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Nascere sempre????

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 22:17
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Padre Guardiano
25/11/2008 16:39
 
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Un elemento chiarificatore

Posto da Micromega un interessante articolo molto istruttivo e probante.

Leggetelo con attenzione!!!!!


Il dovere del medico e i cinici della sopravvivenza a oltranza
Ultraprematuri e tortura oscurantista
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Il dovere del medico e i cinici della sopravvivenza a oltranza
Bisogna intendersi sulle parole: la terapia intensiva sui nati ultraprematuri non è ‘rianimare’ ma ‘animare’. Si tratta di bambini fragilissimi non adatti alla vita extrauterina. E che una becera cultura della vita (ma quale?) a tutti i costi vuole condannare a inumane torture. Una donna, una neonatologa, fa il punto su un allucinante dibattito tutto italiano.


di Maria Serenella Pignotti, da MicroMega 2/2008


Di tutti i tipi di odio, nessuno è più profondo
di quello dell’ignoranza nei confronti del sapere.
Galileo


Uno dei temi caldissimi del dibattito di questi giorni è rappresentato dalle scelte di trattamento dei bambini piccolissimi, quelli nati in un’età nella quale non è ben chiaro se, quanto e come possano sopravvivere senza l’ausilio del corpo materno che ne vicaria funzioni fondamentali e che li difende da ogni evento lesivo. Solo pochi anni fa erano chiamati aborti, sono i cosiddetti «neonati fetali», bambini fragilissimi la cui necessità di cure intensive e prolungate e la cui gravissima prognosi sono tali da imporre in tutto il mondo riflessioni molto serie sulla eticità di tali trattamenti.
L’Italia non era al passo coi tempi, non vi era impegno nel nostro paese in questo campo: un solo articolo italiano su riviste internazionali, e come conseguenza una enorme differenza di approccio, un inaccettabile rischio di «cure futili o sperimentali»... fino all’impegno sulla cosiddetta Carta di Firenze. Documento prodotto dopo anni di lavoro, discussione, incontri, studio che è arrivato al ministro e al Comitato nazionale di bioetica (Cnb). È stata poi contrapposta ad altri documenti, freschi di stampa (e di studio) che in realtà non la criticano in maniera costruttiva e scientifica, ma gettano inutili ombre in un terreno che chiede, invece, un vero atto di responsabilità da parte degli adulti.
Nella confusione si trova bene l’ignorante, quello che non si aggiorna, quello che non si impegna in prima persona. Rifiutare a prescindere l’unico dato scientifico la cui predittività per la prognosi è «dimostrata» – l’età gestazionale – ha significato rifiutare la scienza, rifiutare ogni tentativo di «medicina basata sull’evidenza» anche per questi bambini, perché, se anche loro sono «persone», come tali documenti hanno inteso ricordarci, essi chiedono alla scienza medica scelte basate sull’evidenza, non sulla stregoneria, i riti, le fantasie dell’ignoranza, o peggio, la sperimentazione.
I genitori che, poi, diventeranno anche troppo protagonisti, non ci sono stati d’aiuto, pur se totalmente esclusi dalle scelte sui loro figli, in Italia unico paese al mondo. Questo anche perché il dramma di una nascita in età gestazionali così precoci è estremamente raro (per fortuna), tocca a pochi, e, quando tocca non si ha la forza di affrontarlo. Questo non vuol dire che, per chi lavora sul campo e ha a cuore la sorte di quegli unici tre bambini nati vivi nel 2004 in Toscana a 22 settimane e poi morti dopo le cure intensive, non sia un dramma quotidiano e impellente. Ma, per molti, meglio è lasciare tutto com’è, accontentarsi di questa disomogeneità di intervento, dell’esperienza del singolo, improvvisare, cercare di «fare tutto», dire ai genitori «ad ognuno dev’esser data una chance». Celando dietro atteggiamenti generosi e responsabili l’irresponsabilità di chi non sa, di chi non ha studiato, di chi non è aggiornato, né vuole impegnarsi in scelte molto più difficili, di chi continua a confondere la diagnosi di «nato vivo» con quella di «nato vivo e vitale», di chi continua a confondere bambini nati da terminazione di gravidanza con bambini sani ma prematuri, di chi continua a negare il valore dei dati (sopravvivenza nulla a 22 settimane), di chi continua a non trasformare quei dati in scelte concrete. L’assunzione di responsabilità di fronte ad un paziente, anche se incurabile, non è mai, in un paese civile come deve essere il nostro, «abbandono» ma «cambiare tipo di cure», accogliere, accompagnare, stare vicino, con «compassione».

Di chi stiamo parlando. Il feto/neonato di età gestazionale compresa tra le 22 e le 25 settimane è una creatura della specie homo sapiens che vive una fase particolarissima dello sviluppo. È assolutamente perfetto per la vita intrauterina, nella quale le funzioni polmonare e renale sono vicariate dalla placenta. Gli organi stanno ancora completando il loro sviluppo anatomico: il polmone non ha ancora gli alveoli, cioè le unità funzionali deputate allo scambio di gas, ma è un insieme di piccoli tubuli. Il cervello, ultimo organo a svilupparsi nella specie umana, è ancora in fasi precocissime dello sviluppo. Cominciano, infatti, in queste settimane i fenomeni fondamentali della migrazione cellulare (meraviglioso fenomeno per cui le cellule nervose primordiali che si sviluppano medialmente nell’encefalo prematuro, migrano, secondo i dettami del codice genetico, verso la corteccia), della differenziazione cellulare, della mielinizzazione. Ma attenzione, il sistema nervoso centrale non è`, come invece riportato nel recente documento del Cnb, organo «critico» per la sopravvivenza, non condiziona il passaggio tra vita intra ed extrauterina. Servirà invece molto dopo, a garantire quelle peculiari caratteristiche dell’uomo (le capacità cognitive) e degli altri animali (le capacità motorie, la sensorialità…). Questo feto/neonato è piccolissimo (400-600 grammi). Le vene sono minuscole e traspaiono dalla cute immatura. Si vede battere il cuore dalla finissima parete toracica. Le palpebre sono spesso fuse. Vi sono limiti di manualità nel trattare questi bambini: incannulare queste vene è difficilissimo e, anche se riesce, tali vene si rompono subito. La trachea, nella quale viene inserito un tubo per portare l’ossigeno ai polmoni (manovra che non è, come invece riporta il documento del Cnb, «la mera somministrazione di ossigeno […] attraverso una cannula messa in trachea passando dal naso»), è piccolissima e l’inserimento di tale cannula è una manovra estremamente difficile gravata da insuccessi e complicanze lesive. La piccolezza di tale organo è tale che si può non avere un tubo di dimensioni adeguate. Il tubo di diametro 2,5 può non passare affatto, e quello di diametro 2 è troppo piccolo, per cui per questioni di fisica (l’espulsione di aria dipende anche dal quadrato del raggio del tubo) l’aria già entrata non esce, rimane dentro il polmone creando il fenomeno dell’intrappolamento di aria, presupposto per gravi problemi. Per questi e molti altri aspetti, tale neonatino, anche se perfetto per la vita intrauterina, può essere assolutamente inadatto alla vita extrauterina.

Il feto non è un bambino. Si capisce ora perché tale creatura non è paragonabile a creature della stessa specie ma in età diverse della vita: il neonato a termine, il bambino, l’adulto, come invece riportato nei documenti in questione. Il nostro feto/neonato non è un bambino o un adulto che già viveva e che subisce, per esempio, un incidente stradale. In questo caso l’oggetto della rianimazione aveva già «capacità di vita autonoma», visto che stava vivendo. Il nostro intervento «ri-animatorio» si inserisce su funzioni vitali che già funzionavano al meglio. Le dobbiamo «solo» aiutare a ripristinarsi, se possibile. Il nostro feto/neonato, invece, aveva tutt’altro tipo di funzioni in azione, quelle assolutamente peculiari della vita «intrauterina». Per questo motivo non può esser «rianimato» ma eventualmente «animato». Per questi motivi la valutazione della «capacità di vita autonoma» di questo feto/neonato è assolutamente peculiare a questa fase della vita umana. È una «animazione» non una rianimazione. Non ha alcuna caratteristica in comune col bambino e con l’adulto, e non può essere a queste paragonata. Non capire questo significa non aver capito il punto uno, cioè «di chi stiamo parlando». È evidente che, proprio ed in primis per noi neonatologi e per noi mamme, il feto/neonato è una persona, ma il vero rispetto per la sua dignità impone la conoscenza di «che persona è» e non le valutazioni sulla sua «capacità giuridica» che lasciamo volentieri ai giuristi.

Un parametro condiviso. L’età gestazionale è l’età del feto/neonato, espressa in settimane dalla data dell’ultima mestruazione e controllata con l’ecografia che ha un’ottima attendibilità. È considerato internazionalmente il «miglior» parametro che correla con la maturità fetale. Dato che le gravidanze in Italia vengono seguite, e seguite bene, nella quasi totalità dei casi, in un’ottica di una moderna assistenza sanitaria, come dimostra il rapporto della Commissione salute della donna del ministro Turco, del quale ho l’onore di far parte, e dato che le donne italiane non sono zotiche contadine del Seicento che non conoscono il proprio corpo, che non programmano e curano le proprie gravidanze e che non aspirano ad avere figli sani, nei tempi giusti e seguiti bene, e neanche bugiarde assassine, per tutte queste ragioni, la datazione delle nostre gravidanze è ottimale, paragonabile nei tempi e nei modi a quella di tutte le donne europee, in accordo con i migliori protocolli di assistenza. E quindi, l’età gestazionale è un parametro, serio, attendibile, scientificamente provato che testimonia una maturità fetale acquisita o da acquisire, pur con tutta la variabilità biologica che esiste tra un individuo e un altro. L’età gestazionale è il parametro valutato come statisticamente significativo per la prognosi in tutto il mondo. I medici sono abituati a confrontarsi con variabilità biologica e probabilità di errore, in tutte le età della vita: è evidente che sul parametro «età», gestazionale o postnatale, si inseriscono fattori di tipo individuale che influiscono nella vita personale di ognuno, e la Carta di Firenze illustra bene questo aspetto nella sua prefazione, esattamente come fanno i documenti delle Società scientifiche internazionali. In altre parole, la probabilità di morte a 90 anni è maggiore che non a 50, è evidente, ma se il nostro cinquantenne ha una cardiopatia, è obeso, fumatore e non so cos’altro, può avere una probabilità maggiore di morire che non il nonnino di 90 anni bello, asciutto, sano e mangiatore, che ancora lavora il suo campo. Nella vita adulta l’età si esprime in anni, nel primo anno di vita in mesi, nell’età prenatale si esprime in settimane. I documenti del Cnb e del Consiglio superiore di sanità (Css) si esprimono in netto contrasto con l’ambiente scientifico internazionale. Negano a priori l’unico dato che correla con la maturità degli organi e quindi presupposto di cure serie e basate sull’evidenza. Questo significa negare l’unica possibilità di limitazione dell’accanimento terapeutico ed esortare a «provare», orribile verbo in medicina, provare a rianimare tutti. Ma tutti chi? Questo non spiegano… come vedremo tra breve.

La sopravvivenza. Le statistiche parlano chiaro, per chi le vuole comprendere. Certo, leggere i numeri non è facile. Il nostro feto/neonato, come abbiamo visto, è una creatura particolare, le cui caratteristiche si riflettono anche sulla lettura dei numeri. Innanzitutto è un rarissimo cittadino del pianeta (fortunatamente), perché la gravidanza è fatta per durare 40 settimane e non per fermarsi così presto.
Tale rarità di pazienti fa sì che le statistiche non siano «significative», cioè i numeri possono essere casuali e non validi scientificamente. Allora uniamo i nati di molti ospedali? Ma avranno schemi di trattamento diversi… Allora in un solo ospedale allarghiamo l’osservazione a periodi lunghi? Ma sono bambini curati diversamente, dato gli enormi sviluppi della tecnologia. E ancora, cosa mettiamo al denominatore del nostro tasso: il numero delle gravidanze? O i nati vivi? O gli ammessi alle cure intensive? Tutti numeri completamente diversi. Questi e molti altri «pregiudizi» di base inficiano gli studi su questi bambini. Occorre scegliere bene i lavori cui riferirsi paragonando studi paragonabili. E infatti il documento del Cnb arriva a negare valore ai dati della sopravvivenza, mettendo in un calderone una mole incredibile di studi assolutamente diversi. Gli studi più seri cui riferirsi, nel panorama europeo, sono l’Epicure (inglese), l’Epipage (francese), l’Epibel (belga), quello norvegese. I dati italiani (Studio Action dott.ssa Cuttini) sono ancora non pubblicati, anche se non ci si aspettano variazioni sostanziali.
La sopravvivenza a 22 settimane è un aneddoto, a 23 è irrisoria, a 24 è rara ma diventa ragionevole, a 25 quantomeno le speranze sono serie però, anche a questa età, sopravvivere e, soprattutto, sopravvivere sani è ancora una scommessa. Su questi numeri si basano le scelte terapeutiche in tutti i paesi del mondo. Questi sono i numeri veri, non inventati, sognati o immaginati da portare alla società e, sopratutto, ai genitori.

Come si sopravvive. I pochi sopravvissuti hanno un’alta probabilità d’essere malati (morbilità). Purtroppo esiste uno «scarto temporale» necessario a tale valutazione. Essenziale perché il bambino di cui stiamo parlando ha la brutta abitudine di «crescere e svilupparsi», altro aspetto peculiare di questa età della vita. La minima età per avere una diagnosi significativa della paralisi cerebrale è di 2,5 anni di età corretta (cioè come se fosse nato a termine), il minimo per il danno cognitivo è l’età scolare, i 6 anni di vita. Gli studi europei seri, prospettici, di popolazione, che abbiamo preso in considerazione per la sopravvivenza hanno pubblicato dati veramente avvilenti: quasi la metà dei bambini sopravvissuti presenta disabilità motorie o sensoriali, una percentuale intorno al 50 per cento presenta deficit cognitivi. Lo studio Epipage, appena pubblicato, conferma, purtroppo, i dati dell’Epicure. Vorrei comunque far notare che, nella produzione della Carta di Firenze, non abbiamo mai preso in considerazione la disabilità a distanza. Ma solo la sopravvivenza. Questo non perché non si consideri importante questo aspetto, ma perché lo scopo della carta, come chiaramente riporta la sua introduzione, è «proteggere madre e neonato da cure inutili, dannose, dolorose» cioè dall’accanimento terapeutico, non prevenire la disabilità. Per questo motivo il documento del Cnb, che doveva fornire una valutazione etica della Carta di Firenze, ha dimostrato di essere fuori tema: la disabilità, in questa fase della discussione, non c’entrava proprio niente.

Rianimazione sempre. a) Chi ha detto che, nell’ipotesi di una chance di sopravvivenza, la miglior scelta di trattamento sia la «rianimazione», cioè l’intubazione? Lo studio Etfol dei danesi ha dimostrato che, con l’assistenza respiratoria minima in sala parto, si ottengono valori di sopravvivenza e di morbilità a distanza analoghi. La letteratura è piena di dubbi sull’appropriatezza della aggressività in sala parto per questo tipo di bambini. Chi ha detto che intubare sia meglio che attendere? Dove è scritta la necessità, riportata nel documento del Cnb, di «correre»? Da quali studi è giustificata la necessità di un intervento in emergenza in sala parto? Non è che ci si sta confondendo col neonato a termine? Bambino ben diverso dall’estremo pretermine, abituato e disposto a ben altre pressioni di ossigeno? In realtà anche la semplice rianimazione in sala parto non ha base scientifica nel piccolissimo. Chi dice che intubare permette una miglior valutazione della capacità di vita autonoma? E se bastasse la sola somministrazine di ossigeno, forse con maschera e palloncino? E se fosse invece proprio la nostra aggressività terapeutica, il voler ad ogni costo portare a pressioni parziali di ossigeno così alte (>90 per cento) a condurre al terribile danno cerebrale una creatura predisposta a vivere, invece, a tensioni di ossigeno ben più basse? E se fosse addirittura che i gravi pretermine possano giovarsi proprio di un bassissimo livello di ossigeno? Nulla in letteratura ci aiuta a fugare questi dubbi atroci. Chi può escludere che non si sia nuovamente di fronte a danni iatrogeni, cioè causati dalle stesse cure mediche, gravissimi, come il danno da ossigeno che causò ottomila ciechi nel mondo, o come il danno da cloramfenicolo, o il danno da cortisone prenatale. Sfido i sottoscrittori dei documenti del Cnb e del Css a sostenere scientificamente che in queste fasce di prematurità l’aggressione e la velocità di intervento in sala parto sono proporzionali alla sopravvivenza e alla sopravvivenza intatta. Io intravedo, invece, profili di responsabilità professionale in tema di omicidio colposo e lesioni personali.
b) Chi sono «tutti» se l’età gestazionale, unico criterio scientificamente significativo di maturità, non è ritenuto valido? Anche feti di 17 settimane mostrano battito cardiaco o altri segni di vita alla nascita, ma non sono assolutamente da considerare «vitali». Non riusciremmo neanche ad aprirgli la bocca per intubarli tanto sono piccoli… Non è che con quel «tutti» tali signori intendono questi feti? Non è che, quindi, vi è confusione tra diagnosi di «presenza di segni vitali» e diagnosi di «capacità di vita autonoma» o di «vitalità»? La definizione di nato vivo è diversa dalla definizione di «nato vivo e vitale». La prima fu coniata dall’Organizzazione mondiale della sanità e si riferisce ad ogni nato della specie umana che, provenendo da qualunque gravidanza, voluta o no, una volta staccato dal grembo materno presenti uno qualunque dei segni vitali (battito cardiaco, tentativi di respiro, movimenti, pianto), indipendentemente dal fatto se cinque minuti dopo egli sarà morto o no. Questa definizione è nata a scopo eminentemente epidemiologico e statistico. Non ha alcun significato clinico e non voleva averlo. La definizione di nato vivo e vitale o di nato con «capacità di vita autonoma», cui ci richiama anche la legge 194/78 sulla interruzione di gravidanza, presuppone la presenza di segni di vita che preludano ad una capacità di vita futura. Tale diagnosi è molto più complessa e richiede una più complessa valutazione: età gestazionale, eventuali anomalie congenite, il sesso, la razza, la corioamnionite, il ritardo di crescita, la disponibilità di medici e di strumenti… Proprio per la complessità di questa diagnosi, trent’anni fa, la legge 194/78 non scese nei termini cronologici (che oggi vengono portati alla ribalta in modo curioso per la legge sull’aborto ma non per la rianimazione neonatale) e parlò di «capacità di vita autonoma» senza dettare limiti di tempo. Il problema è che fino a pochi anni fa avevamo il coraggio di limitare l’intervento in sala parto, così tentando di evitare l’accanimento terapeutico. Negli anni recenti si è diventati molto più invasivi, forse per difendere noi stessi. Questo non va bene. Sono necessari protocolli di assistenza chiari, facili da usare, cui riferirsi. Questo voleva fare la Carta di Firenze, sulla scorta dei documenti di molti paesi stranieri. La diagnosi di nato vivo non basta, è un criterio primordiale, perché, come detto, porterebbe a rianimare feti di 17 settimane. Occorre riflettere sulla diagnosi di capacità di vita che è molto diversa da quella di nato vivo.

Chi decide per il neonato? La vogliamo finire di raccontare le bugie ai genitori? Nei 2/3 dei casi, per questi bambini, il tempo di informare, parlare, far capire, accogliere, digerire c’è. Eccome! Nei 2/3 dei casi queste sfortunate gravidanze che andranno a terminare tra le 22 e le 25 settimane arrivano all’osservazione dell’ostetrico settimane o giorni prima del parto. Basta volere, e il tempo c’è.
La Costituzione e il codice civile richiamano ai doveri dei genitori riguardo alla salute dei figli. Il richiamare ad un dovere, presuppone la presenza di diritti e quindi di facoltà. Quindi i genitori hanno la facoltà di prendersi responsabilità sulla vita dei figli. E come è possibile che questa facoltà riguardi le vitamine e gli antibiotici e non le cure importanti, gravose, come le cure intensive neonatali? Non si tratta, si badi bene, del padre testimone di Geova che nega la trasfusione al figlio, trasfusione che è un salvavita, la cui efficacia è testata e garantita. Le nostre terapie non sono «salvavita», come il documento del Cnb presume. Siamo di fronte a terapie non validate scientificamente, quasi sempre (soprattutto a 22-23 settimane) non fruttuose, e, spesso, con potenziali lesivi enormi. Non solo, ma l’articolo 32 della Costituzione richiama il diritto all’autonomia del paziente, che è anche uno dei basilari princìpi di bioetica. L’enorme mole di regole che disciplina il consenso all’atto medico regola tale dettame bioetico, fondamento di ogni Stato moderno, democratico che rispetta la libertà e la dignità di ogni individuo. Come mai il neonato non ne ha diritto? Dove sta il richiamo allo stato giuridico del neonato che i documenti del Css, del Cnb e dei ginecologi romani si sono permessi di farci? Chi tutela il diritto del neonato all’autonomia? Dov’è la sua libertà? Semplicemente nel riporre tutto nelle mani del primo medico che incontra nel suo cammino verso la vita, medico che, per quanto bravo e rispettoso della legge, è sempre e solo il primo medico, che la mattina dopo se ne andrà a casa e, soprattutto, in pieno conflitto di interessi visto che è anche intitolato ad erogare l’assistenza?
Mi dispiace, ma proprio l’esser persona del neonato richiede la tutela della sua autonomia che, in ogni Stato civile, è garantita dai genitori. Laddove il medico ritenga che i genitori non agiscano nell’interesse del proprio figlio (ma succede?), ha il dovere di far riferimento al giudice che valuterà se prendere quella gravissima decisione che è sospendere la potestà genitoriale e nominare un tutore per il bambino, che non sarà necessariamente quel medico. Solo in condizioni di assoluta emergenza, di fronte ad un pericolo attuale, il medico potrà agire autonomamente anche contro l’autorità genitoriale. In tutte le altre situazioni è necessario il via libera del tribunale.
In realtà, tutti questi documenti hanno avuto un merito, indiscusso: hanno finalmente portato alla luce atteggiamenti da sempre mascherati che fanno parte dell’antico «paternalismo medico» che, se ha avuto un significato nei millenni passati, adesso non ha più alcuna ragion d’essere. Il medico moderno si pone come un professionista che si orienta su un sospetto clinico, propone un iter diagnostico, arriva a una diagnosi e propone uno spettro di terapie, illustrandone benefici e svantaggi, aiutando il suo paziente ad arrivare a una decisione autonoma in piena libertà intellettuale. La gente non vuole «esser curata» ma vuole qualcuno che l’«aiuti a capire come curarsi». Questo è un atteggiamento moderno e realistico. Ma non tutti evidentemente la pensano così. Sui giornali di questi giorni c’è chi confessa che «finalmente ci si è svincolati dal parere vincolante dei genitori», ci sono pietosi richiami al paternalismo medico. Ancor più grave è la presunzione e l’arroganza che emerge. Inutile dire che tali atteggiamenti, oggi ufficializzati dai documenti del Cnb, Css e dei ginecologi romani, ci pongono completamente al di fuori di tutti i paesi civili. E se un bel giorno, un padre e una madre con le spalle forti portassero la questione di fronte alla Corte di giustizia europea?

Cosa fanno negli altri paesi? Molti paesi si sono espressi con raccomandazioni di comportamento per medici e genitori per l’assistenza al parto in età estremamente pretermine, col fine di evitare accanimenti inutili e di offrire anche al piccolissimo un approccio basato sulle evidenze. Sono tutti pazzi? Solo noi abbiamo capito la vita, l’uomo, il mondo? Tutti i paesi che cito vogliono uccidere i propri bambini? È bene che chi ci legge tragga le proprie valutazioni. I documenti del Cnb, del Css e dei ginecologi romani si pongono come unici nel panorama internazionale. Siamo ridicoli. Solo noi non individuiamo età gestazionali in cui l’intervento terapeutico sia auspicabile o no, in cui le cure palliative abbiano una indicazione principale o no, e, vergogna tra le vergogne, solo noi riteniamo che i genitori debbano esser saltati a piè pari. La Carta di Firenze era l’occasione per redimersi sul piano internazionale, per mostrare che, seppure con molto ritardo, anche noi volevamo una medicina umana, a misura di bambino, rispettosa del dolore del piccolissimo e dei suoi genitori, difensiva verso il lavoro di medici e infermieri, protettiva da una medicina di aggressione, di tecnologia, dettata dall’industria, dall’impiego di risorse e quattrini. L’accanimento terapeutico è, in realtà, ben pagato, ma non punibile, purtroppo, in tribunale.
La Carta di Firenze è stata saltata a piè pari, riportandoci all’oscurantismo che imperava in Italia e che continuerà a imperare imperterrito. Ognuno farà quello che crede, in piena notte, da solo, incurante perfino dei genitori. Mi auguro in buona fede. Ma è sufficiente la buona fede del medico ai bambini italiani, o non sarebbe meglio il conforto della buona fede di un medico aggiornato che basa le sue scelte sui dati della medicina dell’evidenza? Al lettore le conclusioni nel paragone con tutti gli altri paesi del mondo. tutti individuano una zona dove sono indicate le sole cure palliative (non abbandono, ma scelta terapeutica): le 22 settimane; una zona in cui sono indicate le cure intensive: le 25 settimane; ed una zona cosiddetta «grigia», non una zona in cui «non si sa che fare», come dicono vari colleghi, ma una zona nella quale l’appropriatezza delle scelte mediche è talmente discutibile ed incerta che diventano preponderanti i desideri dei genitori, debitamente informati. La posizione italiana è incredibilmente anche contro le ben più comuni raccomandazioni dell’Ilcor, l’organizzazione internazionale che riunisce tutti gli esperti di rianimazione neonatale del mondo e che, in tutto il mondo, insegna i modi, i tempi, gli scopi della rianimazione neonatale. Ilcor che raccomanda le «sole cure palliative sotto le 23 settimane» e la precedenza al volere di genitori correttamente informati per i neonati tra le 23 e le 24 settimane. Come faranno tutti i neonatologi italiani a mettersi contro le raccomandazioni della più importante organizzazione di studi sulla rianimazione neonatale del mondo?

L’interruzione di gravidanza e il parto pretermine. La Carta di Firenze, come tutti i documenti analoghi del mondo, non considera l’interruzione di gravidanza. Semplicemente perché tale paragone, di cui si è appropriato il dibattito italiano, non ha base scientifica. Innanzitutto, il bambino frutto di interruzione di gravidanza è portatore di gravissime anomalie. Se così non è, vuol dire che c’è stato un errore. E le leggi ed i regolamenti non si fanno per gli errori, quindi questo problema non ci interessa. Nel caso della grave anomalia, invece, la capacità di vita non è la stessa. Il prematuro, inoltre, viene da una gravidanza curata, voluta, ed ha, quindi, ulteriori maggiori probabilità di vita. Già questi due aspetti fanno dei due bambini due esseri completamente diversi. Paragonarli da un punto di vista clinico è assolutamente ridicolo. Anche in questo siamo un caso unico sul piano internazionale. Non credo sia stato casuale portare il dibattito su questo argomento e confondere così chi ci ascoltava. Il discorso esula dall’articolo che sto scrivendo per cui non lo tratterò. Basti quanto detto a far riflettere, oltre al buffo aspetto che i sostenitori del termine cronologico per l’interruzione di gravidanza sono gli stessi che non vogliono accettare termini cronologici per la rianimazione dei neonati.
Stiamo parlando di uno dei capitoli della medicina più complessi e difficili, per il quale molte opinioni possono essere considerate valide e proponibili. Il dibattito è importante e le posizioni sempre accettabili. Con un’eccezione: quella di chi, per pregiudizi, ignoranza, poca intelligenza e poca preparazione, vuol riportare al nulla le attuali conoscenze, vuol riportarci al medioevo della medicina. Quelle di chi dice che poco si sa e quindi va bene tutto. Ponendo nelle mani del medico ogni decisione, fatto salvo citare poi quel medico in giudizio. Quelle di chi giustifica la propria ignoranza con una finta scienza per cui «a tutti deve esser data una chance», annullando gli unici dati certi, come la predittività dell’età gestazionale per la prognosi. Una chance va data a tutti, certo, ma a tutti quelli che la meritano in termini biologici e che la possano sopportare. A tutti gli altri va invece porta la mano e fornito il conforto nell’ora della morte, con l’assunzione di responsabilità che la nostra professione richiede di fronte alla società, ai bambini, alle madri. Conforto che non vuol dire «abbandono terapeutico» ma cambio di programma di cure: le cure confortevoli.
«Rianimare tutti ma senza cadere nell’accanimento» non vuol dire nulla. Non c’è alcuna novità in tale affermazione. Ci bastava il nostro codice di deontologia medica. Se non si definisce cos’è accanimento, e a questa età lo possiamo definire, quest’affermazione non ha senso. Occorre riflettere, e subito, sui messaggi mediatici. Dove è finito il bambino di 21,6 settimane «superprematuro ma sta bene»? Come mai chi ha pubblicato questa notizia non ha anche pubblicato quella della sua morte? Quante donne dovranno ancora illudersi su una speranza di vita? «Il dolore di una madre squarcia l’universo» dicono i cinesi. Scopo della Carta di Firenze era limitare, per quanto possibile, questo dolore. Non dobbiamo spaventarci in questa ora di recessione, di fronte alla prepotenza e all’aggressività dell’ignoranza, di fronte alle offese di chi parla così male delle donne, di chi non ci conosce, di chi non ha capito quanto ci teniamo al nostro corpo, quanto lo conosciamo, quanto teniamo ai nostri figli. Dobbiamo incassare il colpo, ben sicure sulla nostra strada, fatta di conoscenza, di validità scientifica, del conforto dei comportamenti suggeriti da mezzo mondo, del coraggio che dà il supporto scientifico acquisito attraverso anni di studio e non attraverso sfarfallii di campagne elettorali, e anche della consapevolezza che in un paese come il nostro si va avanti, purtroppo, a colpi di sentenze visto che le leggi sono spesso contraddittorie (vedi la legge 40).
Aspettiamo la voce dei genitori, di chi ha il diritto e il dovere di dire la sua, senza delegare, riappropriandosi del proprio bambino, della propria famiglia, della propria vita, difendendo la propria aspettativa di felicità, la propria compagna, il proprio impegno nella continuità della vita nel mondo. Anche perché l’alternativa, di fronte alla chiusura e all’ignoranza della medicina, è uscire dagli ospedali. Come già sta accadendo. Di fronte ad alacri e arroganti medici «col tubo in mano», convinti di sapere qual’è il bene di nostro figlio pur in un campo in cui «nessuno» nel mondo lo sa, padroni incontrastati, l’unica alternativa è scappare, tornare a partorire (o a perdere il bambino) in casa, o in ospedali lontani, laddove la sperimentazione della tecnologia non è ancora entrata.
Perché la lotta contro le donne è una lotta persa, possono farci del male ma non possono vincere. I bambini continueranno a nascere dentro di noi, ad esser protetti dal nostro grembo e dalla nostra mente, nel frattempo andrà avanti la nostra consapevolezza.

(24 novembre 2008)


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Se la vita ti sorride,ha una paresi.(Paco D'Alcatraz)

Il sonno della ragione genera mostri. (Goya)

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Querdenker evangelico anticonvenzionale del 1° secolo. "Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam!" g.b.--In nece renascor integer ./Satis sunt mihi pauci,satis est unus,satis est nullus. Seneca-Ep.VII,11


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Questo articolo a suo tempo lo lessi. E' meraviglioso, dice tutto quello che i neonatologi italiani NON possono dire alla stampa.
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