| | | OFFLINE | | Post: 16.648 Post: 4.116 | Età: 17 | Sesso: Maschile | Utente Gold | Papa | |
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04/06/2007 20:59 | |
CATECHISMO DEL GIARDINIERE, OVVERO DIALOGO DEL PASCIÀ TUCTAN E DEL GIARDINIERE KARPOS
TUCTAN
Eh si, amico Karpos, li vendi cari i tuoi ortaggi, ma sono buoni... Di che religione sei, adesso?
KARPOS
Sinceramente, pascià, sarei imbarazzato a dirvelo. Quando la nostra piccola isola di Samo apparteneva ai greci, mi ricordo che mi facevano dire che l'aghion pneuma procedeva solamente dal tu patru; mi facevano pregare Dio in piedi, le mani giunte e mi proibivano di bere latte in quaresima. Poi sono venuti i veneziani, e allora il mio parroco veneziano mi ha fatto dire che l'aghion pneuma veniva dal tu patru e dal tu uiu; mi ha permesso di bere il latte e m'ha fatto pregare Dio in ginocchio. Poi sono tornati i greci, che hanno cacciato i veneziani, e così ho dovuto rinunciare al tu uiu e al latte. Voi infine avete cacciato i greci, e io vi sento gridare Allah illa Allah a perdi fiato. Io non so più bene quel che sono: amo Dio con tutto il cuore, e vendo i miei ortaggi a un prezzo molto ragionevole.
TUCTAN
Hai dei fichi bellissimi.
KARPOS
Pascià, sono al vostro servizio.
TUCTAN
Dicono che hai anche una figlia graziosa.
KARPOS
Sì, pascià, ma lei non è al vostro servizio.
TUCTAN
E perché mai, straccione?
KARPOS
Perché sono un uomo onesto; e l'onestà mi permette di vendere i miei fichi, ma non mia figlia.
TUCTAN
E per quale legge non ti è permesso di vendere anche quel frutto?
KARPOS
Per la legge di tutti i giardinieri onesti; l'onore di mia figlia non è mio: appartiene a lei e non è una merce.
TUCTAN
Tu non sei dunque fedele al tuo pascià?
KARPOS
Fedelissimo nelle cose giuste, finché sarete il mio padrone.
TUCTAN
Ma se il tuo papa greco facesse una cospirazione contro di me, ti ordinasse in nome del tu patru e del tu uiu di prendervi parte, non saresti così devoto da ubbidirgli?
KARPOS
lo? Niente affatto. Me ne guarderei bene.
TUCTAN
E perché rifiuteresti di obbedire al tuo papa greco in una così bella occasione?
KARPOS
Perché ho giurato obbedienza a voi, e so bene che tu patru non ordina a nessuno di cospirare.
TUCTAN
Ne sono contento. Ma se per disgrazia i tuoi greci riconquistassero l'isola e mi cacciassero, mi saresti ancora fedele?
KARPOS
Eh, come potrei restarvi fedele, se voi non foste più il mio pascià?
TUCTAN
E il giuramento che mi hai fatto, che fine farebbe?
KARPOS
Quella dei miei fichi, che non vi servirebbero più. Non è forse vero, con tutto il rispetto, che se voi foste morto, nel momento in cui parlo, non vi sarei più obbligato?
TUCTAN
Quest'ipotesi è incivile, ma la cosa è vera.
KARPOS
Ebbene, se veniste scacciato, è come se foste morto; perché avreste un successore al quale dovrei fare un altro giuramento. Potreste esigere da me una fedeltà che non vi servirebbe a nulla? Sarebbe come se, non potendo più mangiare i miei fichi, voleste impedirmi di venderli ad altri.
TUCTAN
Ragioni bene: hai dunque i tuoi principi?
KARPOS
Sì, a modo mio. Non sono tanti, ma mi bastano; se ne avessi di più, m'imbarazzerebbero.
TUCTAN
Sarei curioso di saperli, questi tuoi principi.
KARPOS
Essere un buon marito, un buon padre, un buon vicino, un buon suddito e un buon giardiniere. Non vado più in lì, e spero che Dio mi userà misericordia.
TUCTAN
E credi che Dio userà misericordia anche a me, che sono il governatore della tua isola?
KARPOS
E come volete che lo sappia? Sta forse a me indovinare come Dio si comporta con i pascià? È una faccenda tra voi e lui, e io non me ne immischio certo. Tutto quel che penso è che, se voi siete un buon pascià come io sono un buon giardiniere, Dio vi tratterà molto bene.
TUCTAN
Per Maometto! Questo idolatra m'è molto simpatico. Addio, amico; che Allah ti protegga.
KARPOS
Grazie tante, Theos abbia misericordia di voi, pascià.
CATENA DEGLI AVVENIMENTI
Da molto tempo si sostiene che tutti gli avvenimenti sono concatenati fra loro da una fatalità invincibile: il Destino, che in Omero è più forte dello stesso Giove. Questo signore degli dei e degli uomini dichiara francamente di non poter impedire che suo figlio Sarpedone muoia nel tempo prestabilito. Sarpedone era nato nel momento in cui era necessario che nascesse, e non poteva nascere in un altro momento; non poteva morire se non sotto le mura di Troia; non poteva essere seppellito che in Licia, e il suo corpo doveva produrre, nel tempo prestabilito, certi legumi che si sarebbero trasformati nella sostanza di alcuni lici; i suoi eredi dovevano stabilire un nuovo ordine nei suoi Stati; questo nuovo ordine avrebbe influito sui regni vicini; ne sarebbe risultata una nuova condizione di guerra e di pace con i vicini dei vicini della Licia: così, progressivamente, il destino di tutta la terra è dipeso dalla morte di Sarpedone, la quale dipendeva da un altro avvenimento, che era legato ad altri, fino all'origine delle cose.
Se uno solo di questi fatti si fosse svolto in modo diverso, ne sarebbe risultato un altro universo; ma non era possibile che l'universo attuale non esistesse: dunque, non era possibile a Giove - sebbene fosse Giove - salvare la vita di suo figlio.
Questo sistema della necessità e della fatalità è stato inventato ai giorni nostri da Leibniz, a quanto egli dice, sotto il nome di ragione sufficiente; ma è in realtà molto antico; non è da oggi soltanto che non c'è effetto senza causa, e la più piccola causa può produrre grandissimi effetti.
Lord Bolingbroke dichiara che le piccole liti fra lady Marlborough e lady Masham fecero nascere l'occasione di stipulare il trattato particolare tra la regina Anna e Luigi XIV; questo trattato portò poi alla pace di Utrecht, che a sua volta insediò Filippo V sul trono di Spagna; Filippo V poi tolse alla casa d'Austria Napoli e la Sicilia; il principe spagnolo che oggi è re di Napoli deve evidentemente il suo regno a lady Masham; e non lo avrebbe avuto, e non sarebbe forse neanche nato, se la duchessa di Marlborough fosse stata più compiacente con la regina d'Inghilterra. La sua esistenza a Napoli dipendeva da una sciocchezza in più o in meno alla corte di Londra. Esaminate le condizioni di tutti i popoli del mondo: tutte fondate su una serie di fatti che sembrano di nessun peso, ma da cui tutto dipende. Tutto è ingranaggio, puleggia, corda, molla, in questa immensa macchina.
Lo stesso accade nell'ordine fisico. Un vento che soffia dal fondo dell'Africa e dai mari australi porta con sé una parte dell'atmosfera africana, la quale ricade in pioggia nelle valli delle Alpi; queste piogge fecondano le nostre terre; il nostro vento del nord, a sua volta, spinge i nostri vapori sulle terre dei negri; noi facciamo del bene alla Guinea, e la Guinea a sua volta ne fa a noi. Questa catena si estende da un capo all'altro dell'universo.
Però mi sembra che si abusi stranamente della verità di questo principio. Se ne è concluso che non c'è atomo, per minuscolo che sia, che non abbia influito sulla sistemazione attuale del mondo intero; che non c'è accidente così piccolo, sia tra gli uomini che tra gli animali, che non sia un anello essenziale della grande catena del destino.
Intendiamoci: ogni effetto ha evidentemente la sua causa nell'abisso dell'eternità; ma, se discendiamo fino alla fine dei secoli, non tutte le cause hanno avuto il loro effetto. Tutti gli avvenimenti sono prodotti gli uni dagli altri, lo riconosco: se il passato ha partorito il presente, il presente partorisce il futuro. Tutto ha un padre, ma non tutto ha sempre dei figli. Avviene qui come negli alberi genealogici: ogni casata risale, come si sa, ad Adamo; ma in ogni famiglia molti sono i membri morti senza lasciare posterità.
C'è un albero genealogico degli avvenimenti di questo mondo. È incontestabile che gli abitanti della Gallia e della Spagna discendano da Gomez, e i russi da Magog, suo fratello minore: si trova, questo, scritto in tanti grossi libri! Partendo da ciò, non si può negare che noi dobbiamo a Magog i sessantamila russi che oggi sono in armi sui confini della Pomerania, e i sessantamila francesi che si trovano presso Francoforte. Ma sia che Magog abbia sputato a destra o a sinistra, dalle parti del Caucaso, e abbia così prodotto il movimento di due o tre cerchi nell'acqua di un pozzo, o che abbia dormito sul fianco destro o sul sinistro, non vedo come questo possa aver influito molto sulla decisione presa dall'imperatrice di Russia, Elisabetta, di inviare un esercito in aiuto dell'imperatrice dei romani, Maria Teresa. Che, dormendo, il mio cane sogni o non sogni, non vedo proprio il rapporto che quest'affare così importante può avere con quelli del gran Mogol.
Bisogna considerare che, nella natura, non tutto è assoluto e che ogni movimento non si comunica da un punto all'altro, sino a fare il giro del mondo. Gettate in acqua un corpo di densità uguale e calcolerete facilmente che, dopo un certo tempo, il moto di questo corpo e quello che esso ha comunicato all'acqua si arresteranno; ogni moto cessa e riprende: dunque, il movimento che Magog poté produrre sputando in un pozzo non può avere influito su quello che succede oggi in Russia o in Prussia. Dunque, gli avvenimenti odierni non sono i figli di tutti gli avvenimenti di ieri; hanno le loro linee di discendenza diretta, ma mille piccole linee collaterali non servono loro a niente. Ancora una volta, ogni essere ha un padre, ma non tutti hanno dei figli. Ne diremo forse qualcosa di più quando parleremo del Destino.
CATENA DEGLI ESSERI CREATI
La prima volta che lessi Platone e vidi quella gradazione di esseri che si elevano dall'atomo più minuscolo fino all'Essere supremo, restai preso d'ammirazione. Ma poi, quando considerai il tutto attentamente, quel grande fantasma svanì, come una volta tutti gli spettri fuggivano al canto del gallo.
L'immaginazione si compiace dapprima nel vedere il passaggio impercettibile dalla materia bruta alla materia organica, dalle piante agli zoofiti, dagli zoofiti agli animali, da questi all'uomo, dall'uomo ai geni, e da questi geni, dotati d'un minuscolo corpo aereo, a sostanze immateriali, e, finalmente, a mille ordini diversi di tali sostanze, che, di perfezione in perfezione, si innalzano sino a Dio stesso. Una tale gerarchia piace molto alla brava gente, che crede di vedere il papa e i suoi cardinali, seguiti dagli arcivescovi e dai vescovi; e dietro, in fila, i curati, i vicari, i semplici preti, i diaconi, i sottodiaconi e poi ancora i monaci, e, in coda, i cappuccini.
Ma c'è un po' più di distanza tra Dio e le sue più perfette creature, che fra il Santo Padre e il decano del sacro collegio; questo decano può diventare papa, ma il più perfetto dei geni creati dall'Essere supremo non può diventare Dio: tra Dio e lui c'è l'infinito.
Questa catena, questa pretesa gradazione, non esiste neppure tra i vegetali e gli animali; e la prova è che certa specie di piante e d'animali sono estinte. Oggi non si trovano più i murici. Agli ebrei era proibito mangiare carne di issione e di grifone; queste due specie sono scomparse dal mondo, checché pretenda il Bochart. Dov'è, dunque, la catena?
E quand'anche non avessimo perduto alcune specie, è chiaro che se ne possono distruggere. I leoni, i rinoceronti cominciano a diventare assai rari.
È probabilissimo che siano esistite razze d'uomini di cui oggi non si ha più traccia. Ma voglio anche ammettere che siano sopravvissute tutte: come i bianchi, i negri, i cafri, cui la natura ha dato un grembiule di pelle che pende loro dal ventre fino a mezza coscia; i samoiedi, le cui donne hanno mammelle di un bel nero d'ebano ecc.
Non c'è forse, visibilmente, un vuoto tra la scimmia e l'uomo? Non è forse facile immaginare un animale bipede implume, intelligente, anche se non ha l'uso della parola, né il nostro aspetto, che noi potremmo addomesticare, che risponda ai nostri segni e ci serva? E tra questa nuova specie e la specie umana, non potremmo immaginarne altre ancora?
Oltre l'uomo, voi collocate in cielo, o divino Platone, una quantità di sostanze celesti; noi crediamo, oggi, a qualcuna di esse, perché la fede ce lo insegna. Ma voi, che ragione avevate di credervi? A quanto pare, non avete parlato col demone di Socrate; e quel brav'uomo di Er, che risuscitò apposta per insegnarvi i segreti dell'altro mondo, non vi ha rivelato niente di queste sostanze.
La pretesa catena è del pari interrotta nell'universo sensibile.
Quale gradazione c'è, di grazia, fra i nostri pianeti? La Luna è quaranta volte più piccola del nostro globo. Quando avrete viaggiato nel vuoto oltre la Luna, troverete Venere: essa e grande circa come la Terra; di là arriverete a Mercurio, che descrive un'orbita molto differente da quella di Venere ed è ventisette volte più piccolo di noi: mentre il Sole è un milione di volte più grande, Marte cinque volte più piccolo e compie la sua orbita in due anni; Giove, suo vicino, ne impiega dodici e Saturno trenta; Saturno, il più lontano di tutti, è più piccolo di Giove. Dov'è questa pretesa gradazione?
E poi, come volete che nei grandi vuoti ci sia una catena che tutto collega? Se ce n'è una, è certo quella che Newton ha scoperto; quella che fa gravitare tutti i globi del mondo planetario gli uni verso gli altri, in quel vuoto immenso.
O Platone, tanto ammirato! Ci avete raccontato delle favole; e oggi, in quell'isola di Cassiteride, dove ai vostri tempi gli uomini andavano nudi, è sorto un filosofo che ha insegnato al mondo verità tanto grandi quanto erano puerili le vostre fantasie.
CERTO, CERTEZZA
«Quanti anni ha il vostro amico Cristoforo?» «Ventotto anni; ho veduto il suo contratto di matrimonio e il suo certificato di battesimo; lo conosco fin dall'infanzia; ha ventotto anni, ne ho la certezza, ne sono certo...»
Ho appena ascoltato la risposta di quest'uomo, così sicuro di quel che dice, e di venti altri che mi confermano la stessa cosa, quando vengo a sapere che il certificato di battesimo di Cristoforo, per ragioni segrete e per un intrigo singolare, è stato antidatato. Quelli con cui avevo parlato non ne sanno ancora niente; tuttavia han sempre la certezza di ciò che non è.
Se voi aveste domandato al mondo intero, prima dei tempi di Copernico: «Il sole s'è levato? è tramontato quest'oggi?», tutti vi avrebbero risposto: «Ne abbiamo l'assoluta certezza.» Si sentivano certi, ed erano nell'errore.
I sortilegi, le divinazioni, le ossessioni diaboliche, sono stati per secoli e per tutti i popoli la cosa più certa del mondo. Quali folle innumerevoli videro tutte queste belle cose, e ne son state certe! Oggi questa certezza s'è un po' smorzata.
Viene a trovarmi un giovanetto che comincia a studiare geometria; è appena arrivato alla definizione dei triangoli. «Non sei certo,» gli dico, «che i tre angoli di un triangolo equivalgano a due angoli retti?» Egli mi risponde che non solo non ne è certo, ma che non ha neppure un'idea precisa di questa proposizione. Io gliela dimostro; ora ne è certissimo, e lo resterà per tutta la vita.
Ecco una certezza ben differente dalle altre: quelle erano semplici probabilità, e tali probabilità, esaminate a fondo, sono diventate errori; ma la certezza matematica è immutabile ed eterna.
Io esisto, penso, sento dolore; tutto questo è altrettanto certo quanto una verità geometrica? Sì. Perché? Perché queste verità sono provate in virtù dello stesso principio che una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo. Io non posso nello stesso tempo esistere e non esistere, sentire e non sentire. Un triangolo non può avere a un tempo centottanta gradi, che sono la somma di due angoli retti, e non averli.
La certezza fisica della mia esistenza, del mio sentire, e la certezza matematica hanno dunque lo stesso valore, benché siano d'ordine differente.
Lo stesso non può dirsi della certezza fondata sulle apparenze o sulle relazioni unanimi degli uomini.
«Ma come,» direte, «non siete certo che Pechino esiste? Non avete in casa vostra stoffe di Pechino? Uomini di differenti paesi, di differenti opinioni, che hanno scritto attaccandosi con violenza, e han tutti infine predicato la verità a Pechino, non vi hanno assicurato dell'esistenza di questa città?» Io rispondo che per me è estremamente probabile che ci sia stata un tempo una città chiamata Pechino, ma che non sarei affatto disposto a scommettere la testa sulla sua esistenza; mentre scommetterò sempre la testa sul fatto che la somma degli angoli di un triangolo è di due angoli retti.
Nel Dictonnaire Encyclopédique è stata stampata una cosa assai curiosa: vi si sostiene che un uomo dovrebbe essere altrettanto sicuro, altrettanto certo che il maresciallo di Sassonia è risuscitato, se tutta Parigi glielo dicesse, quanto è certo che il maresciallo di Sassonia vinse la battaglia di Fontenoy, poiché tutta Parigi glielo dice. Vedete un po', vi prego, che ragionamento ammirevole: «Io credo a tutta Parigi quando mi dice una cosa moralmente possibile; dunque, debbo credere a tutta Parigi anche quando mi dice una cosa moralmente e fisicamente impossibile.»
Probabilmente l'autore di questo articolo voleva scherzare e l'altro autore che alla fine dell'articolo si mostra estasiato e scrive contro se medesimo, voleva scherzare anche lui.
CERVELLO STORTO
Ci sono, tra noi, dei ciechi, dei guerci, degli strabici, dei presbiti, dei miopi, uomini dalla vista acuta o confusa, o debole o instancabile. Tutto questo è un'immagine abbastanza fedele del nostro intelletto. Ma non ci sono occhi che vedono una cosa per un'altra: non c'è quasi nessuno che scambi un gallo per un cavallo, o un vaso da notte per una casa. Perché si incontrano così spesso cervelli, abbastanza lucidi nel giudicare le piccole cose, ma assolutamente ottenebrati nei riguardi di quelle importanti? Perché quello stesso siamese, che non si lascerà mai ingannare quando si tratterà di contargli tre rupie, crede con tanta sicurezza alle metamorfosi di Sammonocodom? Per quale strana bizzarria degli uomini sensati somigliano a don Chisciotte, che credeva di vedere giganti dove gli altri uomini non vedevano che mulini a vento? E don Chisciotte era molto più scusabile del siamese il quale crede che Sammonocodom sia sceso molte volte sulla terra, o del turco convinto che Maometto si sia infilato metà della luna nella manica; perché don Chisciotte, ossessionato dall'idea di dover combattere dei giganti può figurarsi uno di essi con un corpo grosso quanto un mulino e le braccia lunghe quanto le pale del mulino; ma da quale supposizione può partire un uomo sensato per persuadersi che metà della luna è entrata in una manica, e che un Sammonocodom è sceso dal cielo per venire a giocare con il cervo volante nel Siam, abbattere una foresta e fare giochi di bussolotti?
Anche i più grandi geni possono ragionar storto su un principio accolto senza debito esame. Newton ragionò malissimo quando commentò l'Apocalisse.
Tutto ciò che certi tiranni delle anime desiderano è che gli uomini che istruiscono abbiano il cervello storto. Un fachiro educa un ragazzo che promette molto; egli impiega cinque o sei anni a ficcargli in testa che il dio Fo apparve agli uomini in forma d'elefante bianco, e persuade il ragazzo che sarà frustato, dopo morto, per cinquecentomila anni, se non crede a tali metamorfosi. Poi aggiunge che alla fine del mondo il nemico del dio Fo verrà a combattere contro questa divinità.
Il ragazzo studia e diventa un fenomeno; argomenta secondo le lezioni del suo maestro e scopre che il dio Fo non poteva tramutarsi che in un elefante bianco, perché questo è il più bello degli animali: «I re del Siam e del Pegu,» dice, «si son fatti la guerra per un elefante bianco; certo, se Fo non fosse stato nascosto in tale elefante, quei re non sarebbero stati tanto insensati da combattere per il possesso di un semplice animale.
«Il nemico di Fo verrà a sfidarlo alla fine del mondo; certamente questo nemico sarà un rinoceronte, perché il rinoceronte combatte l'elefante.» È così che ragiona, diventato adulto, il dotto allievo del fachiro, e diventa uno dei luminari dell'India; più ha il cervello sottile e più lo ha storto; e formerà a sua volta cervelli storti.
Se si insegna a tutti questi energumeni un po' di geometria, la imparano abbastanza facilmente. Ma, cosa strana, non per questo il loro cervello si raddrizzerà; essi individuano le verità della geometria, ma essa non insegna loro a pesare le probabilità; hanno ormai preso la loro piega: ragioneranno storto tutta la vita, e me ne spiace per loro.
CIELO DEGLI ANTICHI (IL)
Se un baco da seta desse il nome di «cielo» a quel poco di lanugine che avvolge il suo bozzolo, ragionerebbe esattamente come tutti gli antichi, che dettero il nome di «cielo» all'atmosfera, la quale è, come dice benissimo il signor De Fontenelle nei suoi Mondes, la lanugine del nostro guscio.
I vapori che salgono dai nostri mari e dalla nostra terra, e che formano le nubi, le meteore e i tuoni, furono presi da principio per la dimora degli dei. In Omero, gli dei discendono sempre entro nuvole d'oro; per questo i pittori li dipingono ancora oggi seduti su una nube; ma, siccome era più giusto che il signore degli dei stesse più a suo agio degli altri, per portarlo, gli fu assegnata un'aquila, visto che l'aquila vola più in alto degli altri uccelli.
Gli antichi greci, vedendo che i signori delle città dimoravano in cittadelle, sulla cima di qualche monte, pensarono che anche gli dei potessero avere una loro cittadella, e la situarono in Tessaglia, sul monte Olimpo, la cui cima è qualche volta nascosta dalle nubi; di modo che il loro palazzo era alla stessa altezza del loro cielo.
Le stelle e i pianeti, che sembrano attaccati alla volta azzurra della nostra atmosfera, divennero, in seguito, la dimora degli dei: sette di loro ebbero ciascuno il proprio pianeta, gli altri alloggiarono dove poterono. Il concilio generale degli dei si teneva in una grande sala cui si arrivava per la Via Lattea; poiché bisogna bene avessero una sala in cielo, dato che gli uomini avevano i loro palazzi di città sulla terra.
Quando i Titani, specie di enormi animali tra gli dei e gli uomini, dichiararono una guerra abbastanza giusta a quegli dei, reclamando una loro eredità dal lato materno, dato che erano figli del cielo e della terra, non seppero fare altro che mettere due o tre montagne l'una sull'altra, contando che bastassero per impossessarsi del Cielo e del castello dell'Olimpo.
Neve foret terris securior arduus aether,
Affectasse ferunt regnum coeleste gigantes,
Altaque congestos struxisse ad sidera montes.
Questa fisica per fanciulli e nonnette era straordinariamente antica. Tuttavia, è certissimo che i caldei avevano idee altrettanto giuste delle nostre su quello che si chiama «cielo»: essi ponevano il sole al centro del nostro mondo planetario, pressappoco alla stessa distanza dal nostro globo così com'è calcolata da noi; e facevano girare la terra e tutti i pianeti attorno a quell'astro. Così ci insegna Aristarco di Samo; ed è il vero sistema astronomico, che poi Copernico rinnoverà; ma i filosofi tenevano per sé il segreto, per essere più rispettati dai re e dai popoli, o piuttosto per non essere perseguitati.
Il linguaggio dell'errore è così familiare agli uomini, che noi chiamiamo ancora i nostri vapori e lo spazio dalla terra alla luna con il nome di «cielo»; continuiamo a dire «salire in cielo», come diciamo che «il sole gira», pur sapendo bene che non gira affatto; probabilmente, per gli abitanti della luna il cielo siamo noi, e ogni pianeta situa il proprio cielo nel pianeta vicino.
Se si fosse domandato a Omero in quale cielo era andata l'anima di Sarpedone o quella di Ercole, Omero sarebbe rimasto piuttosto imbarazzato; avrebbe risposto con versi armoniosi.
Quale sicurezza si poteva avere che l'anima aerea di Ercole si fosse trovata più a suo agio in Venere o in Saturno che nel nostro pianeta? O che sarebbe andata nel sole? Difficile trovarsi a proprio agio in quella fornace. Infine, cosa intendevano gli antichi per «cielo»? Essi non ne sapevano niente: gridavano sempre «Il cielo e la terra», che è come se dicessimo: «L'infinito e un atomo.» Per dirla chiara, il cielo non c'è: c'è una quantità prodigiosa di astri che girano nello spazio vuoto, e il nostro globo gira come gli altri.
Gli antichi credevano che andare in cielo significasse salire; ma non si sale da un globo a un altro; i globi celesti sono ora sotto, ora sopra il nostro orizzonte. Così, supponiamo che Venere, dopo essere venuta a Pafo, ritornasse nel suo pianeta dopo che esso era tramontato; la dea Venere, per arrivarci, non doveva salire, rispetto al nostro orizzonte, ma scendere: si sarebbe dunque dovuto dire che essa «discendeva al cielo». Ma gli antichi non andavano tanto per il sottile: avevano nozioni vaghe, incerte, contraddittorie su tutto ciò che riguardava la fisica. Si sono scritti volumi su volumi per sapere che cosa pensassero su molte questioni del genere. Bastano tre parole: essi non pensavano.
Bisogna sempre eccettuare un piccolo numero di saggi, che però sono venuti tardi; pochi di loro hanno spiegato i propri pensieri e, quando l'hanno fatto, i ciarlatani della terra li hanno spediti in cielo per la via più breve.
Uno scrittore chiamato, credo, Pluche, ha preteso fare di Mosè un grande fisico; prima di lui, un altro aveva conciliato Mosè con Descartes e dato alle stampe un Cartesius mosaïzans; secondo lui, Mosè aveva inventato per primo i vortici e la materia sottile; ma è abbastanza noto che Dio, che fece di Mosè un grande legislatore, un gran profeta, non volle affatto farne un professore di fisica; egli istruì gli ebrei sui loro doveri, e non insegnò loro neanche una parola di filosofia. Don Calmet, che ha molto compilato e non ha mai ragionato, parla del sistema degli ebrei; ma quel popolo rozzo era ben lungi dal possedere un sistema; non aveva nemmeno una scuola di geometria; non ne conosceva neanche il nome; la sua sola scienza era il mestiere di sensale e l'usura.
Nei suoi libri si trovano poche idee confuse, incoerenti, e in tutto degne di un popolo barbaro, sulla struttura del cielo. Il loro primo cielo era l'aria; il secondo, il firmamento, cui erano attaccate le stelle; questo firmamento era solido e di ghiaccio e sosteneva le acque superiori, le quali sfuggirono da questo serbatoio per mezzo di porte, chiuse e cateratte, ai tempi del diluvio.
Al di sopra di questo firmamento, o di quelle acque superiori, v'era il terzo cielo, o Empireo, dove fu rapito san Paolo. Il firmamento era una specie di mezza volta che abbracciava la terra. Il sole non faceva il giro di un globo, che essi non conoscevano: quando era giunto in Occidente, tornava in Oriente per una via sconosciuta; e se non lo si vedeva, era - come dice il barone de Foeneste - perché se ne tornava di notte.
Per giunta, gli ebrei avevano rubato queste fantasticherie ad altri popoli. La maggior parte di questi, eccettuati i caldei, consideravano il cielo come solido; la terra, fissa e immobile, era più lunga da oriente a occidente, che non dal mezzogiorno al nord, di un buon terzo: di qui i termini «longitudine» e «latitudine», che noi abbiamo adottato. È evidente che, con tale opinione, era impossibile che ci fossero antipodi. Così sant'Agostino tratta l'idea degli antipodi come un'assurdità, e Lattanzio dice espressamente: «C'è dunque gente così insensata da credere che esistano uomini la cui testa sta più in basso dei piedi?»
E san Crisostomo, nella sua quattordicesima omelia, esclama: «Dove sono coloro che pretendono che i cieli siano mobili, e la loro forma circolare?»
Lattanzio dice inoltre, nel terzo libro delle sue Istituzioni: «Potrei provarvi con parecchi argomenti che è impossibile che il cielo circondi la terra.»
L'autore dello Spettacolo della natura potrà dire finché vorrà al signor cavaliere che Lattanzio e san Crisostomo erano dei grandi filosofi; gli risponderemo che erano dei gran santi, e che non è affatto necessario, per esser santi, essere anche buoni astronomi. Possiamo credere che siano in cielo, ma dovremo riconoscere che non sappiamo in quale parte di esso si trovino precisamente.
CINA
Noi andiamo a cercare in Cina della terra, come se non ne avessimo; delle stoffe, come se ne mancassimo; una piccola erba per fare un infuso, come se nei nostri climi non avessimo dei semplici. E, in compenso, vogliamo convertire i cinesi: zelo lodevolissimo, ma non bisogna contestare la loro abilità e dire che sono degli idolatri. Sarebbe giusto se un cappuccino, ben accolto in un castello dell'antica famiglia dei Montmorency, volesse persuaderli che sono nobili di fresca data, come i segretari del re, e li accusasse di idolatria perché ha trovato in quel castello due o tre statue di connestabili per le quali quei nobili mostrano un profondo rispetto?
Il celebre Wolf, professore di matematiche all'università di Halle, pronunziò un giorno un bellissimo discorso in lode della filosofia cinese; elogiò questa antica specie di uomini, che differisce da noi per la barba, gli occhi, il naso, le orecchie e per il modo di ragionare; elogiò, dico, i cinesi, perché adorano un Dio supremo e amano la virtù; rendeva tale giustizia agli imperatori della Cina, ai Kolao, ai tribunali, ai letterati. La giustizia che si rende ai bonzi è di specie diversa.
Bisogna sapere che questo Wolf attirava a Halle un migliaio di studenti di tutte le nazioni. C'era, nella stessa università, un professore di teologia, chiamato Lange, che non attirava nessuno; disperato a forza di gelare dal freddo, solo, nella sua aula, volle, come di ragione, screditare il professore di matematiche; e non mancò, secondo il costume dei suoi simili, d'accusarlo di non credere in Dio.
Alcuni scrittori europei, che non erano mai stati in Cina, avevan dichiarato che il governo di Pechino era ateo. Wolf aveva lodato i filosofi di Pechino, e dunque Wolf era ateo; l'invidia e l'odio non hanno mai prodotto migliori sillogismi. Questo argomento di Lange, sostenuto da una cabala e da un protettore, fu giudicato convincente dal re del paese, che inviò al matematico un dilemma in debita forma: o lasciare Halle entro ventiquattro ore o venire impiccato. Wolf, assai sveglio di cervello, se ne partì subito; la sua partenza costò al re la perdita di due o trecentomila scudi l'anno, che questo filosofo faceva entrare nel regno grazie all'affluenza dei suoi discepoli.
Questo esempio deve fare intendere ai sovrani che non sempre bisogna dar retta alle calunnie e sacrificare un grand'uomo al furore di uno stolto. Ma torniamo alla Cina.
Perché mai ci azzardiamo, noi, nell'estremo occidente, a disputare con accanimento e torrenti di ingiurie per sapere se ci sono stati quattordici principi, o no, prima di Fo-hi, imperatore della Cina, e se questo Fo-hi viveva tremila o duemilanovecento anni prima della nostra era volgare? Se due irlandesi si mettessero a disputare a Dublino per sapere chi fu, nel XII secolo, il proprietario delle terre che io occupo oggi, non è evidente che dovrebbero rivolgersi a me, che ho in mano gli archivi? La stessa cosa si deve fare, a mio giudizio, nei riguardi dei primi imperatori della Cina: bisogna rimettersi al giudizio dei tribunali di quel paese.
Disputate finché volete sui quattordici principi che regnarono prima di Fo-hi; la vostra bella disputa arriverà solo a provare che la Cina era allora molto popolata e che vi regnavano le leggi. Ora vi domando se una nazione riunita, che ha leggi e principi, non presupponga una straordinaria antichità. Pensate quanto tempo occorre perché un singolare concorso di circostanze faccia trovare il ferro nelle miniere, perché venga impiegato nell'agricoltura, perché si inventi la spola e tutte le altre arti.
Chi si diverte a scrivere puerilità ha immaginato un calcolo molto divertente. Il gesuita Petau, con un bellissimo computo, attribuisce alla terra, duecentottantacinque anni dopo il diluvio, cento volte più abitanti di quanti si osi supporre per il presente. I Cumberland e i Whiston hanno fatto calcoli non meno comici: questa brava gente, se avesse consultato i registri delle nostre colonie, sarebbe rimasta sbalordita: avrebbe appreso quanto poco il genere umano si moltiplica, e che spesso diminuisce, anziché aumentare.
Lasciamo dunque, noi che siamo di ieri, noi discendenti dei celti, che abbiamo solo da poco dissodato le foreste delle nostre contrade selvagge, lasciamo che i cinesi e gli indiani si godano in pace il loro buon clima e la loro antichità. Cessiamo, soprattutto, di chiamare idolatri l'imperatore della Cina e il subab del Dekkan! Non bisogna essere fanatici dei meriti dei cinesi: la costituzione del loro impero è la migliore del mondo, la sola che sia tutta fondata sull'autorità paterna (il che non impedisce che i mandarini non bastonino di santa ragione i loro figli); la sola in cui un governatore venga punito quando, lasciando la sua carica, non riceva le acclamazioni del popolo; la sola che abbia istituito dei premi per la virtù, mentre, nel resto del mondo, le leggi si limitano a punire il crimine; la sola che abbia fatto adottare le proprie leggi ai suoi vincitori, mentre noi siamo ancora soggetti alle consuetudini dei burgundi, dei franchi e dei goti, che in altri tempi ci dominarono. Ma bisogna confessare che il popolino, governato dai bonzi, non è meno furfante del nostro; che agli stranieri tutto viene venduto a carissimo prezzo, come da noi; che nelle scienze i cinesi sono ancora al punto in cui noi eravamo duecento anni fa; che essi hanno, come noi, mille pregiudizi ridicoli; che credono ai talismani a all'astrologia giudiziaria, come ci abbiam creduto noi per tanto tempo.
Riconosciamo inoltre che essi sono rimasti meravigliati dal nostro termometro, dal nostro modo di ghiacciare i liquidi col salnitro, e di tutti gli esperimenti di Torricelli e di Otto von Guericke, proprio come lo fummo noi la prima volta che vedemmo questi «giochi» di fisica; aggiungiamo che i medici cinesi, come i nostri, non guariscono le malattie mortali; e che là, come da noi, solo la natura guarisce le malattie leggere; ma tutto ciò non impedisce che i cinesi, quattromila anni or sono, quando noi non sapevamo nemmeno leggere, conoscessero già tutte le cose utili di cui noi oggi ci vantiamo.
La religione dei letterati, ripetiamo, è ammirevole. Nessuna superstizione, nessuna leggenda assurda, nessuno di quei dogmi che insultano la ragione e la natura, e ai quali i bonzi attribuiscono mille significati diversi, perché non ne hanno alcuno. Da più di quaranta secoli, il culto più semplice è sembrato loro il migliore. I cinesi sono come noi pensiamo che fossero Seth, Enoch e Noè; s'accontentano d'adorare un Dio come tutti i saggi della terra, mentre noi, in Europa, ci dividiamo tra Tommaso e Bonaventura, fra Calvino e Lutero, fra Giansenio e Molina.
“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer |