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Lorenzo Valla


Valla: La falsa donazione di Costantino


La cosiddetta Donazione di Costantino era il documento su cui per secoli la Chiesa di Roma aveva fondato la legittimazione del proprio potere temporale in Occidente. Si attribuiva infatti all’imperatore Costantino la decisione di donare al papa Silvestro i domini dell’impero romano d’occidente. Bisognò attendere il XV secolo per sconfessare filologicamente quella presunta donazione. Fu il grande umanista Lorenzo Valla che nel 1440, intervenendo a proposito dell’ingerenza pontificia riguardo la successione sul trono del regno di Napoli, denunciò la falsità del documento con una memorabile dissertazione, il De falso credita et ementita Costantini donatione declamatio. Con le armi dell’analisi linguistica e argomentazioni di tipo storico-giuridico Valla dimostra che l’atto era stato confezionato nelll’VIII secolo dalla stessa cancelleria pontificia.
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Edizione cartacea di riferimento

La falsa Donazione di Costantino, Discorso di Lorenzo Valla sulla Donazione di Costantino da falsari spacciata per vera e con menzogna sostenuta per vera, a cura di Gabriele Pepe, Ponte alle Grazie, Firenze 1992 - TEA 1994



I.
1. Piú e piú libri ho io pubblicati intorno a quasi tutte le discipline. In essi dissento da autori grandi e stimati per la loro vetustà; il che mal sopportando alcuni, mi tacciano di temerario e sacrilego. Che si deve credere che faranno ora come strepiteranno, con qual bramosia e sollecitudine mi trarranno al supplizio di morte, se sarà loro concesso? Ora che io non scrivo solo contro i morti, ma anche contro i vivi; e non contro uno o due ma contro moltissimi; non contro privati ma anche contro magistrati. E quali magistrati! Proprio quel sommo pontefice, che non solo a mo’ di re o signore è armato di spada temporale, ma anche di quella ecclesiastica; da lui non puoi difenderti riparando sotto lo scudo (per cosí dire) di sovrano alcuno, perché ti raggiunge o la scomunica o l’anatema o l’infamia. Se agí con prudenza chi disse: non voglio scrivere contro coloro che possono proscrivere, quanto piú non dovrei essere prudente io scrivendo contro chi, senza lasciar riparo alle proscrizioni, può perseguitarmi dovunque con i dardi invisibili della sua potenza? Ben a ragione potrei dire: dove andrò lontano dallo spirito tuo e dove fuggirò lontano dal tuo volto? Potremmo pensare che il sommo pontefice voglia sopportare questi miei attacchi con piú pazienza che altri non farebbe.

2. Non lo credo punto. Anania, capo dei sacerdoti, fe colpire sul viso Paolo perché avveva detto di aver vissuto con retta coscienza, al cospetto del tribuno militare che sedeva come giudice. Phasur, anch’egli sommo sacerdote, buttò in carcere Geremia perché aveva parlato con troppa libertà. Il tribuno, prima e il preside, poi, difesero Paolo; il re (Nabucco) poté e volle difendere Geremia contro le offese del pontefice: me invece, quale tribuno, quale preside, quale re potrebbe strappare, ammesso che lo volesse, dalle mani del papa una volta che mi abbia preso? Ma codesti due esempi del pericolo (che si corre nel parlare liberamente) non debbono né turbarmi né distrarmi dal mio proposito: prima di tutto il papa non può legare o sciogliere alcuno a dispetto delle leggi umane e canoniche; poi, il perdere la vita nella difesa della verità e della giustizia, è segno di altissima virtú e ci ottiene le piú grandi lodi e premi. Molti affrontarono la morte in difesa della patria terrena; io paventerò il rischio di morte quando posso meritarmi la patria celeste, che appunto ottengono quelli che vogliono piacere a Dio, non agli uomini? Lontana ogni trepidazione; la paura se ne vada; i timori cadano. La causa della verità, della giustizia, di Dio si difenda da me con animo forte, con grande fiducia, con buone speranze. Non sarebbe, infatti, vero oratore chi sapesse parlare bene, se non osasse anche di parlare (contro i potenti). Accusiamo, pertanto, chiunque commette azioni tali da essere accusate. Chi pecca a danno di tutti, sia morso dalla voce di uno solo che parli, però, in nome di tutti.

3. Ma – si potrebbe dire – non devi rimproverare il fratello davanti a tutti, ma a quattro occhi. Al contrario: davanti a tutti, perché gli altri ne traggano un salutare timore, deve essere rimproverato chi peccò pubblicamente e non volle ascoltare consiglio nell’intimità. Che forse Paolo, delle cui parole or ora mi son giovato, non disse sul viso a Pietro, davanti alla Chiesa, quei rimproveri che aveva meritati? E ne lasciò il ricordo in iscritto per nostro ammaestramento. Ma io non sono Paolo che posso rimproverare Pietro – si potrebbe obiettarmi –: anzi, sono Paolo quando lo imito, a quel modo che (e ciò è molto piú importante) divento una sola cosa in spirito con Dio quando ne adempio con zelo i Comandamenti. Non c’è carica (per quanto alta) che renda alcuno immune da riprensione, se essa non rese immune Pietro e molti altri papi, come Marcello accusato di aver libato agli dei pagani; come Celestino accusato di partecipare all’eresia nestoriana; come altri che anche a nostro ricordo furono rimproverati – per non dire condannati – dagli inferiori: ma, del resto, chi non è inferiore al papa?

4. Non mi accingo a scrivere per vanità di accusare e lanciare filippiche: questa che sarebbe una turpe azione, sia lontana da me; scrivo, invece, per svellere l’errore dalle menti, per allontanare, con moniti e rimproveri, dalle colpe e dai delitti. Io, per me, non mi permetterei mai di augurarmi che altri sulla mia scia poti con le armi la vigna di Cristo, cioè la sede papale, troppo rigogliosa di rami inutili, e le faccia dare non selvatici racemi senza vita, ma dei grappoli gonfi. Ma, se lo facessi, chi vorrebbe turarmi la bocca o chiudere i propri orecchi o spaventarmi con la visione di supplizi e di morte? Come dovrò chiamarlo io, foss’egli anche il papa? Buon pastore o non piuttosto sordo aspide, che non vuole ascoltare la voce dell’incantatore e vuole morderne e avvelenarne le membra?

II.
5. Mi accorgo che si aspetta ormai di sapere qual delitto io imputi ai romani pontefici: un delitto, per vero, grandissimo commesso o per supina ignoranza o per sconfinata avarizia, che è una forma di soggezione a idoli, o per vano desiderio di dominare, cui sempre si accompagna la crudeltà. Essi, per tanti secoli, o non compresero la falsità della Donazione di Costantino o crearono essi stessi il falso; altri, seguendo le orme degli antichi pontefici, difesero come vera quella donazione che sapevano falsa, disonorando, cosí, la maestà del papato, la memoria degli antichi pontefici, la religione cristiana e causando a tutto il mondo stragi, rovine, infamie. Dicono essere loro Roma, loro il regno di Sicilia e di Napoli, loro Italia, Francia, Spagna, Germania, Inghilterra: tutta l’Europa occidentale, in una parola.

Tale pretesa si conterrebbe nel testo della Donazione. Ah, sí! Sono tuoi tutti questi Stati? hai intenzione, sommo pontefice, di ricuperarli tutti? spogliare tutti i sovrani dell’Occidente delle loro città o costringerli a pagarti tributi annuali? invece io penso che sia piú giusto ai sovrani spogliare te di tutto ciò che possiedi. Dimostrerò, infatti, che la Donazione dalla quale i sommi pontefici vantano i loro diritti, fu sconosciuta e a Costantino e a Silvestro.

6. Prima di confutare il testo della Donazione, unica difesa di costoro, difesa non solo falsa ma stolta, occorre che mi rifaccia un po’ indietro.

Per prima cosa dimostrerò che Costantino e Silvestro non erano giuridicamente tali da poter legalmente l’uno assumere, volendolo, la figura di donante e poter quindi trasferire i pretesi regni donati che non erano in suo potere e l’altro da poter accettare legalmente il dono (né del resto lo avrebbe voluto).

In seconda istanza, dimostrerò che anche se i fatti non stessero cosí (ma sono troppo evidenti), né Silvestro accettò né Costantino effettuò il trapasso del dono, ma quelle città e quei regni rimasero sempre in libera disponibilità e sotto la sovranità degli imperatori. In terza istanza dimostrerò che nulla diede Costantino a Silvestro, ma al papa immediatamente anteriore davanti al quale Costantino era stato battezzato; furono doni del resto di poco conto, beni che permettessero al papa di vivere. Dimostrerò (quarto assunto) che è falsa la tradizione che il testo della Donazione o si trovi nelle decisioni decretali della Chiesa o sia tolto dalla Vita di Silvestro: non si trova né in essa né in alcuna cronaca, mentre invece si contengono nella Donazione contraddizioni, affermazioni infondate, stoltezze, espressioni, concetti barbari e ridicoli. Aggiungerò notizie su altri falsi o su sciocche leggende relativamente a donazioni di altri imperatori. Tanto per abbondare aggiungerò che, anche se Silvestro avesse preso possesso di ciò che afferma di aver avuto, una volta che o lui o altro papa fosse stato deietto dal possesso non avrebbe piú possibilità di rivendica, né a norma delle leggi civili né delle ecclesiastiche, dopo sí lunga interruzione. Al contrario (ultima parte della mia discussione) i beni tenuti dal papa non conoscono prescrizioni di sorta.

III.
7. Primo punto. Parliamo prima di Costantino, poi di Silvestro; ma poiché trattiamo la causa della repubblica romana e direi quasi imperiale, non dobbiamo commettere l’errore di discuterla con un tono oratorio inferiore a quello con cui tratteremmo una causa di diritto privato. Immagino, quindi, di parlare davanti a un collegio di re e signori (e del resto cosí è in realtà perché il mio discorso perverrà nelle loro mani) e di interpellarli come se fossero a me davanti, seduti sotto i miei occhi: mi rivolgo a voi, o re e principi, per sapere il vostro pensiero, scrutare la vostra coscienza (un privato qualsiasi, quale io mi sono, difficilmente può con la sua immaginazione farsi l’animo di re); chiedo la vostra testimonianza. Qualcuno di voi se si fosse trovato al posto di Costantino, avrebbe ritenuto opportuno donare per sola liberalità Roma, patria sua, capitale del mondo, regina delle città, la piú potente, la piú ricca, la trionfatrice dei popoli, veneranda per il solo suo aspetto? e per giunta egli si sarebbe recato in una modesta cittaduzza, quella che fu poi Bisanzio? e insieme a Roma avrebbe dato in dono l’Italia, che non è una provincia, ma la signora delle province, le tre Gallie, le due Spagne, la Germania, la Britannia, tutto l’Occidente e si sarebbe privato di uno dei due occhi dell’impero? Non mi si farà mai credere che ciò possa fare uno sano di mente.

8. Che ci può essere invece, da voi piú atteso, a voi piú gradito, piú piacevole che accrescere i vostri possessi ed estendere quanto piú è possibile la vostra dizione? A questo fine, giorno e notte, è rivolta ogni vostra cura, ogni vostro pensiero, ogni vostra attività: o che io erro? In codesti acquisti sono riposte le vostre principali speranze di gloria; per essi lasciate ogni piacere, affrontate mille pericoli, sacrificate serenamente i piú cari pegni d’affetto e parti del vostro stesso corpo. Infatti ho sentito sempre dire e ho letto che mai nessuno di voi è stato distolto dall’accrescere il suo dominio per essere stato accecato o amputato di una mano, di una gamba o di altro membro. Che anzi questa ardente bramosia di dominare estesamente tormenta ed esagita quanto piú si è potenti. Alessandro, non contento di aver attraversato a piedi i deserti dell’Africa, d’aver vinto l’Oriente sino ai confini dell’oceano, di aver domato genti settentrionali, tra tante ferite, tante morti, malgrado che i suoi soldati rifiutassero, detestandole, di seguirlo in spedizioni lontane e difficili, pur credeva di non aver ancora fatto nulla se non avesse sottomesso con la forza e col solo prestigio del suo nome l’Occidente e tutti i popoli. Ma che dico? egli s’era proposto di attraversare l’oceano, di esplorare se vi fosse un altro mondo e di sottometterlo a sé. Alla fine – penso – avrebbe tentato di scalare il cielo.

9. Tale è la volontà di tutti i re, anche se non tutti giungono a tale audacia. Taccio quanti delitti e tristi azioni sono state commesse per acquistare e ampliare i domini: neppure i fratelli si astengono (sacrileghi!) dal sangue dei fratelli, né i figli da quello dei padri o i padri da quello dei figli. A niente altro suole tendere di piú e con piú cattiveria la temerità degli uomini; puoi ben stupirti che non siano piú lenti alla conquista del potere gli animi dei vecchi che dei giovani, di chi ha figli e di chi ne è privo, di re che di tiranni. Se dunque il potere è ambito con sí grandi sforzi, non ne richiederà maggiori per la conservazione? Ed è sempre triste cosa il diminuire un impero anziché non accrescerlo, ma è cosa disonorevole il far passare il proprio regno ad altri anziché cercare l’opposto. Leggiamo, è vero, che da qualche re o popolo, alcuni sono stati messi a capo di regni o di città, ma ciò è avvenuto non per la principale e piú grande parte del proprio dominio, ma per parti, direi quasi, ultime e le piú piccole, e sempre a condizione che chi riceve il dono debba riconoscere quasi come padrone il donante e se stesso come suo servo.

10. Or dunque, non sembra essere di animo abietto e per nulla nobile chi ritiene che Costantino abbia alienato la parte migliore dell’impero? Non dico Roma e l’Italia e le altre parti, ma le Gallie, dove aveva personalmente combattuto, dove era stato a lungo solo imperatore, dove aveva messo le basi della sua gloria e del suo impero. Qual motivo cosí pressante e grave poteva spingere a dimenticare tutto e a fare spreco di tanta liberalità proprio questo Costantino che per cupidigia di impero aveva portato guerra a vari popoli, aveva perseguitato in guerre civili alleati ed affini e li aveva spogliati dell’impero? Non ancora erano domati e messi in fuga i resti della fazione nemica; egli poi soleva combattere contro gli altri popoli non solo per la speranza della gloria e dell’impero, ma anche per necessità, provato, com’era, giorno per giorno dai barbari; egli abbondava di figli, di congiunti, di amici, sapeva che il senato e il popolo romano si sarebbero opposti alla sua donazione; egli aveva esperienza della instabilità dei popoli sottomessi, pronti a ribellarsi quasi ad ogni cambiamento di imperatore, egli ricordava di aver conquistato il potere non come gli altri imperatori per elezione del senato e approvazione della plebe, ma con le armi, in guerra.

IV.
11. Possono dire che lo fece perché era divenuto cristiano. E perciò avrebbe dovuto rinunziare alla parte migliore del suo impero? Era forse delitto, colpa, empietà il regnare ed era inconciliabile il regno con la religione cristiana? Gli adulteri, gli usurai, i detentori di beni altrui sogliono, dopo il battesimo, restituire la moglie altrui, il danaro altrui, i beni altrui. Se tu pensi cosí, devi, o Costantino, restituire la libertà ai popoli, non cambiar loro i padroni. Ma non la libertà dei popoli è in discussione; tu saresti stato indotto alla donazione solo per onorare la religione; è forse religione deporre il potere o non è meglio continuare ad amministrarlo in modo da difendere la religione stessa? Per quello che riguarda poi coloro che hanno beneficiato della Donazione, dirò che essa non è loro né utile né onorevole. Se proprio hai voglia di mostrarti cristiano e di far mostra della tua religiosità e del tuo attaccamento non dico alla Chiesa di Roma, ma alla Chiesa che è di Dio, intensifica la tua opera di sovrano: combatti per coloro che non possono combattere o non lo debbono, tieni sotto la tua protezione gli ecclesiastici esposti alle insidie e alle offese. Dio volle che si svelasse il mistero della Sua verità a Nabucodonosor, a Ciro, ad Assuero e a molti altri principi; a nessuno di essi chiese che abbandonasse il potere, donasse porzioni del regno; ma solo che restituissero la libertà agli ebrei e li proteggessero dai vicini che li assalivano. Se ciò bastò agli ebrei, basterà anche i cristiani. Sei divenuto cristiano, o Costantino. Ma è indecoroso che tu da cristiano sia imperatore con minor dominio di quando eri pagano. È il regno quasi un dono speciale di Dio, e anche i re pagani possiamo credere che vi siano innalzati sempre da Dio.

12. Ma – si può obiettare – era stato mondato dalla lebbra e perciò è verisimile che abbia voluto mostrare la sua gratitudine dando piú di quello che aveva ricevuto. Toh! Il siro Neeman curato da Eliseo volle offrire soltanto dei doni, non la metà dei suoi beni, e Costantino avrebbe offerto la metà dell’impero? Che fastidio confutare una fiaba cosí sfacciata come se fosse una storia verace. Tale favola è modellata sul racconto di Neeman e Eliseo, come l’altra del dragone sul racconto favoloso di Belo. Ma ammessa pure questa leggenda (della guarigione), nella storia che la racconta vi è forse menzione di donazione? Per nulla; ma di ciò parleremo meglio dopo. Fu guarito della lebbra, per questo miracolo si formò uno spirito cristiano; pieno di amore e timore di Dio, volle onorarLo. Non posso tuttavia persuadermi che volesse far sí larghi doni, perché giammai nessun pagano per onorare i suoi dei e nessun cristiano per onorare il Dio vivente depose il suo impero o lo donò ai sacerdoti. Se mai, si può osservare che tra i re di Israele non c’è l’esempio di alcuno che abbia permesso ai suoi sudditi di andare, secondo l’antica tradizione, a far sacrifici al Tempio di Gerusalemme, nel timore che non ritornassero al re di Giuda, dal quale avevano defezionato, sotto l’impressione dei sacri riti e della maestà del Tempio.

Quanto non è piú grave ciò che si attribuisce a Costantino? Potreste essere indotti a credere che ciò sia avvenuto per la guarigione della lebbra: ma Geroboamo fu eletto re di Israele da Dio, che lo innalzò da un’infima condizione, miracolo a mio parere piú notevole che la guarigione della lebbra; ma non perciò egli osò dare il suo regno a Dio: e tu, vuoi che Costantino abbia donato il suo regno a Dio, regno che non aveva ricevuto da Lui e per giunta (cosa che in Geroboamo non sarebbe capitato) avrebbe offeso i figli, abbassato gli amici, trascurato i suoi, leso la patria, addolorato tutti, sarebbe stato dimentico di se stesso.

V.
13. Se egli fosse stato tale o se si fosse cambiato da quello che era stato; certo non sarebbero mancati quelli che lo avrebbero ammonito; primi fra tutti i figli, i parenti, gli amici. Essi avrebbero senza dubbio affrontato l’imperatore. Immaginateli, appena hanno saputo le intenzioni di Costantino, trepidanti, frettolosi buttarsi ai piedi del sovrano e dirgli tra lagrime e pianti: «E cosí, o padre, per l’innanzi affettuosissimo, privi, diseredi, spogli del regno i tuoi figli? Non ci lagnamo del fatto che tu voglia spogliarti della parte migliore e piú grande dell’impero, ma ne stupiamo. Ci addolora che tu la passi ad altri con danno e vergogna nostra. Che cosa muove a privare i tuoi figli dell’attesa succesione al regno, te, che regnasti un tempo insieme a tuo padre? Quale colpa abbiamo verso di te, verso la patria, verso il nome e la maestà dell’impero romano perché ci si debba considerare degni di esser puniti da te con la privazione della parte migliore e piú importante del regno, ci si creda degni di essere staccati e tenuti lontani dai patri lari, dalla vista della terra natale, dall’aria stessa che ci era abituale, da antiche abitudini? Ce ne andremo in esilio lasciando penati, templi, sepolcri per vivere Dio sa dove? perché ora dovremmo essere abbandonati da te tutti noi, tuoi parenti, amici, che stemmo con te tante volte in campo a combattere, che vedemmo trafitti da spade nemiche e agonizzanti i fratelli, i genitori, i figli e non fummo atterriti dalla morte degli altri dall’affrontare noi stessi la morte per te? Noi che fummo magistrati a Roma; che governammo le città d’Italia, le Gallie, le Spagne, e altre province o che le avremmo governate, noi tutti saremo deposti dalle cariche e dovremo ritornare privati cittadini? Forse riscatterai questo nostro sacrifizio con benefici di altra provenienza. E come lo potrai adeguatamente ai nostri meriti e dignità dopo che avrai donato a un altro sí gran parte della terra? Forse tu limiterai l’impero che avemmo su cento popoli a quello su un sol popolo? Come ti è potuto venire in mente ciò? come ti incolse dimenticanza improvvisa dei tuoi, sí da non sentire compassione degli amici, dei congiunti, dei figli? Magari ci fosse toccato morire in guerra, restando salva la tua dignità e tu vittorioso; anziché vedere codeste cose. Tu puoi, sí, fare a tuo arbitrio del tuo impero e di noi: una sola cosa non otterrai mai (siamo pronti ad affrontare anche la morte) cioè che noi lasciamo il culto degli dei nostri immortali: saremo cosí di esempio agli altri e allora capirai il gran vantaggio che al Cristianesimo verrà da codesta tua larghezza. Se tu non darai l’impero a Silvestro, vogliamo essere cristiani con te e molti allora seguiranno il nostro esempio. Se invece farai la donazione, non solo non accetteremo di diventare cristiani, ma ci diventerà, per opera tua, malvisto, detestabile, esecrando tal nome e ci renderai tali che tu stesso sentirai compassione della vita e della morte nostra (fuori della vera religione) e dovrai accusare te stesso di durezza, non noi».

14. A meno che in Costantino non fosse.estirpata ogni umanità, non lo avrebbe dovuto commuovere questo discorso, se non si fosse commosso già da sé? Se non avesse voluto ascoltare costoro, non vi erano di quelli che si sarebbero opposti alla donazione con parole e fatti? Il senato e il popolo romano non avrebbero proprio creduto di dover far nulla? Non avrebbero incaricato un oratore gravis pietate ac meritis, come dice Virgilio, di tenere il seguente discorso a Costantino?

«Cesare, se tu sei dimentico dei tuoi ed anche di te stesso, sí da non voler mantenere integra l’eredità ai figli, ai congiunti, le cariche agli amici, e a te stesso l’impero, non può però il senato e il popolo romano dimenticare i suoi diritti e il suo onore. Come osi tanto circa l’impero romano, che è stato creato non col tuo, ma con il nostro sangue? Taglierai tu un so! corpo in due parti? di uno farai due regni, due capi, due volontà? offrirai per cosí dire a due fratelli le spade per combattere intorno all’eredità? Alle città, che hanno ben meritato di Roma, noi diamo il diritto di cittadinanza e tu ci strappi la metà dell’impero perché non riconosca piú Roma come la sua madre? Negli alveari si suole uccidere la regina scadente, se ve ne nascono due; tu nell’alveare dell’impero romano, dove si trova un solo ed ottimo principe, vuoi collocarvene un altro, per giunta pessimo, sí che non ape si può chiamare ma pecchione? Rimpiangiamo la tua antica prudenza, o imperatore; che avverrà, se, te vivo o dopo la tua morte, a questa parte che alieni o all’altra che conservi, sarà portata guerra dai barbari? Con quali forze militari li affronteremo? Ora poco ci riusciamo pur disponendo della forza di tutto l’impero; lo potremo piú allora? O saranno sempre d’accordo le due parti dell’impero? No, non è possibile; se Roma vuol dominare, Bisanzio non vuol servire. Invece, mentre tu sarai ancor vivo, presto saranno richiamati i vecchi presidi e sostituiti con nuovi, e tu te ne starai lontano mentre qui dominerà un altro: non sarà tutto cambiato, cioè in modo diverso e ostile all’antico ordine? Se un regno viene diviso tra due fratelli, si dividono immediatamente gli animi dei sudditi e danno origine a guerre interne prima che con nemici esterni. E non avverrà lo stesso in questo nostro impero? ignori che questo fu il principale motivo per cui gli ottimati dissero che essi sarebbero piuttosto morti al cospetto del popolo romano che permettere che si approvasse quella proposta di legge per cui, cioè, una parte dei senatori e una parte della plebe fossero mandati a abitare Veio e vi fossero due città in comune al popolo romano: se in una sola città vi erano tante dissenzioni, che sarebbe avvenuto quando le città fossero state due?

15. Cosí se ai giorni nostri vi sono tante discordie in un solo impero (ne chiamo a testimone la tua coscienza e le tue peripezie) che avverrà in due imperi? Credi forse che quando tu sarai occupato in guerre te ne verrà aiuto? Vorranno essi o sapranno dartelo? Quelli che saranno messi a capo di eserciti e di città saranno cosí nemici di armi e di guerre come colui che li avrà nominati. Non tenteranno le legioni e le stesse province di spogliare un sovrano cosí inesperto di governo ed esposto alle offese con la speranza che egli non combatta contro di loro e che non li punisca? Io credo che non resteranno neppure un mese in carica, ma subito, al primo annunzio della tua partenza, si ribelleranno. E che farai? Che decisioni prenderai, premuto da duplice se non da molteplice guerra? A stento riusciamo a tener a freno le nazioni sottomesse; come si resisterà quando alle guerre con codesti popoli si aggiungerà una guerra mossa da popoli liberi? Vedrai tu, o Cesare, quale sarà il tuo dovere. A noi siffatta cosa però deve essere a cuore non meno che a te. Tu sei mortale; l’impero del popolo romano deve essere immortale e lo sarà per quanto è in noi e non solo l’impero, ma anche il nostro rispetto per esso.

16. Dovremo noi subire l’impero di coloro dei quali spregiamo la religione? Noi, padroni del mondo, servire a codesto spregiatissimo uomo? Quando Roma fu conquistata dai Galli, i senatori romani non tollerarono che le loro barbe fossero carezzate dai vincitori; ed ora tanti senatori, pretori, consoli, capitani sopporteranno che li dominino coloro che essi dileggiarono e suppliziarono come schiavi colpevoli? Costoro creeranno i magistrati? reggeranno le province? faranno guerre? ci condanneranno a morte? sotto di loro militerà la nobiltà romana? da costoro aspetterà le cariche? otterrà i premi? Quale ferita maggiore e piú profonda avremmo potuto ricevere? Non credere, o Cesare, che il sangue romano sia cosí degenerato da sopportare ciò con animo tranquillo e da credere che non si debba evitare in qualsiasi modo una cosa tale che neppure le nostre donne sopporterebbero: anzi, preferirebbero porsi sul rogo di morte con i dolci figli e i sacri penati per non essere da meno delle donne cartaginesi. Se noi, o Cesare, ti avessimo eletto re, tu avresti, sí, ampi poteri per trattare delle cose dell’impero, ma mai per poterne diminuire la maestà. Altrimenti, noi che ti avremmo fatto re, noi stessi con lo stesso diritto ti avremmo ordinato l’abdicazione per impedirti di dividere il regno, alienare tante province, sottoporre la stessa capitale dell’impero a un cosí umile uomo, per giunta straniero. Abbiamo messo un cane a custodia dell’ovile; se egli vuol farla da lupo, o lo cacciamo o lo uccidiamo. Ora tu, che finora sei stato cane da guardia nell’ovile dell’impero, vuoi da ultimo tramutarti in lupo senza che nessuno prima te ne abbia dato l’esempio?

17. Visto che tu ci costringi a parlarti con una certa durezza, ti dirò, per chiarirti meglio le idee, che tu non hai alcun diritto sul popolo romano. Giulio Cesare occupò il potere con la violenza, Augusto lo imitò in questa colpa e si fece signore sconfiggendo il partito avverso. Tiberio, Caligola, Nerone, Galba, Ottone, Vitellio, Vespasiano e gli altri fecero scempio della nostra libertà con gli stessi mezzi o con mezzi simili. Tu stesso sei diventato padrone cacciando o uccidendo gli altri. Lascio andare che non sei nato neppure da giuste nozze. Ma per svelarti sino in fondo il nostro pensiero, o Cesare, se non vuoi mantenere il dominio su Roma, hai dei figli, qualcuno dei quali puoi, in armonia alle leggi di natura, mettere al tuo posto col nostro permesso, anzi a nostra richiesta. Se no, sappi che abbiamo ferma intenzione di difendere la potenza dello Stato insieme alle dignità nostre private. La tua offesa infatti non sarebbe minore di quella che subimmo quando fu violata Lucrezia. Neanche ora ci verrà a mancare un Bruto, che si ponga a capo del popolo romano nella riconquista della libertà. Stringeremo nelle mani un pugnale prima contro costoro che tu ci poni a capo, poi contro te stesso; del resto, ciò abbiamo fatto contro molti altri imperatori e per motivi molto piú trascurabili». Tali parole avrebbero dovuto turbare Costantino a meno che non fosse pietra o legno. È da credere che se il popolo proprio tali cose non dicesse apertamente, almeno le dicesse fremente tra sé e con le frasi che noi abbiamo usate.

VI.
18. Andiamo dunque avanti e diciamo pure che Costantino abbia voluto ringraziare Silvestro; bel modo! Sottoporlo a tanti odii, a tanti pericoli che, a mio parere, Silvestro non avrebbe potuto resistervi neppure un giorno solo. Infatti sarebbe sembrato possibile eliminare dall’animo dei romani ogni timore di dover subire cosí offensiva ingiuria solo sopprimendo Silvestro e pochi altri. Ammettiamo pure che né preghiere, né minacce né alcun altro mezzo sia stato utile e che Costantino sia rimasto fermo e non abbia voluto recedere dal proposito una volta deciso. Ma chi sarebbe rimasto insensibile alle parole di Silvestro, che sarebbero state le seguenti?

19. «Ottimo imperatore e figlio. Non posso né amare né accettare la tua pietà cosí ben disposta verso di me e prodiga; ma non stupisco che tu esageri nell’offrire dono a Dio e nello immolargli vittime, poiché sei ancora alle prime armi. Come un tempo non si conveniva che un sacerdote sacrificasse ogni specie di animale da pascolo o volatile, cosí non può un sacerdote accettare qualunque dono. Io sono sacerdote e pontefice e sono obbligato ad osservare che cosa si offra all’altare perché non si portino non dico animali immondi, ma vipere o serpenti. Perciò ecco quanto ti dico: se tu avessi il potere di dare ad altri che ai tuoi figli una parte dell’impero con la regina del mondo, Roma (ciò che non credo); se te lo permettesse l’Italia, il popolo romano, le altre province, e accettassero di sottoporsi all’imperio di quei sacerdoti che ancora odiano e di cui spregiano la religione, attaccati, come sono, ancora ai beni di questa terra (e ciò è impossibile), tuttavia io, figlio carissimo, se vuoi credere alle mie parole, non potrei essere indotto da alcun ragionamento a darti ragione a meno che io non volessi essere in contradizione con me stesso, dimenticare la mia condizione e quasi rinnegare Gesú. I tuoi doni (o, come tu li chiami, le tue rimunerazioni) insozzerebbero la gloria, l’innocenza e la santità mia e di tutti quelli che mi succederanno, e addirittura ci schianterebbero e chiuderebbero la via a quelli che vogliono pervenire alla cognizione della verità.

20. Eliseo non accettò compensi dal siro Neeman per averlo curato della lebbra; io li accetterò da te? Egli rifiutò dei doni; permetterò che tu mi dia dei regni? Quegli non volle macchiare la sua persona di profeta; io potrò insozzare la persona di Cristo che porto in me? Perché egli credé che la persona del profeta fosse insozzata accettando doni? Naturalmente perché poteva sembrare che vendesse le cose sacre, facesse l’usuraio con i doni di Dio, fosse in potere degli uomini innalzare o diminuire la nobiltà delle cariche ecclesiastiche. Preferí dunque che principi e re fossero suoi beneficiari anziché essere egli loro beneficiario, e non volle neppure che il rapporto di beneficiari fosse reciproco. È molto meglio, dice il Signore, dare che ricevere.

21. Piú che importante è la causa per cui non posso accettare i tuoi doni io, cui il Signore ha detto: ‘Curate gli infermi, risuscitate i morti, curate i lebbrosi, cacciate i demoni; in dono avete ricevuto, date in dono’. Ed io commetterò la colpa di non ubbidire ai comandi di Dio? e macchierò il mio buon nome? E meglio per me, come diceva Paolo, morire anziché alcuno sminuisca la mia gloria. Gloria è per noi tenere onorato il nostro ufficio davanti a Dio, come lo stesso Paolo dice: ‘A voi gentili io dico che fin quando sono apostolo delle genti, farò onore al mio officio’. Io, o Cesare, dovrei essere esempio e causa di errore agli altri, io cristiano, sacerdote di Dio, pontefice romano, vicario di Cristo?

22. E poi, come potrà restare incolume l’innocenza dei sacerdoti tra ricchezze, magistrature, nell’amministrazione dei beni terreni? Rinunzieremmo ai beni di questo mondo per ottenerli poi piú abbondanti? Rinunzieremmo alla privata proprietà per usurpare poi i beni degli altri e dello Stato? Saranno sotto di noi, città, tributi, gabelle? Come potremo continuare a chiamarci clero se faremo ciò? La parte nostra (in greco parte si dice kleeros) è non terrena ma celeste. I leviti, che anche essi sono chierici, non ottennero la spartizione con i fratelli, e tu vuoi che noi abbiamo anche le parti che toccano ai fratelli? A che servirebbero a me potenza e ricchezza, a me cui la voce del Signore impone di non essere sollecito del domani? a me cui è stato detto: ‘Non tesorizzate sulla terra, non possedete oro, argento e danaro nelle vostre cinture’. Ed anche: ‘È piú difficile che un ricco entri nel regno dei cieli che un cammello passi per la cruna di un ago’. Perciò Gesú scelse come suoi ministri dei poveri o di quelli che avevano rinunziato a tutti i beni per seguirLo e fu Egli stesso esempio di povertà. Il maneggiare ricchezze e danani è nemico dell’innocenza, senza parlare del loro possesso e dell’impero sugli uomini. Il solo Giuda che aveva le cassette del tesoro e portava con sé quei beni che venivano dati in elemosina si sviò per amore di danaro al quale si era affezionato, osò una volta rimproverare il Maestro e poi lo tradí. Ed io temo, o Cesare, che tu da Pietro voglia farmi Giuda. Ascolta anche Paolo: ‘Niente abbiamo portato nel mondo; non c’è dubbio che non possiamo portarne nulla fuori; ci basti avere alimenti e vesti. Coloro che vogliono arricchire, cadono nelle tentazioni, nei lacci del Diavolo, e in molte passioni inutili e dannose che annegano l’uomo nella morte e nella perdizione. Radice di tutti i mali è l’avidità di possedere; per amore di essa, alcuni si allontanarono dalla fede e si intrigarono in molti dolori. Tu, uomo di Dio, fuggi ciò’. Vorresti tu, o Cesare, che io accettassi quei beni che debbo fuggire come veleno? Avrei piú tempo (pensaci tu stesso, o Cesare, data la tua prudenza) per occuparmi delle cose divine, tutto preso da queste terrene?

VII.
23. Gli apostoli ad alcuni che si lagnavano perché le loro vedove erano tenute in poco conto nell’assistenza quotidiana, risposero che non era giusto che essi lasciassero la predicazione della parola di Dio e dovessero attendere ai pasti. Servire alle mense delle vedove come è ben diverso dall’esigere tributi, curare l’erario, conteggiare il soldo alle truppe e innodarsi in mille altre faccende simili. Dice Paolo: ‘Nessuno che serva il Signore si mescola alle cose di questo mondo’. Forse, che Aronne con gli altri leviti curava altro che il tabernacolo del Signore? I suoi figli per aver preso nei turiboli fuoco altrui, furono bruciati dal fulmine. E tu vorresti che noi ponessimo nei sacri turiboli, cioè tra le opere sacerdotali, il fuoco secolare e a noi vietato della ricchezza terrena? Eleazar, Finees, gli altri pontefici e sacerdoti o dell’Arca o del Tempio amministravano altro se non ciò che toccava le cose divine? Amministravano dico; anzi dovrei dire: potevano amministrare, se volevano compiere il loro dovere? Se no, ecco la maledizione del Signor loro: maledetti coloro che eseguono con negligenza il lavoro del Signore. Maledizione che cade su tutti, ma specialmente sui pontefici. Quanto importante è il compito dei pontefici! Come grave è l’essere capo della Chiesa! L’essere messo come pastore a capo di un ovile cosí grande! Dalle mani del pastore si domanda (che venga reso conto) del sangue di ogni agnello o pecora perduta! A lui è stato detto: se ami me piú degli altri, come tu dici, pascola i miei agnelli. E di nuovo: se ami me, come tu dici, pascola le mie pecore. La terza volta? Se ami me come tu dici, pascola le mie pecore. E tu mi comandi, o Cesare, che io pascoli anche capre e maiali che non possono essere custoditi dallo stesso pastore.

24. Che dire poi del fatto che tu vuoi farmi re o piuttosto imperatore, cioè capo di tutti i re? Gesú, dio e uomo, re e sacerdote, si disse re, ma senti di qual regno: ‘Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi di certo lotterebbero già fra loro’. Quali furono le prime e piú spesso ripetute parole della sua predicazione? Non forse: fate penitenza, si approssima il regno dei cieli? E non mostrò chiaramente che il regno di questo mondo non lo toccava? Non solo non cercò tal regno, ma quando Gli fu offerto non lo volle accettare. Infatti quando seppe, una volta, che i popoli avevano deciso di rapirLo e farLo re, fuggí tra monti solitari. E ciò ci diede a noi suoi vicari non solo come esempio da imitare ma come comando, dicendo: ‘I re dei gentili dominano su di loro e i capi hanno podestà su di essi. Non cosí sarà tra voi; chiunque tra voi vorrà essere capo, sia vostro ministro e chi vorrà essere il primo tra voi, sarà vostro servo. Cosí come il Figlio dell’uomo non è venuto perché Gli si serva ma per servire e per dare la sua anima a riscatto di molti’. Dio un tempo pose dei giudici sopra Israele, sappilo, o Cesare, non dei re, e Dio stesso si adirò col popolo che Gli chiedeva dei re con tale nome. E non diede loro un re che solo per la durezza del loro cuore, per lo stesso motivo cioè per cui permise il ripudio revocato poi dalla nuova Legge. Ed io avrò il regno, io che appena appena posso essere un giudice? ‘Ignorate – dice Paolo – che i santi giudicheranno questo mondo? Se in voi sarà giudicato il mondo, siete indegni di giudicare cose di minima importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? e quanto piú le cose terrene? Se avete tra voi liti su cose terrene, ponete come giudici le persone meno stimate che sono nella Chiesa’. Ma quei giudici che giudicavano soltanto le controversie, non esigevano anche i tributi. E li esigerò io che so come Gesú interrogasse Pietro da chi i re della terra accogliessero tributi o censi, se dai figli o dagli estranei; avendo Pietro risposto: dagli estranei; da Gesú fu detto: ‘Perciò i figli sono immuni’. Che se tutti sono figli miei, o Cesare, come certo sono, tutti saranno liberi, nessuno di essi pagherà nulla. Perciò io non ho bisogno della tua donazione, dalla quale niente altro ritrarrò se non travagli che non debbo, né potrei sopportare.

25. Che dire della necessità che mi verrebbe di esercitare giustizia criminale, punire i rei, far guerra, distruggere città, mettere a ferro e fuoco delle regioni? Né potrei sperare di poter difendere diversamente quello che tu mi donassi. Se facessi tali cose, sarei sacerdote, pontefice, vicario di Cristo? Come Lo udrei tonare contro di me: ‘La casa mia sarà detta da tutte le genti casa della preghiera e tu ne facesti una spelonca di briganti’. ‘Non sono venuto al mondo per giudicarlo ma per liberarlo’ disse il Signore, ed io, che Gli son succeduto, sarò causa di morti? Io, al quale, nella persona di Pietro, fu detto: ‘Rimetti la tua spada al posto suo. Tutti quelli che avranno preso la spada, periranno di spada’. A noi non è permesso difenderci con le armi. Eppure Pietro avrebbe voluto difendere il suo Signore quando mozzò l’orecchio al servo. E tu ci vorresti comandare di usare le armi per acquistare o difendere le ricchezze? Il nostro potere è quello delle chiavi, come disse il Signore: ‘Ti darò le chiavi del regno dei cieli. Ciò che avrai legato sulla terra, sarà legato anche nei cieli; tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche nei cieli e le porte dell’inferno non avranno ragione di esse’. Nulla si può aggiungere a questa podestà, nulla a questa dignità, nulla a questo regno. Chi non si contenta di questo, chiede un qualche altro regno al diavolo, che osò dire perfino al Signore: ‘Ti darò tutti i regni del mondo, se prostrato a terra mi adorerai’.

26. Perciò, o Cesare, sia detto con tua buona pace, non diventare per me diavolo col comandare a Cristo, e quindi a me, di ricevere da te i regni di questo mondo. Preferisco spregiarli, anziché possederli codesti beni. E, per parlare di quelli che ora sono infedeli, ma saranno, come spero, fedeli, non rendere me da angelo loro di luce, angelo di tenebre: io voglio indurre i loro cuori a pietà, non imporre ai loro colli un giogo, sottoporli a me con la spada della parola di Dio, non con la spada di ferro, perché non diventino peggiori, non recalcitrino, non si feriscano col corno, non bestemmino il nome di Dio irritati dal mio errore. Voglio renderli figli miei carissimi, non schiavi; adottarli, non comprarli; generarli, non acquistarli; offrire le loro anime come sacrificio al Signore, non i loro corpi al Diavolo. ‘Imparate da me – dice il Signore – che sono di cuore umile e mite. Accettate il mio giogo e troverete pace alle vostre anime. Il giogo mio è soave e il mio peso è leggero’. Per porre termine a questo argomento, ascolta il suo parere che sembra quasi dettato nella discussione tra me e te: ‘rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio’. Né tu dunque, o Cesare, devi abbandonare le cose tue; né io debbo ricevere le cose che sono di Cesare: anche se tu me le offrissi mille volte, mai le accetterei».

27. A tale discorso di Silvestro, degno veramente di un uomo apostolico, che cosa avrebbe piú potuto opporre Costantino? Stando cosí le cose, quelli che affermano la realtà della donazione, non offendono forse Costantino credendo che egli volesse spogliare i suoi e distruggere l’impero romano; non offendono e l’Italia e tutto l’Occidente, il senato e il popolo romano che avrebbe permesso mutamenti dell’impero contro le leggi umane e divine? Non offendono Silvestro, che avrebbe accettato una donazione indegna di un santo uomo; non offendono il papato, cui tengono essere lecito impadronirsi dei regni terreni e governare l’impero romano? Tutto ciò che abbiamo detto sinora mirava a mostrare come Costantino per tanti impedimenti mai avrebbe donato a Silvestro la maggior parte dello Stato romano, come affermano costoro.





www.classicitaliani.it/quattrocento/valla_donazione.htm




[Modificato da kelly70 04/08/2008 16:13]



La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
Apocalisse Laica
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Il sonno della ragione genera mostri (Goya)