Amin, giovane regista afghano su cui pende una fatwa degli studenti coranici

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kelly70
00mercoledì 28 novembre 2007 14:04


Fino a due mesi fa era Amin, giovane regista afghano, giornalista di una televisione indipendente di Kabul, in Italia per presentare il suo cortometraggio alla Mostra del Cinema di Venezia e al Milano Film Festival. Di colpo è diventato un profugo, «un uomo morto che cammina», almeno secondo la fatwa che i talebani hanno ordinato nei suoi confronti. Così la vita di Amin, i suoi studi all’Academy Art, il suo lavoro all’Ariana Television Network di Kabul, la sua militanza per i diritti umani e per la democrazia in Afghanistan si sono fermati a Milano.Bloccato fra il Centro di accoglienza di viale Fulvio Testi e la Mediateca di via della Moscova, Amin fa l’unica cosa che gli è rimasta da fare: scrivere il suo blog. «Ero venuto in Italia ad agosto, con un biglietto di andata e ritorno – racconta il venticinquenne –. Ma pochi giorni prima della mia partenza per Kabul mi hanno avvertito con una e-mail che i talebani avevano ordinato la mia morte. Ero già stato minacciato dagli estremisti varie volte, per il contenuto dei miei servizi radiofonici e televisivi, ma non ci volevo fare caso. Questa volta, però, hanno mandato un ordine di uccisione via posta a casa mia: “ti accoglieremo a Kabul con un kamikaze carico di esplosivo”. Hanno tempestato di telefonate minatorie i miei genitori, che sono dovuti scappare da Kabul a Bamyan, coperti da un burqa, per non essere riconosciuti. Da allora ho perso le loro tracce e non so nemmeno se sono vivi».
Nella sua improvvisa condizione di rifugiato senza identità, Amin ha dormito per le strade di Milano, ha fatto la fila all’ufficio immigrati della Questura, ottenendo asilo politico per sei mesi, ha dovuto presentare, oltre al passaporto e alla sfilza di documenti utili per venire in Italia, l’unica prova che lui non è un accattone: il suo cortometraggio «Treasure in the ruins», che lo ha portato ai festival del cinema di Venezia e Milano. Racconta la storia di una bimba afgana, che, affascinata dalla favola di un tesoro nascosto, si mette alla ricerca del bottino, ma trova solo rovine, orrore e distruzione. […]
Amin, invece, ha voglia di essere riconosciuto, di ritrovare la sua identità di regista, militante, giornalista, che aveva prima di rimanere imprigionato in Italia. Si chiude nell’ormai logoro doppiopetto con cui ha varcato il Lido di Venezia e non accetta un giubbotto per scaldarsi, non un invito a pranzo. Non vuole perdere la sua dignità e nel suo blog, dalla Mediateca di Milano, lancia un solo appello: «Voglio continuare i miei studi di cinema e concludere il mio film “Keys to paradise”. In un modo o nell’altro lo girerò, promesso».

Fonte: Corriere

www.corriere.it/cronache/07_novembre_26/regista_afghano_prigioniero_milano_f0653856-9c32-11dc-84ae-0003ba99c5...
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