista sancito espressamente dall’art. 38 del D.R. del 30 settembre 1938 n. 1706 a norma del quale

«I farmacisti non possono rifiutarsi di vendere le specialità medicinali di cui siano provvisti e di spedire ricette firmate da un medico per medicinali esistenti nella farmacia. I farmacisti richiesti di specialità medicinali nazionali, di cui non siano provvisti, sono tenuti a procurarle nel più breve tempo possibile, purché il richiedente anticipi l’ammontare delle spese di porto».

Taluno ha invocato, a fronte di questo chiaro dettato normativo, la prevalenza dell’art. 9 della legge 194/1978. L’argomento è infondato poiché quest’ultima disposizione si riferisce al caso dell’interruzione di gravidanza praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso le strutture sanitarie autorizzate. La fattispecie differisce dunque sia sotto il profilo oggettivo, mancando in questo caso una interruzione di gravidanza, sia sotto il profilo soggettivo, dato che la disposizione si riferisce chiaramente al medico del servizio ginecologico e non al farmacista che eroga il servizio farmaceutico. Piuttosto occorre ricordare che la stessa legge 194/1974 all’art. 2, comma 3, ult. parte precisa che

«La somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile e’ consentita anche ai minori.»

La legge, dunque, non prevede l’opzione di coscienza del farmacista alla vendita della pillola del giorno dopo. Questa condotta è oggi illecita, costituisce una grave abdicazione del farmacista alla propria funzione pubblica, sino a quando il legislatore non interverrà predisponendo adeguati meccanismi di conversione dell’obbligo di cui all’art. 38 cit., al fine di tutelare l’obiezione di coscienza del farmacista e salvaguardare al contempo la funzionalità del servizio farmaceutico garantendo l’accesso al farmaco nei tempi necessari alla sua efficacia.

Stupiscono, non poco, la prese di posizione in merito di quei medici - singolarmente preoccupati più dell’efficacia politica del loro rifiuto che delle conseguenze in termini di negazione dei diritti degli utenti – i quali affermano che in tal caso l’obiezione di coscienza consentirebbe a chi subisce la legge di sottrarvisi, rilevando il proprio dissenso utile per successive revisioni migliorative della stessa. In tal modo, non solo si confondono in modo grossolano le condotte di obiezione di coscienza con quelle di disobbedienza civile, ma si dimenticano colpevolmente sia i limiti legali dell’obiezione di coscienza, sia i tratti salienti (da un punto di vista etico-politico) del non coinvolgimento di terzi con le conseguenze della propria trasgressione (e delle proprie convinzioni). S’è già detto come tali comportamenti rientrino più correttamente nell’ambito del sabotaggio, storicamente noto come strumento violento di lotta politica e di condizionamento delle scelte politiche delle pubbliche autorità e che, dal punto di vista strettamente giuridico, spesso si traduce nella commissione di fatti penalmente rilevanti.

In conclusione, in questo caso, come nel caso dell’obiezione di struttura e negli altri casi in cui il cittadino è investito di pubbliche funzioni, l’obiezione di coscienza, diviene espressione di un diritto all’intolleranza religiosa e si traduce in un strumento di negazione del principio di laicità, anteponendo le convinzioni individuali della persona fisica titolare di una “pubblica funzione” al pieno rispetto dei doveri derivanti dal suo officium. L’obiezione, da diritto fondato sulla laicità e sul rispetto della coscienza individuale, diviene strumento di attacco al principio di laicità, attraverso il sabotaggio delle “pubbliche funzioni”: l’obiezione diviene “imposizione” di coscienza.

[Modificato da pcerini 31/10/2007 12:43]
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31/10/2007 16:30
 
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Re x Paolo

Grazie Paolo della bellissima postatura!!!!

Si evince dal tutto come un Paese,nel nostro caso l'italia (nota il minuscolo), da paese patria del diritto diventa patria del...rovescio. [SM=g27812] [SM=g27812] [SM=g27812] [SM=g27812]


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31/10/2007 18:43
 
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Molto interessante davvero [SM=g27811]

Grazie Paolo per queste informazioni [SM=x789061]

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