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Parola di scienziato miscredente: “La matematica è un esempio archetipico di pensiero razionale e il Cattolicesimo, per il suo dogmatismo, tra tutte le religioni è la peggiore e la più anti-scientifica”

La scienza non ha tutte le risposte. La fede non presuppone le domande. La ragione non ha né domande né risposte, ma si limita a tentare di mettere ordine nell’oceano delle incertezze. La ricerca chiede libertà ma si accontenterebbe anche solo di qualche euro… La libertà dal canto suo non ha quasi mai ragione, e basta guardare in giro per il mondo per rendersene conto. E infine il progresso, che proprio sulla libertà, la ricerca, la ragione, e dunque la scienza, dovrebbe porre le sue basi, è troppo spesso esclusivamente concentrato nel cercare buone ragioni e nuovi mezzi per peggiorare questo pianeta e aiutarci a inondarlo di sangue.

Cosa dobbiamo aspettarci dalla Scienza? Quali sono le sue opportunità, i suoi orizzonti, ma anche i suoi limiti e i suoi lati oscuri? E di cosa ha bisogno la Scienza per vivere e andare avanti? Domande alle quali ci sarebbero migliaia di ragioni per dare risposta. Ma che non abbiamo, non troviamo. E nelle quali tra poco nemmeno spereremo più.
Libertà, Progresso. Una Ragione in più per compiere una scelta di campo: confidiamo nella Dea Ragione? Non ci ha mai portato troppo lontano, ma forse è l’unica cosa che ci è rimasta per difenderci dall’oscurità da cui spesso ci sentiamo avvolti.

Buongiorno prof. Odifreddi. Qual è in Italia il rapporto tra scienza e libertà?

In Italia abbiamo molto poca libertà di ricerca scientifica. Per due motivi contrapposti ma forse, anche, complementari.
Uno è, diciamo così, prosaico, ed ha a che fare con i finanziamenti da una parte e con la struttura degli enti che hanno a che fare con la ricerca, dall’altra. Intendo dire che da noi è molto scarso l’interesse nella ricerca, e basta vedere tutte le polemiche e le traversie attraverso le quali sono passati gli enti di ricerca. Primo fra tutti il Cnr, che è stato commissariato. Diciamo che l’ambiente di ricerca non è particolarmente favorevole. Non lo è nemmeno nelle Università, dove c’è poi una specie di schizofrenia tra la carriera del professore universitario, che dovrebbe essere fatta soltanto in base alla ricerca, e dall’altra parte gli obblighi universitari, che sono obblighi puramente di insegnamento. Soffriamo di una strana mistura tra insegnamento e ricerca, che c’è ovviamente ovunque nel mondo ma da noi i due aspetti sono completamente separati: la ricerca serve a far carriera e l’insegnamento serve a guadagnarsi il pane. Sono due aspetti staccati e infatti non è un caso che i nostri scienziati scappino molto volentieri. Ricordo per esempio che i quattro premi Nobel italiani viventi nelle materie scientifiche – ne abbiamo cinque di premi Nobel, uno però è per la letteratura: Dario Fo – due nella fisica, Rubbia e Giacconi, e due nella medicina, la Montalcini e Dulbecco, hanno tutti ottenuto il premio per delle ricerche compiute all’estero. E questo qualcosa vuol dire: innanzitutto vuol dire che non c’è alcuna preclusione di tipo genetico degli italiani per la ricerca. E questo è il primo motivo: l’organizzazione dell’Università e della ricerca.

Secondo motivo, che appunto dicevo complementare, è l’enorme interferenza che non si può dire della politica, perchè è direttamente della religione. Che però poi passa evidentemente attraverso i filtri della politica, dei partiti celericali. Di partiti clericali in Italia ce ne sono sempre stati, a partire dalla Democrazia cristiana, e continuano ad esserci. Questi intralci si verificano regolarmente: basti pensare al referendum sulla procreazione assistita. E sono intralci gravi che non favoriscono il lavoro della ricerca.

Quindi abbiamo, da una parte, la noncuranza o l’incapacità della politica nell’aiutare la ricerca, e dall’altra parte gli intralci diretti che la Chiesa pone e che poi vengono risuonati da tanti partiti. È chiaro che alla fine tutto questo penalizza la scienza e la ricerca, e non è un caso che fra gli italiani ci siano così pochi premi Nobel.

Questo discorso ci fa tornare alla memoria una famosa frase di Bertrand Russell del 1930 – quindi più che profetica! – che diceva “di fronte alla porta del progresso c’è un drago di guardia, e questo drago è la religione: per accedere al progresso bisogna prima abbattere il drago”.
Non posso far altro che inchinarmi di fronte al maestro Russell che queste cose le ha dette spesso e volentieri e che ha scritto un libro che si intitola Perchè non sono cristiano...

È tratta precisamente da lì questa citazione...
E tra le tante motivazioni riporta proprio questa: il fatto che la religione sia un intralcio non soltanto alla ricerca ma più in generale al pensiero razionale...


Lei mi invita a nozze perchè il primo marzo uscirà il mio nuovo libro che è ispirato a quello di Russell fin dal titolo, “Perchè non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)”. Ed è un’analisi – naturalmente, fatta prima da Russell e poi ben più modestamente da me – del fatto che di religioni ce ne sono tante ma non tutte sono contraddittorie con il pensiero scientifico e con la ricerca tecnologica. Perché il Buddhismo, o quantomeno il Buddhismo tibetano, sembra essere l’esatto contrario: il Dalai Lama si incontra regolarmente ogni paio d’anni con ricercatori e scienziati di tutto il mondo e si vede come quella sia una religione non in contraddizione con lo spirito scientifico, una religione che fa esperimenti su stessa. È vero però che anche Giovanni Paolo II nel suo libro, parlando del Dalai Lama, diceva “sì, quello lì io lo conosco bene: non è certamente una persona religiosa”. Cioè, in altre parole, i nostri religiosi considerano quelle religioni lì, che sono più vicine alla scienza, come delle non-religioni. E forse fanno bene...

Dunque, mentre ci sono delle religioni piuttosto compatibili con il pensiero scientifico, ce ne sono altre che non lo sono. In particolare le religioni rivelate, cioè l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, mi sembra che vadano poco d’accordo con il pensiero scientifico. Il fatto di pensare che ci sia un libro che contiene la verità definitiva e che quindi ad esso bisogna ispirarsi invece di guardare il mondo e cercare di scoprire pian piano qual è la verità – magari con la v minuscola – fa sì che ovviamente si crei un’incompatibilità con l’impresa scientifica. La rivelazione in quanto tale è in contrasto con tutti coloro che invece pretendono di cercare la verità nella ricerca.

Di tutte le religioni rivelate – e sono tante se pensiamo che anche all’interno del cristianesimo ci sono varie facce – credo che il cattolicesimo sia la peggiore di tutte perchè a differenza di altri ceppi e anche in un certo modo dell’ebraismo, è una religione essenzialmente dogmatica. E questo è l’esatto contrario dello spirito scientifico: che qualcuno tenti di imporre la propria verità perchè glie l’ha detta Dio o perchè l’ha vista chissà dove, o perchè l’ha letta nel Libro, è il contrario di quello che fanno gli scienziati che invece cercano, piano piano, innanzitutto facendo esperimenti, e basandosi sui fatti, e poi usando dimostrazioni e ragionamenti...

Quindi, sicuramente la religione è un drago. Cerca di impedire il progresso della scienza e lo ha sempre fatto fin dagli inizi. Perchè la scienza occidentale, moderna, è nata da Galileo e appena è nata la scienza in Italia abbiamo visto subito che Galileo è stato processato, Giordano Bruno è stato arso vivo, Campanella è finito in galera per trent’anni... Insomma, c’è stata immediatamente una reazione (da parte della Chiesa, ndR) perchè si capiva benissimo che le due imprese, la religione e la scienza, erano contrapposte fra di loro. E la cosa è andata avanti e continua ad andare avanti: poi c’è stato il darwinismo, naturalmente avversato anch’esso, nell’Ottocento e ancora ai nostri giorni. Infine. oggi ci sono le biotecnologie... È quindi certamente molto difficile riuscire a fare scienza e ricerca libera in un Paese che è ancora cattolico. E questo gli scienziati lo sperimentano quotidianamente.

Per fare un esempio: due anni fa, per il referendum sulla procreazione assistita, i due campi erano chiaramente disposti. Da una parte c’erano praticamente tutti gli scienziati italiani – dico praticamente tutti perchè poi ci sono sempre personaggi isolati come Dallapiccola o Vescovi, che con quel nome non poteva fare altro che essere schierato dall’altra parte – con i due premi nobel, Dulbecco e la Montalcini, come testimonial, mentre dall’altra parte c’erano i religiosi, i clericali, e i loro testimonial erano il cardinal Ruini e il nuovo papa Benedetto XVI. Questo è il mondo che ci troviamo di fronte in Italia: da una parte i premi Nobel e dall’altra parte cardinali e papi.

Parlando di politiche per la scienza, qual è il punto di vista dello scienziato e quanto si discosta da quello del politico?

Beh, le esigenze della ricerca sono molto varie. Ci sono ricerche che, per esempio, toccano temi molto sensibili eticamente, e in quei campi l’influsso o il controllo, o forse l’indirizzo è la parola migliore, non solo credo sia possibile ma forse anche dovuto. Non mi riferisco soltanto alle ricerche alle quali abbiamo già accennato, come le staminali, ma anche ad altre, di cui forse si parla poco perchè sono perfettamente integrate nel sistema politico, però non meno preoccupanti, e che sono le ricerche sugli armamenti.

Mi diceva il premio Nobel per la pace Rotblat, morto un anno o due fa, che la maggioranza degli scienziati mondiali lavora a ricerche direttamente o indirettamente collegate agli armamenti. Quindi è chiaro che se la scienza ha anche questi risvolti, che non dobbiamo né tacere né far finta di non vedere, allora un indirizzo politico è necessario. Certo però la politica cerca di spingere, o di tirare, gli scienziati verso queste ricerche, invece di bloccarle. È un po’ una specie di paradosso: gli scienziati finiscono spesso per essere dei collaborazionisti del potere politico, come d’altra parte diceva già Bertolt Brecht nella sua Vita di Galileo: nell’ultima edizione Galileo veniva presentato appunto come il traditore che aveva accettato di piegarsi – in quel caso era potere della Chiesa – al potere politico dell’epoca.
Si parla molto spesso di biotecnologie e si parla molto meno di ricerche sugli armamenti: e credo che questo sia un problema molto preciso e grave.

Quando usiamo i termini libertà e progresso, relativamente al discorso scientifico, si pone il problema di quale accezione di queste parole stiamo utilizzando. Da scienziato, quando lei usa i termini libertà e progresso, a quale accezione fa riferimento?

Pasolini distingueva tra sviluppo e progresso e noi spesso confondiamo scienza e tecnologia: sono cose abbastanza collegate ma anche sostanzialmente diverse. La tecnologia spesso precede la scienza: prima si è inventato il cannocchiale e poi si è sviluppata la relativa teoria... Sviluppo e progresso non sono sinonimi: il progresso ha una connotazione positiva e indica un andare avanti, qualcosa di utile per l’umanità; lo sviluppo è semplicemente fare di più di quello che si faceva prima, ma non necessariamente di meglio. Credo che la tecnologia abbia più spesso a che fare con lo sviluppo che non con il progresso: si costruiscono, si inventano, si producono tantissime cose spesso molto poco utili. La scienza è un’impresa molto sfaccettata: non è detto che tutto ciò che è scientifico sia anche necessariamente positivo.
E anche quando si parla di libertà bisogna stare attenti: la libertà per essere vera dev’essere assoluta, ma se poi libertà significa sviluppare armamenti sempre più potenti, forse si può anche permettere una sua limitazione. Lo scienziato si sente sempre naturalmente seccato quando qualcuno gli impone o cerca di imporre dei limiti alla sua ricerca. Ma bisogna capire che spesso è perché queste ricerche hanno degli effetti diretti sul benessere della popolazione – o sul malessere nel caso degli armamenti – e allora la libertà va limitata. La libertà assoluta è semplicemente lassismo: la libertà deve avvenire all’interno di regole.

Occorrerebbe un concerto tra lo scienziato da una parte e la politica dall’altra. Perchè, di per sé, lo scienziato è irresponsabile, ma nel senso buono del termine: perchè quello che fa lo scienziato non ha direttamente una valenza etica... Si inventa il coltello, ma poi questo coltello può essere utilizzato per tagliare la bistecca a tavola o per tagliare la gola del vicino: l’etica non è dentro il coltello ma è nel suo uso. È chiaro però che quando si parla di armamenti diventa molto difficile pensare che possano essere usati in maniera eticamente positiva: forse ci sono cose che andrebbero abolite completamente, a partire dalle armi nucleari.

Ultima domanda, più personale se lo permette. Lei ha avuto, se mi passa la metafora scherzosa, una specie di “conversione”: prima era uno scienziato che si rivolgeva esclusivamente alla comunità scientifica in termini molto tecnici e specialistici, e i suoi libri non avevano volontà divulgative per la cosiddetta massa; ad un certo punto ha deciso di cambiare radicalmente rotta e si è rivolto ad un pubblico più vasto, di massa per così dire, affrontando temi prima non toccati e con un approccio divulgativo. Cosa è successo?

È un percorso ovviamente graduale: può capitare che uno ad un certo punto pensi che le ricerche e gli studi che ha fatto durante la vita possano avere delle ricadute più generali. Io per esempio studiavo logica matematica, e più specificatamente i teoremi di limitatezza e incompiutezza della matematica, che fin dagli anni Trenta hanno sempre avuto delle ricadute filosofiche più generali che vanno oltre l’aspetto tecnico ed immediato. Quindi ho cominciato a fare divulgazione su questi aspetti che erano i più vicini alla mia ricerca. Poi, piano piano, uno comincia a scrivere sui giornali più specialistici, e poi si avvicina ai quotidiani, alla radio, alla televisione. E lì le cose si allargano perchè è ovvio che uno non può parlare sempre degli aspetti più tecnici...

Però credo che ci sia un percorso abbastanza naturale in quasi tutti gli scienziati – anche se non tutti hanno la voglia o il talento per farlo – perchè la matematica, come diceva un grande matematico di inizio secolo, Hardy, è uno sport da giovani. E così come un calciatore che da giovane gioca e poi, quando invecchia, comincia a fare l’allenatore, o il critico sportivo, oppure, come nel caso di Rivera, finisce in Parlamento, per il divulgatore accade la stessa cosa: da giovane fa ricerca ma quando poi la tensione e l’attenzione della ricerca cominciano a scemare, arriva la voglia da una parte di tirare un po’ i remi in barca e dall’altra di allargare il proprio campo di riferimento, per non parlare sempre di cose che possono capire solo 20 o 50 persone al mondo. E poi si pensa, specialmente nel mio campo, che ci siano effettivamente delle cose che interessano un pubblico più vasto: la matematica, se vogliamo, è un esempio archetipico di pensiero razionale. È l’impianto della matematica che può servire all’uomo comune – se vogliamo chiamarlo così – per capire che il pensiero matematico, la lucidità del suo ragionamento, può essere qualcosa di utile, diciamo, in assoluto.
Poi, c’è da considerare che da noi in Italia si fa poca divulgazione. Quindi diventa più visibile la piccola quantità di scienziati che se ne occupa – siamo quattro o cinque tutto sommato. Mentre all’estero, e soprattutto nei paesi anglosassoni, c’è una grandissima tradizione. Questo è in generale ciò che agli scienziati accade di voler fare: estrarre la parte più filosofica e teorica del proprio lavoro, lasciando da parte quella più tecnica.

Ma nel suo caso c’è stato anche un motivo più privato: la contrapposizione con quello che forse all’epoca era l’unico scienziato, o pseudo-tale, che faceva divulgazione. Il riferimento è ovviamente a Zichichi. E lei si è chiesto come mai in Italia la voce della scienza alla gente doveva venire solo da una persona che divulgava clamorose fesserie...
Temo di doverla deludere su questo. Perchè Zichichi lo conoscevo solo come nome, proprio perchè scriveva sui giornali e andava in televisione. Però, guardando poco la televisione e leggendo poco i giornali, lo conoscevo quasi solo esclusivamente, appunto, come nome. Quindi di partenza non c’è stata la volontà di dire “questo dice troppe stupidaggini e allora tentiamo di fare un po’ meglio, e non sarà difficile...” È stato soltanto in seguito, quando ho cominciato a scrivere i miei libri, che capitando in libreria ho visto un libro sull’Infinito scritto da Zichichi. E ho detto “toh, guarda”... Credevo che fosse un fisico e ho capito solo dopo che mi sbagliavo. Quando infine ho trovato delle sue pubblicazioni di divulgazione su temi matematici, ho avuto la curiosità di vedere cosa diceva... A quel punto mi sono messo le mani nei capelli.

Certo, ci sono tanti modi di fare divulgazione e ognuno ha il suo stile – come diceva Buffon: “Le style est l'homme” – e io spero di avere uno stile diverso da quello di Zichichi. E se posso dire – tra l’altro mi sono preso già un paio di denunce da parte sua, perchè non è abituato a sentirsi dire queste cose – oltre ad essere un cattivo divulgatore è anche un cattivo esempio: abbiamo parlato prima di questa contrapposizione tra scienza e religione, e mentre la maggior parte degli scienziati sono appunto atei e agnostici perchè sanno che il loro lavoro è incompatibile con la religione, e in particolare con quella dogmatica del cristianesimo e del cattolicesimo, Zichichi fa un po’ il portavoce di un’idea di compatibilità tra religione e scienza... È una cosa un po’ contraddittoria: lo scienziato amico del Papa e di Andreotti!
Certamente, come esempio è importante, ma come esempio negativo.
La ringrazio molto
Ehehehehe... - ride - Bene.

lalente.net
di Alteredo



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