Sarà vero che Dio giudicherà "secondo giustizia"?
“La giustizia divina è infinitamente superiore a quella umana perché, a differenza di questa, conosce la misericordia: all’ultimo momento anche il peccatore più incallito può salvarsi, mentre la giustizia umana esige che ogni colpa venga espiata; e lo stesso vale per la legge induista e buddista del karma”.
È questa una tesi cristiana che si sente riaffermare spesso. La prima considerazione che si può fare è che essa configura un certo narcisismo da parte di Dio: se il peccatore lo ossequia dichiarandosi pentito di averlo offeso, lui chiude un occhio sulle sue colpe, rinunciando a condannarlo.
Ma, soprattutto, la giustizia divina ha un grande difetto rispetto a quella umana: non conosce la gradualità delle pene.
Istituisce una dicotomia radicale salvezza/dannazione, contrapponendo assurdamente il discreto della remunerazione al continuum del peccato.
In termini più semplici: mentre le anime si possono disporre, secondo la gravità delle colpe commesse, in una scala graduata con innumerevoli “posizioni” tra loro vicinissime, il giudizio divino prevede solo due verdetti, ossia l’assegnazione di ciascuna anima all’inferno o al paradiso.
Ciò significa che Dio a un certo punto traccia una linea di divisione, e chi si trova anche solo di un niente da una parte della linea sarà eternamente beato, mentre chi, benché vicinissimo, si trova appena dall’altra parte sarà eternamente dannato.
Facciamo un esempio concreto. Rubare un dollaro è certo peccato veniale. Rubare 10 milioni di dollari è certo peccato mortale. Se questo è l’ultimo peccato che io commetto prima di morire, avendo in precedenza l’anima pulita (sicché tutto dipenda dalla valutazione di questo peccato); supponendo uguali nei due casi le circostanze concomitanti (ad esempio la consapevolezza e l’intenzionalità: “piena avvertenza e deliberato consenso”), sicché sia determinante l’ammontare della somma rubata;
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