È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
Nuova Discussione
Rispondi
 
Stampa | Notifica email    
Autore

Dizionario filosofico

Ultimo Aggiornamento: 10/08/2007 08:59
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 21:02
 
Quota

- C -


CIRCONCISIONE



Quando Erodoto riferisce quel che gli dissero i barbari presso i quali viaggiò, racconta delle sciocchezze: come fa la maggior parte dei nostri viaggiatori; così non pretende di essere creduto quando parla dell'avventura di Gige o del re Candaule, o di Arione, portato in groppa da un delfino; o dell'oracolo consultato per sapere che cosa faceva Creso, il quale rispose che in quel momento faceva cuocere una tartaruga in una pentola chiusa; o del cavallo di Dario, che, per aver nitrito prima degli altri, proclamò re il suo padrone; e di cento altre favole buone per divertire i bambini e per essere raccolte dai retori; ma quando parla di quel che ha veduto, dei costumi dei popoli che ha esaminato, delle loro antichità che ha consultato, allora parla per gli uomini.

«Sembra,» dice nel libro Euterpe, «che gli abitanti della Colchide siano originari dell'Egitto; lo giudico da me, piuttosto che per sentito dire, perché ho trovato che nella Colchide ci si ricorda degli antichi egiziani molto più che, in Egitto, non ci si ricordi degli antichi costumi di Colco.

«Questi abitanti delle rive del Ponto Eusino pretendevano di essere una colonia fondata da Sesostri; e io stesso lo congetturai, non solo perché essi sono di pelle scura e hanno i capelli crespi, ma dal fatto che i popoli della Colchide, dell'Egitto e dell'Etiopia sono i soli che da sempre si son fatti circoncidere; poiché i fenici, e quelli della Palestina, ammettono di aver preso la circoncisione dagli egiziani. I siriani, che abitano oggi sulle rive del Termodonte e del Partenio, e i macroni, loro vicini, confessano che solo da poco tempo si sono conformati a questa usanza dell'Egitto; è per questo, soprattutto, che sono riconosciuti egiziani d'origine.

«Quanto all'Etiopia e all'Egitto, dato che questa cerimonia è molto antica presso queste due nazioni, non saprei dire quale delle due l'abbia appresa dall'altra. Tuttavia, è verosimile che gli etiopi l'abbiano appresa dagli egiziani; come, per contro, i fenici hanno abolito l'uso di circoncidere i neonati, da quando hanno avuto maggior commercio con i greci.»

È evidente, da questo passo di Erodoto, che parecchi popoli avevano appreso la circoncisione dall'Egitto; ma nessuna nazione ha mai preteso di aver ricevuto la circoncisione dagli ebrei. A chi si può dunque attribuire l'origine di tale usanza? Alla nazione da cui cinque o sei altre confessano di averla appresa, o a un'altra nazione molto meno potente, meno dedita ai commerci, meno guerriera, nascosta in un angolo dell'Arabia Petrea, e che non comunicò mai la minima sua usanza a nessun popolo?

Gli ebrei dicono che un tempo, per carità, furono accolti in Egitto; non è verosimile che il popolo più piccolo abbia imitato un'usanza del popolo più grande, e che gli ebrei abbiano accolto qualche costumanza dei loro padroni?

Clemente d'Alessandria riferisce che Pitagora, viaggiando fra gli egiziani, fu obbligato a farsi circoncidere per essere ammesso ai loro misteri; era, dunque, assolutamente necessario essere circoncisi per venire ammessi tra i sacerdoti d'Egitto. Questi sacerdoti esistevano già, quando Giuseppe giunse in Egitto: il governo di quel paese era antichissimo, e le antiche cerimonie venivano osservate con la più scrupolosa esattezza.

Gli ebrei ammettono di aver dimorato per duecentocinque anni in Egitto; dicono che non si fecero circoncidere durante tutto quel tempo; è dunque chiaro che, durante quei duecentocinque anni, gli egiziani non appresero la circoncisione dagli ebrei. L'avrebbero forse appresa più tardi, dopo che gli ebrei ebbero rubato tutti i vasi che avevano ricevuto in prestito ed erano fuggiti nel deserto con le loro prede, secondo la loro stessa testimonianza? Un padrone adotterà il segno principale della religione di un suo schiavo ladro e fuggiasco? Questo non è conforme alla natura umana.

Nel libro di Giosuè è detto che gli ebrei furono circoncisi nel deserto: «Io vi ho liberati da quello che faceva il vostro obbrobrio fra gli egiziani.» Ora, quale poteva essere quest'obbrobrio per gente che si trovava tra i popoli della Fenicia, gli arabi e gli egiziani, se non qualcosa che li rendeva degni di disprezzo a queste tre nazioni? Come si poteva toglier loro questo obbrobrio? Togliendo loro un po' di prepuzio. Non è questo il senso naturale del passo in questione?

Il Genesi dice che Abramo era stato circonciso già prima; ma Abramo viaggiò per l'Egitto che era da tanto tempo un florido regno, governato da un potente re. Nulla impedisce che in quel regno così antico la circoncisione fosse da lungo tempo in uso, prima ancora che la nazione ebraica si fosse formata. Inoltre, la circoncisione di Abramo non ebbe seguito: i suoi posteri vennero circoncisi solo dal tempo di Giosuè in poi.

Ora, prima di Giosuè, gli israeliti, per loro stessa confessione, presero molte costumanze dagli egiziani: li imitarono in parecchi sacrifici, in molte cerimonie, come nei digiuni che si osservavano alla vigilia delle feste di Iside, nelle abluzioni, nell'abitudine di rasare il capo ai preti; l'incenso, il candelabro, il sacrificio della vacca rossa, la purificazione con l'issopo, l'astinenza dalla carne di maiale, l'orrore per gli utensili da cucina degli stranieri, tutto attesta che il piccolo popolo ebreo, malgrado la sua avversione per la grande nazione egiziana, aveva conservato un'infinità di usanze dei suoi antichi padroni. Quel capro Azazel che veniva inviato nel deserto, carico dei peccati del popolo, era una manifesta imitazione di una pratica egiziana; anzi, i rabbini stessi convengono che la parola Azazel non è ebraica. Niente impedisce, dunque, che, per quanto riguarda la circoncisione, gli ebrei abbiano imitato gli egiziani, come facevano gli arabi, loro vicini.

Non c'è niente di straordinario nel fatto che Dio, il quale santificò il battesimo, così antico presso gli asiatici, abbia santificato anche la circoncisione, altrettanto antica fra gli africani. Abbiamo già detto che Egli è padrone di conferire la sua grazia ai segni che si degna di scegliere.

Del resto, dopo che, sotto Giosuè, il popolo ebreo fu circonciso, esso ha conservato questa usanza fino ai giorni nostri; anche gli arabi vi sono sempre stati fedeli. Al contrario, gli egiziani, che nei primi tempi circoncidevano i bambini e le bambine, cessarono col tempo di fare quest'operazione alle bambine, e infine la limitarono ai sacerdoti, agli astrologi e ai profeti. È quanto apprendiamo da Clemente d'Alessandria e da Origene. Infatti, non risulta che i Tolomei siano mai stati circoncisi.

Gli autori latini, che trattavano gli ebrei con un disprezzo così profondo da chiamarli curtus Apella per derisione («credat Judaeus Apella, curti Judaei»), non danno mai questi epiteti agli egiziani. Tutto il popolo d'Egitto è oggi circonciso, ma per un'altra ragione: perché l'islamismo adottò l'antica pratica araba della circoncisione, pratica che passò presso gli etiopi dove si circoncidono ancora bambini e bambine. Bisogna ammettere che questa cerimonia della circoncisione pare sulle prime ben strana; ma va rilevato che, in ogni tempo, i sacerdoti dell'oriente si consacravano alle loro divinità con segni particolari: i sacerdoti di Bacco si incidevano con un punteruolo una foglia d'edera sulla pelle; Luciano ci dice che i seguaci della dea Iside s'imprimevano dei caratteri sul polso e sul collo. I sacerdoti di Cibele si rendevano eunuchi.

È molto probabile che gli egiziani, i quali veneravano lo strumento della generazione, e ne portavano l'immagine con gran pompa nelle loro processioni, immaginassero di offrire a Iside e a Osiride, per opera dei quali tutto si generava sulla terra, una piccola parte del membro per mezzo del quale quelle divinità avevano voluto che il genere umano si perpetuasse. Gli antichi costumi orientali sono così prodigiosamente differenti dai nostri, che nulla deve sembrare straordinario a chiunque abbia un po' di cultura. Un parigino resta sbalordito quando gli si dice che gli ottentotti fanno tagliare ai loro figli un testicolo. Può darsi che gli ottentotti restino anch'essi sbalorditi nell'apprendere che i parigini li conservano tutti e due.



CONCILI



Tutti i concili sono infallibili, non c'è dubbio, dato che sono composti di uomini. È impossibile che le passioni, gli intrighi, lo spirito di controversia, l'odio, la gelosia, il pregiudizio, l'ignoranza regnino mai in queste assemblee.

Ma perché, si dirà, tanti concili si sono opposti gli uni agli altri? Per mettere alla prova la nostra fede. Tutti hanno avuto ragione, ciascuno a suo tempo.

Oggi, i cattolici romani non credono che ai concili approvati dal Vaticano; e i cattolici greci non credono che a quelli approvati a Costantinopoli. I protestanti si fanno beffe degli uni e degli altri. Cosi tutti sono contenti.

Parleremo qui solo dei grandi concili: dei piccoli, non ne vale la pena.

Il primo è quello di Nicea. Esso si riunì nel 325 dell'era volgare, dopo che Costantino ebbe scritto e inviato per mezzo di Osio quella bella lettera al clero un po' turbolento di Alessandria: «Voi state a litigare per una questione di così poco conto. Queste vostre sottigliezze sono indegne di gente ragionevole.» Si trattava di sapere se Gesù era creato o increato. Questo non riguardava affatto la morale, che è la sola cosa essenziale: che Gesù sia stato nel tempo o prima del tempo, l'importante è che noi si sia uomini onesti. Dopo parecchi alterchi, fu alla fine deciso che il Figlio era antico quanto il Padre e consustanziale al Padre. Questa decisione è ben difficile a intendersi, ma appunto per questo è tanto più sublime. Diciassette vescovi protestarono contro la sentenza, e un'antica cronaca d'Alessandria, conservata a Oxford, dice che protestarono anche duemila preti; ma i prelati non fanno gran caso ai semplici preti, che di solito sono poveri. Comunque sia, in questo primo concilio non si discusse affatto della Trinità. La formula dice: «Noi crediamo in Gesù Cristo consustanziale al Padre, Dio da Dio, luce da luce, generato e non fatto; noi crediamo anche nello Spirito Santo.» Con lo Spirito Santo, bisogna riconoscerlo, se la sbrigarono con molta disinvoltura.

Nel supplemento del concilio di Nicea viene riferito che i Padri, essendo in grande imbarazzo nel tentar di distinguere i libri «crifi» o apocrifi dell'Antico e del Nuovo Testamento, li buttarono tutti alla rinfusa su un altare: e quelli da scartare caddero in terra. È proprio un peccato che al giorno d'oggi questa bella ricetta non si usi più.

Dopo il primo concilio di Nicea, composto di trecentodiciassette vescovi infallibili, se ne tenne un altro a Rimini; e il numero degli infallibili fu questa volta di quattrocento, senza contare un grosso distaccamento a Seleucia di circa duecento. Questi seicento vescovi, dopo quattro mesi di disputa, tolsero unanimi a Gesù la sua consustanzialità. Essa gli fu restituita in seguito, fuorché dai sociniani; così tutto è a posto.

Uno dei grandi concili è quello di Efeso, del 431. Il vescovo di Costantinopoli, Nestorio, gran persecutore d'eretici, fu condannato a sua volta come eretico per avere sostenuto che, in verità, Gesù era sì Dio, ma sua madre non era assolutamente madre di Dio, bensì madre di Gesù. Fu san Cirillo che fece condannare Nestorio; ma anche i partigiani di Nestorio fecero deporre san Cirillo nello stesso concilio: questo, certo, mise in un grosso imbarazzo lo Spirito Santo.

Prendi nota, lettore, che il Vangelo non ha mai detto una parola né della consustanzialità del Verbo, né dell'onore toccato a Maria d'esser madre di Dio, né di tutte le altre questioni che hanno fatto riunire tanti concili infallibili.

Eutiche era un monaco che aveva tuonato contro Nestorio, la cui eresia arrivava addirittura a supporre in Gesù due persone: cosa spaventosa, certo. Questo monaco, per meglio contraddire il suo avversario, assicura che Gesù non aveva che una sola natura. Al contrario, un tal Flaviano, vescovo di Costantinopoli, sostenne che era assolutamente necessario che in Gesù ci fossero due nature. Si riunì allora un numeroso concilio a Efeso, nel 449: e qui si discusse a suon di bastonate, come già al piccolo concilio di Cirta, nel 355, e in un'altra assemblea a Cartagine. Furono dunque assegnate all'unica natura di Flaviano un sacco di bastonate, e a Gesù due nature: fino al concilio di Calcedonia, nel 451, in cui Gesù fu ridotto ad averne una sola.

Sorvolo su altri concili tenutisi per minuzie e vengo al sesto concilio ecumenico di Costantinopoli, riunito per sapere con precisione se Gesù, avendo una sola natura, non avesse tuttavia due volontà. Chi non sente quanto ciò sia importante per piacere a Dio?

Questo concilio fu convocato da Costantino il Barbuto, come tutti gli altri erano stati convocati dagli imperatori precedenti: i legati del vescovo di Roma furono messi a sinistra, i patriarchi di Costantinopoli e di Antiochia a destra. Non so se i caudatari a Roma pretendevano che la sinistra fosse il posto d'onore. Sia come sia, Gesù, in quest'occasione, ottenne due volontà.

La legge mosaica aveva vietato le immagini. I pittori e gli scultori non avevano mai fatto fortuna presso gli ebrei. Non risulta che Gesù abbia mai avuto quadri, tranne forse il ritratto di Maria, dipinto da Luca. In ogni caso, Gesù Cristo non raccomanda mai d'adorare le immagini. I cristiani, tuttavia, cominciarono ad adorarle, verso la fine del IV secolo, non appena si furono familiarizzati con le belle arti. L'abuso giunse a tal punto, nell'VIII secolo, che Costantino Copronimo riunì a Costantinopoli un concilio di trecentoventi vescovi, il quale anatemizzò il culto delle immagini, chiamandolo idolatria.

L'imperatrice Irene, la stessa che più tardi fece cavare gli occhi a suo figlio, convocò nel 787 il secondo concilio di Nicea: in esso l'adorazione delle immagini fu ristabilita. Oggi si vuole giustificare questo concilio dicendo che quell'adorazione era un culto di «dulìa» e non di «latria».

Ma fosse «dulìa» fosse «latria», Carlomagno nel 794 fece tenere a Francoforte un altro concilio, il quale accusò il secondo concilio di Nicea di idolatria. Il papa Adriano I vi inviò due legati, ma non fu lui a convocarlo.

Il primo grande concilio convocato da un papa fu il primo concilio Laterano, nel 1139; vi parteciparono circa mille vescovi. Ma non vi si concluse quasi nulla: ci si limitò a scagliare anatemi contro coloro che sostenevano che la Chiesa era troppo ricca.

Un altro concilio lateranense, nel 1179, fu tenuto da papa Alessandro III: in quest'occasione i cardinali presero, per la prima volta il sopravvento sui vescovi. Furono trattate solo questioni disciplinari.

In un altro grande concilio lateranense, nel 1215, papa Innocenzo III scomunicò il conte di Tolosa, spogliandolo di tutti i suoi beni. È questo il primo concilio in cui si sia parlato di transustanziazione.

Nel 1245, concilio generale di Lione, allora città imperiale, nel quale il papa Innocenzo IV scomunicò l'imperatore Federico II e, di conseguenza, lo depose, interdicendogli l'acqua e il fuoco: fu in questo concilio che venne dato ai cardinali il cappello rosso, per far loro ricordare che bisogna bagnarsi nel sangue dei partigiani dell'imperatore. Questo concilio fu causa della distruzione della casa di Svevia, e di trent'anni d'anarchia in Italia e in Germania.

Concilio universale a Vienne, nel Delfinato, nel 1311, dove si abolì l'ordine dei templari, i cui principali membri erano stati condannati ai più orribili supplizi, su accuse per nulla provate.

Nel 1414, il grande concilio di Costanza, dove ci si accontentò di deporre papa Giovanni XXIII, colpevole di mille delitti, e dove vennero bruciati Giovanni Huss e Gerolamo da Praga, per essere stati ostinati: l'ostinazione è infatti un crimine ben più pesante dell'assassinio, del ratto, della simonia e della sodomia.

Nel 1431, il grande concilio di Basilea, non riconosciuto a Roma, perché vi si depose papa Eugenio IV, il quale non si lasciò affatto deporre.

I romani contano come concilio universale anche il quinto concilio lateranense del 1512, convocato contro Luigi XII, re di Francia, da papa Giulio II. Ma, dopo la morte di quel papa bellicoso, il concilio se ne andò in fumo.

Infine abbiamo il grande concilio di Trento, il quale non fu accettato in Francia in materia di disciplina; il suo dogma è tuttavia incontestabile, poiché lo Spirito Santo, come disse fra Paolo Sarpi, arrivava tutte le settimane da Roma a Trento per valigia diplomatica. Ma fra Paolo Sarpi puzzava un po' d'eresia.

(Del signor Abausit, cadetto)



CONFESSIONE



È ancora un problema da risolvere, se la confessione, considerata sotto l'aspetto politico, abbia fatto più bene che male.

Ci si confessava nei misteri d'Iside, di Orfeo e di Cerere, davanti allo ierofante e agli iniziati; perché, essendo quei misteri delle espiazioni, bisognava pur confessare che si avevano crimini da espiare.

I cristiani adottarono la confessione nei primi secoli della Chiesa, così come fecero propri quasi tutti i riti dell'antichità, come i templi, gli altari, l'incenso, i ceri, le processioni, l'acqua lustrale, gli abiti sacerdotali e parecchie formule dei misteri: il sursum corda, l'ite missa est, e tante altre. Lo scandalo della confessione pubblica di una donna, avvenuto nel IV secolo a Costantinopoli, fece abolire la confessione.

La confessione segreta che un uomo fa ad un altro uomo non fu ammessa, nel nostro occidente, che verso il VII secolo. Gli abati cominciarono a esigere che i loro monaci andassero due volte l'anno a confessare loro tutte le loro colpe. Furono questi abati a inventare la formula: «Io ti assolvo quanto lo posso e quanto ne hai bisogno.» Mi sembra che sarebbe stato più rispettoso verso l'Essere supremo, e più giusto, dire: «Possa Egli perdonare le tue colpe e le mie!»

Il bene che la confessione ha fatto è di avere talvolta ottenuto la restituzione di piccoli furti. Il male, è di avere costretto talvolta i penitenti, nei disordini degli stati, a essere ribelli e sanguinari per dovere di coscienza. I preti guelfi rifiutavano l'assoluzione ai ghibellini, e i preti ghibellini si guardavano bene dall'assolvere i guelfi. Gli assassini degli Sforza, dei Medici, dei principi d'Orange, dei re di Francia, si preparavano ai loro parricidi col sacramento della confessione.

Luigi XI e la Brinvilliers si confessavano non appena avevano commesso un delitto, e si confessavano spesso, come i ghiottoni si purgano per aver più appetito.

Se ci si potesse stupire di qualcosa, ci si stupirebbe per prima cosa della bolla di papa Gregorio XV, emanata da Sua Santità il 30 agosto 1622, con la quale ordinava di rivelare in certi casi le confessioni.

La risposta del gesuita Coton a Enrico IV durerà più dell'ordine dei gesuiti: «Rivelereste la confessione di un uomo risoluto ad assassinarmi?» «No, ma mi metterei tra voi e lui.»



CONVULSIONI



Si danzò, intorno al 1724, nel cimitero di Saint-Médard. Vi si fecero molti miracoli; eccone uno, riferito in una canzone della duchessa del Maine:

Un décrotteur à la royale,

Du talon gauche estropié,

Obtint pour grâce spéciale

D'être boiteux de l'autre pied.

Le convulsioni miracolose, come san tutti, continuarono finché non venne messa una guardia al cimitero.

De par le roi, défense à Dieu

De plus fréquenter en ce lieu.

I gesuiti (anche questo lo san tutti), non potendo più fare simili miracoli, da quando il loro Saverio aveva esaurito tutte le grazie di cui disponeva la Compagnia, risuscitando ben nove morti, pensarono, per bilanciare il credito nei confronti dei giansenisti, di far incidere una stampa di Gesù Cristo, vestito da gesuita. Un bello spirito del partito giansenista (san tutti anche questo) scrisse sotto l'immagine:

Admirez l'artifice extrême

De ces moines ingénieux:

Ils vous ont habillé comme eux,

Mon Dieu, de peur qu'on ne vous aime.

I giansenisti, per meglio provare che mai Gesù Cristo avrebbe potuto prendere l'abito di gesuita, riempirono Parigi di convulsioni, e attirarono la gente nei loro chiostri. Il consigliere al parlamento Carré de Montgeron andò a presentare al re una raccolta in quarto di tutti quei miracoli, attestati da mille testimoni. Egli fu rinchiuso, come di ragione, in un castello, dove si cercò di raddrizzargli il cervello con un regime adatto; ma la verità trionfa sempre sulle persecuzioni: i miracoli durarono ancora trent'anni, senza interruzione. Si faceva venire a casa propria suora Rosa, suora Illuminata, suora Promessa, suora Confessa; esse si lasciavano frustare senza che l'indomani apparisse un segno sul loro corpo; si davan loro bastonate sullo stomaco ben corazzato e imbottito, senza far loro alcun male: le si faceva sdraiare davanti a un gran fuoco, il volto strofinato di pomata, senza che si scottassero; e infine, poiché tutte le arti si perfezionano, si arrivò a piantar loro delle spade nelle carni e a crocifiggerle. Anche un famoso teologo ebbe l'onore di venire crocifisso; tutto questo per convincere la gente che una certa bolla papale era ridicola, cosa che si sarebbe potuta dimostrare senza bisogno di tanti miracoli. Tuttavia, sia i gesuiti, sia i giansenisti, si allearono poi tutti contro l'Esprit des lois e contro... e contro... e contro... e contro...

Il colmo è che noi osiamo ridere dei lapponi, dei samoiedi e dei negri!



CORPO



Come non sappiamo che cos'è uno spirito, così ignoriamo che cos'è un corpo: noi ne vediamo alcune proprietà; ma qual è il soggetto nel quale risiedono? Esistono solo dei corpi, dicevano Democrito ed Epicuro; non esistono corpi, dicevano i discepoli di Zenone di Elea.

Il vescovo di Cloyne, Berkeley, fu l'ultimo che pretese di provare, con cento sofismi capziosi che i corpi non esistono. Essi non hanno - dice - né colori, né odori, né calore; queste modalità sono nelle vostre sensazioni, e non negli oggetti. Poteva risparmiarsi la pena di provare questa verità: essa era abbastanza nota. Ma da qui egli passa all'estensione, alla solidità, che sono realtà essenziali dei corpi, e crede di poter provare che non v'è estensione in una pezza di panno verde, perché quel panno non è realmente verde: questa sensazione di verde non è che in noi: dunque anche la sensazione di estensione non è che in noi. E, dopo aver così distrutto l'estensione, conclude che anche la solidità, che ad essa è collegata, cade da sé, e che così non c'è niente al mondo, salvo le nostre idee, di modo che, secondo quel dottore, diecimila uomini massacrati da diecimila colpi di cannone non sono, in definitiva, che diecimila apprensioni della nostra anima.

Dipendeva solo dal signor vescovo di Cloyne di non cadere in tanto ridicolo eccesso. Egli crede di dimostrare che l'estensione non esiste perché, con una lente, un corpo gli è apparso quattro volte più grosso che non ad occhio nudo, e, visto con un'altra lente, quattro volte più piccolo. Da ciò conclude che poiché un corpo non può avere ad un tempo un'estensione di quattro piedi, di sedici piedi e di un solo piede, l'estensione non esiste. Bastava che prendesse una misura, e dicesse: «Di qualunque estensione mi sembri un corpo, esso è esteso quanto queste misure.»

Gli era pur facile vedere che l'estensione e la solidità sono altra cosa dai suoni, dai colori, dai sapori, dagli odori ecc. È chiaro che queste sono sensazioni suscitate in noi dalla configurazione delle parti; ma l'estensione non è una sensazione. Se quel pezzo di legno acceso si spegne, io non ho più caldo; se quest'aria non è più mossa, io non odo più; se questa rosa appassisce, non ne sento più l'odore. Ma il pezzo di legno, l'aria, la rosa sono estesi indipendentemente da me. Il paradosso di Berkeley non vale la pena d'essere confutato.

Val la pena di sapere che cosa lo abbia spinto a sostenerlo. Molti anni fa, ebbi alcune conversazioni con lui: egli mi disse che l'origine della sua tesi veniva dal fatto che non è possibile concepire cosa sia il soggetto che riceve l'estensione. E infatti egli trionfa nel suo libro, quando domanda a Hylas che cosa è mai questo soggetto, questo substratum, questa sostanza: «È il corpo esteso,» risponde Hylas. Allora il vescovo, sotto il nome di Philonous, lo prende in giro; e il povero Hylas, accorgendosi di aver detto che l'estensione è il soggetto dell'estensione, cioè una cosa insensata, resta tutto confuso, e confessa che non ci capisce nulla, che i corpi non esistono, che il mondo materiale non esiste, e che c'è soltanto un mondo spirituale.

Hylas doveva solo dire a Philonous: «Noi non sappiamo nulla della natura di questo soggetto, di questa sostanza estesa, solida, divisibile, mobile, figurata ecc.; io non la conosco come non conosco il soggetto pensante, senziente e volente; nondimeno questo soggetto esiste, perché possiede proprietà essenziali di cui non può essere privato.»

Noi siamo tutti come la maggior parte delle dame di Parigi, che mangiano di gusto senza sapere minimamente di che sian fatti i ragù; così noi godiamo dei corpi senza sapere ciò che li compone. Di che cosa è fatto un corpo? Di parti, e queste parti si risolvono in altre parti. E cosa sono queste ultime parti? Sempre dei corpi. Continuate a dividere, e non farete un passo nel cercar di capire.

Infine, un sottile filosofo, osservando che un quadro è fatto d'ingredienti, nessuno dei quali è un quadro, e una casa di materiali, nessuno dei quali è una casa, immaginò (in maniera un po' diversa) che i corpi siano composti di un'infinità di piccoli esseri che in sé non sono corpi: le cosiddette monadi. Tale sistema ha del buono; e, se fosse rivelato, lo crederei possibilissimo. Tutti questi piccoli esseri sarebbero dei punti matematici, delle specie di anime, in attesa solo di un abito per infilarcisi dentro; sarebbe una metempsicosi continua: una monade andrebbe ora in una balena, ora in una pianta, ora in un giocatore di bussolotti. Sistema che vale quanto qualsiasi altro sistema; e a me piace quanto la declinazione degli atomi, le forme sostanziali, la grazia versatile e i vampiri di don Calmet.



CREDO



Io recito il mio Pater e il mio Credo tutte le mattine; non somiglio affatto a Broussin, di cui Reminiac diceva:

Broussin, dès l'âge le plus tendre,

Posséda la sauce-Robert,

Sans que son précepteur lui pût jamais apprendre

Ni son Credo ni son Pater.

Il «simbolo», o collatio, viene dal greco $óýìâïëïí$, e la Chiesa latina, che ha preso tutto da quella greca, ha adottato questa parola. I teologi, quelli che hanno un minimo d'istruzione, sanno che questo simbolo, detto «degli apostoli», non è affatto degli apostoli.

I greci chiamavano «simbolo» le parole, i segni con cui si riconoscono fra loro gli iniziati ai misteri di Cerere, di Cibele, di Mitra; anche i cristiani, col tempo ebbero il loro simbolo. Se fosse esistito al tempo degli apostoli, c'è da credere che san Luca ne avrebbe fatto cenno.

Si attribuisce a sant'Agostino una storia del simbolo nel suo sermone CXV: gli si fa dire, in questo sermone, che Pietro aveva cominciato il simbolo dicendo: «Io credo in Dio Padre onnipotente», al che Giovanni aggiunse: «creatore del cielo e della terra», e Giacomo: «E io credo in Gesù Cristo, suo unico figlio, nostro Signore», e così via. Nell'ultima edizione di Agostino questa favola è stata soppressa. Io mi rivolgo ai reverendi padri benedettini per sapere se bisognava o no sopprimere questo brano così singolare.

La verità è che nessuno sentì parlare di questo Credo per più di quattrocento anni. Il popolo dice che Parigi non è stata fatta in un giorno, e il popolo, nei suoi proverbi, ha spesso ragione. Gli apostoli ebbero il nostro simbolo nel cuore, ma non lo misero per iscritto. Se ne formulò uno al tempo di sant'Ireneo, che non somiglia affatto a quello che recitiamo. Il nostro simbolo, qual è oggi, risale certamente al V secolo: è posteriore a quello di Nicea. L'articolo che dice che Gesù discese all'inferno, quello che parla della comunione dei santi, non si trovano in nessuno dei simboli che precedettero il nostro. E, infatti, ne i Vangeli né gli Atti degli Apostoli dicono che Gesù, discese all'inferno. Ma già nel III secolo era opinione radicata che Gesù fosse disceso nell'Ade, nel Tartaro, parole che noi traduciamo con quella di Inferno. L'inferno, in questo senso, non è la parola ebraica sheol, che vuol dire sotterraneo, fossa. Ecco perché sant'Atanasio ci insegnò poi come il nostro Salvatore discese all'inferno: «La sua umanità non fu né tutta intera nel sepolcro, né tutt'intera nell'inferno: essa fu nel sepolcro secondo la carne, nell'inferno secondo l'anima.»

San Tommaso assicura che i santi risuscitati alla morte di Gesù Cristo morirono poi di nuovo per risuscitare ancora con lui; è l'opinione più seguita. Ma tutte queste opinioni sono assolutamente estranee alla morale; bisogna essere virtuosi, sia che i santi siano risuscitati due volte, sia che Dio li abbia risuscitati una volta sola. Il nostro simbolo venne formulato tardi, l'ammetto, ma la virtù esiste dall'eternità.

Se è lecito citare autori moderni in una materia tanto solenne, riferirei qui il Credo dell'abate di Saint-Pierre, come si trova scritto di sua mano nel suo libro sulla purezza della religione, libro che non è stato pubblicato, ma che io ho fedelmente ricopiato.

«Io credo in un solo Dio, e lo amo. Credo che egli illumini ogni anima che viene al mondo, come dice san Giovanni: intendo dire ogni anima che lo cerchi in buona fede.

«Io credo in un solo Dio, perché non può esservi che una sola anima del gran tutto, un solo essere che lo vivifica, un unico artefice.

«Io credo in Dio, padre onnipotente, perché egli è padre comune della natura e di tutti gli uomini che sono egualmente suoi figli. Io credo che colui che li fa nascere tutti in egual modo, che ha combinato il meccanismo della nostra vita nella stessa maniera, che ha dato loro gli stessi principi di una morale la quale può essere da loro scoperta non appena riflettano, non abbia posto nessuna differenza tra i suoi figli, fuorché quella tra il crimine e la virtù.

«Io credo che il cinese giusto e generoso sia per lui più prezioso di un dottore europeo puntiglioso e arrogante.

«Io credo che, essendo Dio nostro padre comune, noi dobbiamo considerare tutti gli uomini nostri fratelli.

«Io credo che il persecutore sia un uomo abominevole, e che venga subito dopo l'avvelenatore e il parricida.

«Io credo che le dispute teologiche siano a un tempo la farsa più ridicola e il flagello più orribile della terra, subito dopo la guerra, la peste, la carestia e la sifilide.

«Io credo che gli ecclesiastici debbano essere pagati, e pagati bene, come servi del pubblico, precettori di morale, depositari dei registri dei nati e dei morti; ma che non si debba dar loro la ricchezza dei grandi appalti delle imposte, né il rango di principi, perché l'una cosa e l'altra corrompono l'anima; e nulla è più rivoltante che il vedere uomini così ricchi e superbi far predicare l'umiltà e l'amore della povertà da persone che han solo cento scudi di salario l'anno.

«Io credo che tutti i preti che amministrano una parrocchia debbano essere sposati, non solo per avere al fianco una donna onesta che prenda cura della loro casa, ma per essere migliori cittadini, dare buoni sudditi allo Stato, e avere molti figli bene educati.

«Io credo che sia necessario estirpare i monaci; si renderebbe un gran servizio alla patria e a loro stessi; sono uomini che Circe mutò in porci; il saggio Ulisse deve rendere loro la forma umana.»

Il paradiso agli uomini che fanno il bene!








“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 21:18
 
Quota

- C -

CRISTIANESIMO, RICERCHE STORICHE SUL CRISTIANESIMO



Molti studiosi si son dichiarati sorpresi di non trovare nello storico Giuseppe alcuna traccia di Gesù Cristo, poiché oggi tutti convengono che il breve passo dove se ne fa menzione nella sua Storia, è un'interpolazione. Il padre di Giuseppe, tuttavia, doveva essere stato uno dei testimoni di tutti i miracoli di Gesù. Giuseppe era di stirpe sacerdotale, parente della regina Mariamne, moglie di Erode; egli si diffonde in mille particolari su tutte le azioni di quel principe; tuttavia non dice una parola né della vita né della morte di Gesù. E questo storico, che non dissimula nessuna delle crudeltà di Erode, non parla affatto del massacro di tutti i bambini da lui ordinato subito dopo avere appreso la notizia che era nato il re dei giudei. Il calendario greco parla di quattordicimila bambini sgozzati in tale occasione.

Questa, di tutte le azioni compiute da tutti i tiranni, è la più atroce. Non ne esistono di simili nella storia del mondo intero.

Eppure, il migliore scrittore che mai abbiano avuto gli ebrei, il solo stimato dai romani e dai greci, non fa menzione di questo avvenimento tanto singolare quanto spaventoso. Egli non parla nemmeno della nuova stella apparsa in oriente dopo la nascita del Salvatore: fenomeno straordinario, che non poteva sfuggire a uno storico così bene informato come Giuseppe. E tace anche delle tenebre che per tre ore, in pieno giorno, avvolsero la terra, alla morte del Salvatore; e della grande quantità di tombe che si spalancarono in quel momento e della folla di giusti che risuscitarono.

Gli studiosi non finiscono di stupirsi nel vedere che nessuno storico romano ha parlato di questi prodigi, avvenuti sotto l'impero di Tiberio, sotto gli occhi di un governatore romano e di una guarnigione romana, che doveva avere inviato all'imperatore e al senato un rapporto circostanziato del più miracoloso evento di cui gli uomini abbiano mai sentito parlare. Roma stessa doveva essere rimasta immersa per tre ore nelle tenebre più fitte; un tale prodigio avrebbe dovuto essere registrato nei fasti di Roma e in quelli di tutte le nazioni. Dio non ha voluto che queste cose divine fossero scritte da mani profane.

Gli stessi studiosi trovano inoltre parecchie difficoltà nella storia dei Vangeli: osservano che, in quello di Matteo, Gesù Cristo dice agli scribi e ai farisei che tutto il sangue innocente versato sulla terra dovrà ricadere su di loro, dal sangue di Abele il giusto, fino a Zaccaria, figlio di Barac, che essi hanno ucciso tra il tempio e l'altare.

Nella storia degli ebrei, dicono, non v'è traccia di alcuno Zaccaria ucciso nel tempio prima della venuta del Messia, né ai suoi tempi; uno Zaccaria compare invece nella storia dell'assedio di Gerusalemme, scritta da Giuseppe (capitolo XIX, libro IV); si tratta di Zaccaria, figlio di Barac, ucciso nel tempio dalla fazione degli zeloti. Perciò costoro sospettano che il Vangelo secondo Matteo sia stato scritto dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Tito. Ma tutti i dubbi e tutte le obiezioni di questa specie svaniscono se si considera l'infinita differenza che deve intercorrere tra i libri ispirati da Dio e i libri degli uomini. Dio ha voluto avvolgere la sua nascita, la sua vita e la sua morte in una nube tanto venerabile quanto oscura. Le sue vie sono del tutto diverse dalle nostre.

Gli studiosi si sono anche molto agitati sulla differenza fra le due genealogie di Gesù: san Matteo dà come padre a Giuseppe, Giacobbe; a Giacobbe, Mathan; a Mathan, Eleazaro. San Luca, invece, dichiara che Giuseppe era figlio di Eli; Eli, di Mattat; Mattat, di Levi; Levi di Jannai ecc... Essi non sanno conciliare i cinquantasei antenati che Luca attribuisce a Gesù, da Abramo in poi, con i quarantadue antenati diversi da quelli che Matteo gli attribuisce, sempre da Abramo in poi. E sono scandalizzati che Matteo, pur parlando di quarantadue generazioni, ne elenchi poi soltanto quarantuno.

Trovano inoltre altre difficoltà nel fatto che Gesù non è figlio di Giuseppe, ma di Maria. Cosi pure avanzano dubbi sui miracoli del nostro Salvatore, citando sant'Agostino, sant'Ilario e altri i quali attribuiscono ai racconti di questi miracoli un senso mistico, un senso allegorico: come a quello del fico maledetto e inaridito perché non aveva frutti, non essendo la stagione dei fichi; dei demoni inviati nei corpi dei maiali, in un paese dove non si allevavano maiali; dell'acqua mutata in vino alla fine di un banchetto, quando i convitati dovevano averne già bevuto anche troppo. Ma tutte queste critiche degli studiosi sono confuse dalla fede, la quale proprio per questo ne acquista in purezza. Lo scopo di questo articolo è soltanto quello di seguire il filo storico, e di dare un'idea precisa dei fatti sui quali nessuno disputa.

Anzitutto, Gesù nacque sotto la legge giudaica, fu circonciso secondo questa legge, ne seguì tutti i precetti, ne celebrò tutte le feste, e predicò soltanto la morale; non rivelò il mistero della sua incarnazione; non disse mai agli ebrei di essere nato da una vergine; ricevette la benedizione di Giovanni nell'acqua del Giordano (cerimonia cui si sottoponevano molti ebrei), ma non battezzò mai nessuno; non parlò mai dei sette sacramenti, e, finché visse, non istituì nessuna gerarchia ecclesiastica. Nascose ai suoi contemporanei di essere figlio di Dio, generato ab aeterno, consustanziale a Dio, e che lo Spirito Santo procedeva dal Padre e dal Figlio. Non disse mai che la sua persona era composta di due nature e di due volontà; volle che questi grandi misteri fossero annunciati agli uomini nel corso dei tempi, da coloro che sarebbero stati illuminati dalla luce dello Spirito Santo. Finché visse, non si discostò in nulla dalla religione dei suoi padri: si manifestò agli uomini come un giusto, caro a Dio, perseguitato dagli invidiosi e condannato a morte da magistrati ottusi. Volle che la sua Santa Chiesa, istituita da lui, facesse tutto il resto.

Giuseppe, nel capitolo XII della sua Storia, parla di una setta di ebrei rigoristi da poco fondata da un certo Giuda galileo: «Essi disprezzano i mali della terra; trionfano dei tormenti con la loro costanza; preferiscono la morte alla vita, quando la causa è onorevole. Hanno sofferto il ferro e il fuoco, si son fatti spezzare le ossa, piuttosto di pronunziare la minima parola contro il loro legislatore, o di mangiare carni vietate.»

Sembra che questo passo si riferisca ai giudaiti, e non agli esseni. Dice infatti lo stesso Giuseppe: «Giuda fu il fondatore di una nuova setta, del tutto diversa dalle altre tre, cioè da quella dei sadducei, dei farisei e degli esseni.» E ancora: «Essi sono stirpe ebrea: vivono uniti tra loro e considerano il piacere fisico come un vizio.» Il senso naturale di questa frase dimostra che Giuseppe ci parla dei giudaiti.

Comunque sia, questi giudaiti erano già noti prima che i discepoli del Cristo cominciassero a costituire nel mondo un partito considerevole.

I terapeuti erano una comunità diversa dagli esseni e dai giudaiti: somigliavano ai gimnosofisti delle Indie e ai brahmani. «Costoro,» dice Filone, «sentono un impulso d'amore celeste che li getta nell'entusiasmo delle baccanti e dei coribanti, e che li mette nello stato di contemplazione cui aspirano. Questa setta ebbe origine in Alessandria, dove gli ebrei erano numerosissimi, e si diffuse molto in Egitto.»

I discepoli di Giovanni Battista si diffusero anch'essi in Egitto, ma soprattutto in Siria e in Arabia; e ce ne furono anche nell'Asia minore. Negli Atti degli Apostoli (cap. XIX) è detto che Paolo ne incontrò parecchi a Efeso, e domandò loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo?» Essi risposero: «Ma non abbiamo neppur sentito dire che esista uno Spirito Santo.» Egli disse loro: «Con quale battesimo foste dunque battezzati?» Ed essi gli risposero: «Col battesimo di Giovanni.»

Nei primi anni dopo la morte di Gesù c'erano sette società o sètte diverse: i farisei, i sadducei, gli esseni, i giudaiti, i terapeuti, i discepoli di Giovanni e i discepoli di Cristo, di cui Dio guidava il piccolo gregge per sentieri sconosciuti alla sapienza umana.

Colui che maggiormente contribuì a fortificare questa società nascente fu quello stesso Paolo che con tanta crudeltà l'aveva perseguitata. Era nato a Tarso, in Cilicia, educato dal famoso dottore fariseo, Gamaliele, discepolo di Hillèl. Gli ebrei pretendono che egli ruppe con Gamaliele quando costui si rifiutò di dargli sua figlia in sposa. Si trova qualche traccia di questo aneddoto in fondo agli Atti di santa Tecla. Questi Atti riferiscono che egli aveva la fronte larga, la testa calva , le sopracciglia unite, il naso aquilino, il corpo corto e robusto, e le gambe storte. Luciano, nel suo Dialogo di Filopatride, ne fa un ritratto abbastanza simile. È assai dubbio che Paolo fosse cittadino romano, perché a quei tempi non si concedeva quel titolo a nessuno degli ebrei; essi erano stati cacciati da Roma da Tiberio, e Tarso divenne colonia romana solo cent'anni dopo sotto Caracalla, come riferiscono Cellario nella sua Geografia (libro III), e Grozio nei suoi Commentari sugli Atti.

I fedeli presero il nome di cristiani in Antiochia, verso l'anno 60 della nostra era, ma furono conosciuti nell'impero romano, come vedremo più in là, sotto altri appellativi. Prima si distinguevano solo con il nome di «fratelli», «santi» o «fedeli». Dio, che era sceso sulla terra per offrire un esempio di umiltà e di povertà, diede così alla sua Chiesa i più deboli inizi, e la diresse in quello stesso stato di umiliazione nel quale aveva voluto nascere. Tutti i primi fedeli furono uomini oscuri, tutti lavoravano con le loro mani. L'apostolo Paolo afferma che si guadagnava la vita fabbricando tende. San Pietro risuscitò una donna, Dorcas, che cuciva le vesti dei confratelli. L'assemblea dei fedeli a loppe (Giaffa) si teneva nella casa di un conciatore chiamato Simone, come è detto nel capitolo IX degli Atti degli Apostoli.

I fedeli si diffusero in segreto attraverso la Grecia, e qualcuno di lì passò a Roma, fra i giudei, cui i romani permettevano di avere una sinagoga. Sulle prime, non si separarono dagli ebrei; conservarono la circoncisione e, come si è già osservato altrove, i primi quindici vescovi di Gerusalemme furono tutti circoncisi.

Quando l'apostolo Paolo prese con sé Timoteo, che era di padre pagano, lo circoncise lui stesso, nella piccola città di Listra. Ma Tiro, altro suo discepolo, non volle sottomettersi alla circoncisione. I fratelli discepoli di Gesù restarono uniti agli ebrei sino al tempo in cui Paolo subì una persecuzione a Gerusalemme per aver condotto degli stranieri nel tempio. Era accusato dai giudei di voler distruggere la legge mosaica in nome di Gesù Cristo. Fu proprio perché fosse scagionato da questa accusa che l'apostolo Giacomo propose all'apostolo Paolo di farsi rasare il capo e di andare a purificarsi nel tempio con quattro giudei, che avevano fatto voto di radersi: «Prendili con te,» gli disse Giacomo (Atti degli Apostoli, cap. XXI), «e fatti purificare con loro. In tal modo tutti capiranno che nessuna delle notizie apprese nei tuoi riguardi è vera, ma che anche tu cammini nell'osservanza della legge.»

Così Paolo, che da principio era stato il sanguinario persecutore della comunità fondata da Gesù, Paolo, che volle poi governare quella stessa comunità nascente, Paolo, cristiano, giudaizza, perché tutti sappiamo che lo si calunnia, quando si dice che è cristiano; Paolo fa ciò che è considerato, oggi, fra tutti i cristiani, un delitto abominevole, un crimine che viene punito col rogo in Spagna, in Portogallo e in Italia; e fa questo per consiglio dell'apostolo Giacomo; e dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, ossia dopo essere stato istruito da Dio della necessità di rinunciare a tutti quei riti giudaici istituiti un tempo da Dio stesso!

Ciò nonostante Paolo fu accusato d'empietà e d'eresia e il suo processo durò a lungo; ma, dalle stesse accuse rivolte contro di lui, risulta chiaro che era venuto a Gerusalemme per osservare i riti giudaici.

Egli disse a Festo queste precise parole (cap. XXV degli Atti): «Non ho commesso alcun reato, né contro la legge dei Giudei, né contro il tempio.»

Gli apostoli annunciavano Gesù come giudeo, osservante della legge ebraica, inviato da Dio per farla rispettare.

«La circoncisione è utile,» dice l'apostolo Paolo (cap. II, Epistola ai Romani), «Se voi osservate la legge; ma se la trasgredite, la vostra circoncisione diventa incirconcisione. Se un incirconciso osserva la legge, sarà come circonciso. Il vero giudeo è colui che è giudeo interiormente.»

Quando questo apostolo parla di Gesù nelle sue Epistole, non rivela affatto il mistero ineffabile della sua consustanzialità con Dio: «Noi siamo liberati per mezzo suo,» dice (Epistola ai Romani, cap. V), «dalla collera di Dio. Per la grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, il dono di Dio si è riversato su di noi... La morte ha regnato per colpa di uno solo; i giusti regneranno nella vita in grazia di un solo uomo, che è Gesù Cristo.»

E, nel capitolo VIII: «Noi, eredi di Dio, e coeredi di Cristo.»

E nel capitolo XVI: «A Dio, che è il solo saggio, onore e gloria attraverso Gesù Cristo.» E: «Voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (I Epistola ai Corinzi, cap. III).

E infine (I Corinzi, cap. XV, v. 27) «Tutto gli è sottoposto, salvo indubbiamente Dio, il quale ha assoggettato a lui ogni cosa.»

Si è provata qualche difficoltà nello spiegare questo passaggio della Epistola ai Filippesi: «Non fate nulla per rivalità, nulla per vanagloria; ma con umiltà ciascuno ritenga gli altri migliori di sé; abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù che pure avendo natura di Dio, non giudicò sua rapina l'eguagliarsi a Dio.» Questo passo risulta perfettamente approfondito e messo in piena luce in una lettera delle chiese di Vienne e di Lione, scritta nel 117, prezioso monumento dell'antichità. In questa lettera è lodata la modestia di alcuni fedeli: «Essi non hanno voluto prendere, per qualche tribolazione patita, il gran titolo di martiri, sull'esempio di Gesù Cristo che, pur avendo natura di Dio, non reputò sua rapina la qualità di essere eguale a Dio.» Anche Origene dice, nel suo Commento a Giovanni, che la grandezza di Gesù tanto più rifulse quando egli si umiliò, tanto più «che se avesse fatto sua rapina d'essere uguale a Dio». D'altra parte, la spiegazione contraria sarebbe un evidente controsenso. Che mai significherebbe: «Credete gli altri superiori a voi, imitate Gesù, il quale non reputò una rapina, un'usurpazione, l'eguagliarsi a Dio»? Sarebbe evidentemente una contraddizione voler presentare un esempio di superbia per un esempio di modestia: sarebbe peccare contro il senso comune.

La saggezza degli apostoli fondava su tali basi la Chiesa nascente. E questa saggezza non venne alterata dalla disputa sopravvenuta poi tra gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, da un lato, e Paolo, dall'altro. Tale contrasto avvenne in Antiochia. L'apostolo Pietro, detto altrimenti Cefa o Simone figlio di Giona, mangiava con i gentili convertiti, e non osservava con loro le cerimonie della legge, né la distinzione delle carni; lui, Barnaba e altri discepoli mangiavano indifferentemente carne di maiale o di animali strozzati o di animali che avevano l'unghia del piede fessa e non ruminavano; ma essendo arrivati diversi ebrei cristiani, san Pietro tornò con loro all'astinenza delle carni proibite e alle cerimonie della legge mosaica.

Questa azione sembrava molto prudente: non voleva scandalizzare gli ebrei cristiani suoi compagni; ma san Paolo insorse contro di lui con una certa durezza. «Io gli resistetti,» dice nella sua Epistola ai Galati (cap. II), «perché il suo comportamento era biasimevole.»

Questa disputa sembra tanto più straordinaria da parte di san Paolo, in quanto, essendo stato dapprima un persecutore dei cristiani, avrebbe dovuto essere più moderato, e in quanto lui stesso si era recato a sacrificare nel tempio a Gerusalemme, aveva circonciso il suo discepolo Timoteo, e aveva compiuto quei riti ebraici che ora rimproverava a Cefa. San Girolamo sostiene che quella lite fra Paolo e Cefa era finita. Egli dice nella prima delle sue Omelie, tomo III, che essi fecero come due avvocati che si scaldano e si tirano stoccate in tribunale per avere maggiore autorità sui loro clienti; e che, Pietro Cefa essendo destinato a predicare agli ebrei e Paolo ai gentili, finsero di litigare, Paolo per conquistare i gentili, e Pietro gli ebrei. Ma sant'Agostino non è affatto di questo avviso: «Mi dispiace,» scrive nella sua Epistola a Gerolamo, «che un così grande uomo si faccia patrono della menzogna, patronum mendacii.»

Del resto, se Pietro era destinato agli ebrei giudaizzanti e Paolo agli stranieri, è assai probabile che Pietro non sia mai venuto a Roma. Gli Atti degli Apostoli non fanno nessuna menzione del suo viaggio in Italia.

Comunque, fu verso l'anno 60 della nostra era che i cristiani cominciarono a separarsi dalla comunione giudaica; e questo attirò su di loro una quantità di dispute e persecuzioni da parte delle sinagoghe diffuse a Roma, in Grecia, nell'Egitto e nell'Asia. Essi furono accusati d'empietà, di ateismo dai loro fratelli ebrei, che li scomunicavano nelle loro sinagoghe tre volte ogni sabato. Ma Dio li sostenne sempre in mezzo alle persecuzioni.

A poco a poco, si costituirono molte Chiese e la separazione tra ebrei e cristiani divenne completa. Tale separazione era ignorata dal governo romano. Il senato di Roma e gli imperatori non si interessavano alle dispute di una piccola setta che Dio aveva finora guidato nell'oscurità e che andava elevando per gradi insensibili.

Bisogna vedere in quale stato era allora la religione dell'impero romano. I misteri e le pratiche espiatorie erano accreditati in quasi tutto il mondo. Gli imperatori, è vero, i grandi e i filosofi non avevano nessuna fede in quei misteri; ma il popolo che, in fatto di religione, detta legge ai grandi, imponeva loro la necessità di conformarsi in apparenza al suo culto. Per incatenarlo, bisognava fingere di portare le sue stesse catene. Anche Cicerone fu iniziato ai misteri di Eleusi. La conoscenza di un solo Dio era il principale dogma che si annunziava in quelle feste misteriose e magnifiche. Va detto che le preghiere e gli inni di quei misteri, che ci sono pervenuti, sono quanto il paganesimo ha di più sentito e di più ammirabile.

Ai cristiani, che adoravano anch'essi un solo Dio, fu assai più facile convertire molti gentili. Alcuni filosofi della setta di Platone si fecero cristiani. Ecco perché i Padri della Chiesa dei primi tre secoli furono tutti platonici.

Lo zelo sconsiderato di alcuni non nocque affatto alle verità fondamentali. Fu rimproverato a Giustino, uno dei primi Padri, di avere scritto, nel suo Commento a Isaia, che i santi avrebbero goduto, in un regno di mille anni sulla terra, di tutti i piaceri dei sensi. Fu giudicato delittuoso l'aver detto, nella sua Apologia dei cristianesimo, che Dio, creato il mondo, ne lasciò la cura agli angeli, i quali, essendosi innamorati delle donne, ebbero da loro dei figli, che sono i demoni.

Furono condannati Lattanzio e altri Padri per avere accreditato certi oracoli delle Sibille. Lattanzio pretendeva che la Sibilla eritrea avesse composto questi quattro versi greci, di cui ecco la traduzione letterale:

Con cinque pani e due pesci

Nutrirà cinquemila uomini nel deserto;

e, raccogliendone gli avanzi che resteranno,

ne riempirà dodici panieri.

Ai primi cristiani venne anche rimproverato di essersi attribuiti alcuni versi acrostici di un'antica Sibilla, i quali cominciavano tutti con le lettere iniziali del nome di Gesù Cristo, ciascuna nel suo ordine. Si rimproverava loro di avere inventato l'esistenza di lettere di Gesù al re di Edessa nel tempo in cui non c'era nessun re ad Edessa, e lettere di Maria, lettere di Seneca a Paolo, lettere e atti di Pilato, falsi vangeli, falsi miracoli e mille altre imposture.

Abbiamo ancora la storia o il Vangelo della natività e del matrimonio della Vergine Maria ove è detto che, condotta al tempio all'età di tre anni, ne salì la scala da sola; vi è riferito che una colomba scese dal cielo per annunziare che Giuseppe doveva sposare Maria. Abbiamo il protovangelo di Giacomo, fratello di Gesù, nato da un primo matrimonio di Giuseppe. Vi è detto che, quando Maria rimase incinta durante l'assenza del marito e questi se ne lamentò, i sacerdoti fecero bere all'uno e all'altra l'acqua della gelosia e che tutti e due furono dichiarati innocenti.

Abbiamo il Vangelo dell'infanzia, attribuito a san Tommaso. Secondo questo Vangelo, Gesù, all'età di cinque anni si divertiva con altri bambini della sua età a modellare l'argilla, con cui formava uccellini; ne fu rimproverato, ed egli allora diede vita a quegli uccellini, che volarono via. Un'altra volta Gesù, picchiato da un ragazzino, lo fece morire all'istante. Abbiamo inoltre, in arabo, un altro Vangelo dell'infanzia, che è più serio.

C'è, poi, un Vangelo di Nicodemo. Questo sembra meritare maggiore attenzione, perché vi si trovano i nomi di coloro che accusarono Gesù davanti a Pilato; erano i capi della sinagoga: Anna, Caifa, Summas, Datam, Gamaliele, Giuda, Nèftali. In questa storia ci sono cose che si conciliano abbastanza con i Vangeli canonici, e altre che non si trovano altrove. Vi si legge che l'emorroissa si chiamava Veronica; vi si trova, inoltre, tutto quello che Gesù fece nell'inferno, quando vi discese.

Possediamo poi le due lettere che Pilato avrebbe scritto a Tiberio a proposito del supplizio di Gesù; ma il cattivo latino in cui sono scritte ne rivela abbastanza chiaramente la falsità.

Si spinse il falso zelo fino a far circolare parecchie lettere di Gesù Cristo. È stata conservata la lettera che si dice egli abbia scritto ad Abgara, re di Edessa: ma allora non c'erano più re di Edessa!

Vennero fabbricati cinquanta Vangeli che furono, in seguito, dichiarati apocrifi. Lo stesso san Luca ci dà notizia di molte persone che ne avevano composti. Si credette che ce ne fosse uno chiamato Vangelo eterno, sulla base di quanto è detto nell'Apocalisse, capitolo XIV: «Ho visto un angelo che volando in mezzo al cielo, recava il Vangelo eterno.» I cordiglieri, travisando queste parole, composero nel XIII secolo un Vangelo eterno, secondo il quale il regno dello Spirito Santo doveva sostituire quello di Gesù Cristo; ma nei primi secoli della Chiesa, non comparve nessun libro recante questo titolo.

Si diffusero anche false lettere della Vergine, scritte a sant'Ignazio martire, agli abitanti di Messina e ad altri.

Abdìa, che succedette immediatamente agli apostoli, scrisse la loro storia, alla quale mescolò delle favole così assurde, che quelle storie finirono, col tempo, con l'essere interamente screditate; ma sulle prime esse ebbero grande diffusione. Fu Abdìa a riferire la lotta di san Pietro con Simone Mago. C'era infatti a Roma un meccanico abilissimo chiamato Simone, il quale non solo faceva eseguire voli agli attori nei teatri, come oggi, ma rinnovò lui stesso il prodigio attribuito a Dedalo: si fabbricò delle ali, volò e cadde come Icaro; è quanto riferiscono Plinio e Svetonio.

Abdìa, che viveva in Asia e scriveva in ebraico, pretende che san Pietro e Simone si siano incontrati a Roma ai tempi di Nerone. Un giovane, parente stretto dell'imperatore, morì; tutta la corte pregò Simone di risuscitarlo. San Pietro si presentò a sua volta per fare questa operazione. Simone impiegò tutte le regole della sua arte, e parve riuscire: il morto mosse la testa. «Non è abbastanza,» gridò san Pietro; «bisogna che il morto parli; che Simone si allontani dal letto, e si vedrà se questo giovane è in vita.» Simone si allontanò, il morto non si mosse più, e Pietro gli rese la vita con una sola parola.

Simone andò a lamentarsi dall'imperatore, che un miserabile galileo osava far prodigi più grandi dei suoi. Pietro comparve con Simone, e insieme gareggiarono a chi fosse superiore, ognuno nell'arte sua. «Dimmi che cosa penso,» disse Simone a Pietro. «Che l'imperatore mi dia un pane d'orzo,» replicò Pietro, «e vedrai se non so che cosa pensi.» Gli venne dato un pane. Subito Simone fece apparire due grossi cani che volevano divorare Pietro. Pietro gettò loro il pane, e mentre essi lo mangiavano, disse: «Ebbene, lo sapevo o no quel che stavi pensando? Tu volevi farmi divorare dai tuoi cani.»

Dopo questa prima prova, fu proposta a Simone e a Pietro la gara del volo, per vedere chi sarebbe salito più in alto. Simone cominciò, san Pietro si fece il segno della croce e Simone si ruppe le gambe. Questo racconto era imitato da quello che si trova nel Sepher toldos Jeschut, dove è detto che Gesù stesso volò e che Giuda, volendo fare altrettanto, precipitò al suolo.

Nerone, infuriato al pensiero che Pietro avesse fatto rompere le gambe al suo favorito Simone, fece crocifiggere Pietro a testa in giù; è da qui che si stabilì la credenza del soggiorno di Pietro a Roma, del suo supplizio e del suo sepolcro.

Fu ancora Abdìa a diffondere la credenza che san Tommaso andò a predicare il cristianesimo nelle Indie, presso il re Gondafer, e che vi andò in qualità di architetto.

La quantità di libri di questa specie scritti nei primi secoli del cristianesimo è prodigiosa. San Girolamo e lo stesso sant'Agostino pretendono che le lettere di Seneca a san Paolo siano assolutamente autentiche. Nella prima lettera, Seneca si augura che il suo fratello Paolo stia bene. «Bene te valere, frater, cupio.» Paolo non parla certo il bel latino di Seneca.

«Ho ricevuto ieri le vostre belle lettere,» dice, «con gioia. Litteras tuas hilaris accepi; avrei risposto subito, se fosse stato presente il giovine che vi avrei inviato: si praesentiam juvenis habuissem.» Del resto, tali lettere, che dovrebbero essere istruttive, contengono solo dei complimenti.

Tante menzogne fabbricate da cristiani male istruiti e animati da falso zelo non recarono nessun pregiudizio alla verità del cristianesimo, e non nocquero affatto alla sua diffusione; al contrario, ci fan vedere che la comunità cristiana aumentava di giorno in giorno e che ogni membro voleva contribuire al suo sviluppo.

Gli Atti degli Apostoli non dicono ch'essi fossero d'accordo su un Simbolo. Se avessero effettivamente redatto il Simbolo, il Credo, quale noi l'abbiamo, san Luca non avrebbe certo omesso nella sua storia questo fondamento essenziale della religione cristiana; la sostanza del Credo è sparsa nei Vangeli, ma gli articoli non furono riuniti che molto tempo dopo.

Il nostro Simbolo, in una parola, è incontestabilmente la credenza degli apostoli, ma non è un testo scritto da loro. Il primo che ne parla è Rufino, un prete di Aquileia; e un'omelia attribuita a sant'Agostino è il primo monumento che supponga il modo in cui fu composto questo Credo. Pietro dice nell'assemblea: Io credo in Dio padre onnipotente; Andrea dice: e in Gesù Cristo; Giacomo aggiunge: che è stato concepito dallo Spirito Santo; e così di seguito.

Tale formula si chiama $óýìâïëïí$, in greco, e collatio in latino. C'è solo da osservare che il greco dice: «Io credo in Dio padre onnipotente, che fece il cielo e la terra» $Ðéóôåýù åkò fíá žå'í ðáôÝñá ðáíôïêñÜôïñá, ðïéçôxí ïšñáíï(tm) êár ãyò$); e che il latino traduce $ ðïéçôxí$, «facitore», «formatore», con creatorem. Più tardi, al primo concilio di Nicea, si adottò factorem.

Il cristianesimo si stabilì dapprima in Grecia. Qui i cristiani ebbero da lottare contro una nuova setta di giudei, diventati filosofi a forza di frequentare i greci, la setta della Gnosi, o degli gnostici; ad essa si mescolarono molti nuovi cristiani. Tutte queste sette godevano allora della piena libertà di dogmatizzare, di parlare e di scrivere; però sotto Domiziano la religione cristiana cominciò a dare qualche ombra al governo.

Ma lo zelo di qualche cristiano, che non era secondo scienza, non impedì alla Chiesa di compiere i progressi che Dio le destinava. I cristiani celebrarono i loro misteri in case solitarie, in cantine, durante la notte; di qui (secondo Minucio Felice) fu dato loro il nome di lucifugaces. Filone li chiama gesseeni. I loro nomi più comuni nei primi quattro secoli, presso i gentili, erano quelli di galilei e di nazareni; ma il nome di cristiani prevalse su tutti gli altri.

Né la gerarchia né le pratiche rituali furono istituite tutte in una volta; i tempi apostolici furono differenti da quelli che li seguirono. San Paolo, nella sua I Lettera ai Corinzi, ci informa che, quando i fratelli, circoncisi o incirconcisi, erano riuniti, se parecchi profeti volevan parlare, solo due o tre potevano farlo; e che se qualcuno, nel frattempo, aveva una rivelazione, il profeta che aveva preso la parola doveva tacere.

È su questa usanza della Chiesa primitiva che si fondano ancora oggi alcune comunioni cristiane, che tengono assemblee senza gerarchia. Era permesso a tutti di parlare in chiesa, eccettuate le donne. È vero che Paolo proibisce loro di parlare, nella I Lettera ai Corinzi, ma nella stessa lettera, al capitolo XI, v. 5, sembra anche autorizzarle a predicare o profetizzare: «Ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, disonora il suo capo»; è come se essa fosse stata rasata. Le donne credettero che fosse loro permesso parlare, purché si coprissero il capo con un velo.

Quel che è oggi la santa messa, che si celebra al mattino, era la cena, che si teneva la sera; queste usanze cambiarono, via via che la Chiesa si consolidò. Una società più estesa esigeva più regolamenti, e la prudenza dei pastori si conformò ai tempi e ai luoghi.

San Girolamo ed Eusebio riferiscono che, quando le chiese ricevettero una forma precisa, vi si distinsero a poco a poco cinque ordini differenti: i sorveglianti, $dðßóêïðïé$, da cui sono venuti i nostri vescovi; gli anziani della società, $ðñåóâýôåñïé$, i preti; i $äéÜêïíïé$, cioè i servi e i diaconi; i $ðßóôïé$, o credenti, iniziati, vale a dire i battezzati, che prendevano parte alle cene dette «agapi»; e i catecumeni ed energumeni, che erano in attesa del battesimo. Nessuno, in questi cinque ordini, portava un abito diverso dagli altri; nessuno, come testimoniano il libro di Tertulliano dedicato a sua moglie, o l'esempio degli apostoli, era costretto al celibato. Nessuna rappresentazione, sia in pittura che in scultura, nelle loro assemblee durante i primi tre secoli. I cristiani nascondevano accuratamente i loro libri ai gentili; non li confidavano che agli iniziati, non era nemmeno permesso ai catecumeni di recitare l'orazione domenicale.

Quel che distingueva soprattutto i cristiani e che è durato sino al nostri tempi, era il potere di cacciare i demoni con il segno della croce. Origene, nel suo trattato Contro Celso ($êNôá ÊÝëóïí$), al paragrafo 133, ammette che Antinoo, divinizzato dall'imperatore Adriano, faceva miracoli in Egitto, in virtù di incanti e sortilegi; ma dice che i diavoli uscivano dai corpi degli ossessi solo se si pronunziava il nome di Gesù.

Tertulliano va oltre e, dal fondo dell'Africa dove abitava, dice, nel suo Apologeticum, capitolo XXIII: «Se i vostri dei non confessano, davanti a un vero cristiano, di essere dei diavoli, noi consentiamo che voi spargiate il sangue di questo cristiano.» C'è una dimostrazione più chiara di questa?

Di fatto, Gesù Cristo inviò i suoi apostoli per cacciare i demoni. Anche gli ebrei avevano in quel tempo il dono di cacciarli, perché, quando Gesù ebbe liberato degli ossessi mandando i diavoli nei corpi di una mandria di porci, ed ebbe operato altre guarigioni simili, i farisei dissero: «Egli caccia i demoni con la potenza di Belzebù.» «Ma se io li caccio in nome di Belzebù,» replicò Gesù, «in nome di chi li cacciano i vostri figli?» È incontestabile che i giudei si vantavano di questo potere; avevano esorcisti ed esorcismi. Si invocava il nome del Dio di Giacobbe e di Abramo; si mettevano nel naso degli indemoniati erbe consacrate (Giuseppe riferisce una parte di queste pratiche). Questo potere sui diavoli, che i giudei hanno perduto, fu trasmesso ai cristiani, i quali, da un po' di tempo in qua, sembrano averlo anche loro.

Nel potere di cacciare i demoni era compreso quello di distruggere le operazioni di magia: perché la magia fu sempre in vigore in tutte le nazioni. Tutti i Padri della Chiesa attestano l'esistenza della magia. San Giustino, nel libro III della sua Apologia, conferma che spesso si evocano le anime dei morti, e ne trae un argomento in favore dell'immortalità dell'anima. Lattanzio, nel libro VII delle sue Divinae institutiones, dice che «se si osasse negare l'esistenza delle anime dopo la morte, il mago vi convincerebbe subito del contrario, facendole apparire». Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, il vescovo Cipriano, affermano tutti la medesima cosa. È vero che oggi tutto è cambiato, e che non ci sono più né maghi, né indemoniati; ma se ne troverà, quando piacerà a Dio.

Quando le comunità cristiane divennero un po' numerose e parecchie si opposero al culto dell'impero romano, i magistrati infierirono contro di esse, e il popolo soprattutto le perseguitò. Non si perseguitavano i giudei, che avevano dei privilegi particolari e se ne stavano chiusi nelle loro sinagoghe; si permetteva loro l'esercizio della loro religione, come si fa ancora oggi a Roma; tutti i culti diffusi nell'impero erano consentiti, anche se il senato non li adottava.

Ma i cristiani, dichiarandosi nemici di tutti questi culti, e soprattutto di quello dell'impero, furono sottoposti più volte a prove crudeli.

Uno dei primi e più noti martiri fu Ignazio, vescovo d'Antiochia, condannato dallo stesso imperatore Traiano, allora in Asia, e inviato per suo ordine a Roma per essere esposto alle belve, in un momento in cui non si massacravano a Roma altri cristiani. Non si sa di che cosa fosse accusato da quell'imperatore, rinomato d'altronde per la sua clemenza: è certo che sant'Ignazio ebbe nemici molto accaniti. Comunque sia, la storia del suo martirio riferisce che gli si trovò inciso sul cuore, in caratteri d'oro, il nome di Gesù Cristo; per questo i cristiani presero in certi paesi il nome di «teofori», che Ignazio si era dato.

Ci è stata conservata una sua lettera, nella quale egli prega i vescovi e gli altri cristiani di non opporsi al suo martirio, sia che sin da allora i cristiani fossero abbastanza potenti per liberarlo, sia che qualcuno fra loro godesse di tanto credito da ottenergli la grazia. Va notato, in particolare che fu permesso ai cristiani di Roma di andargli incontro, quando fu condotto nella capitale: e questo prova chiaramente che in lui si puniva la persona, non la setta.

Le persecuzioni non furono continue. Origene, nel suo libro III Contro Celso, dice: «Si possono facilmente contare i cristiani morti per la loro religione, perché ne sono morti pochi e solo di tanto in tanto, a intervalli.»

Dio ebbe sì gran cura della sua Chiesa, che, malgrado i suoi nemici, fece in modo che essa potesse tenere cinque concili (vale a dire assemblee tollerate) nel primo secolo, sedici nel secondo e trenta nel terzo. Queste assemblee vennero qualche volta proibite, quando la falsa prudenza dei magistrati temette che dessero luogo a tumulti. Ci sono rimasti pochi processi verbali dei proconsoli e dei pretori che condannarono i cristiani a morte: sarebbero i soli atti che permetterebbero di constatare le accuse mosse contro di loro, e i loro supplizi.

Abbiamo un frammento di Dionigi d'Alessandria, nel quale egli riporta l'estratto di un verbale di un proconsole in Egitto, sotto l'imperatore Valeriano; eccolo:

Introdotti in udienza Dionigi, Fausto, Massimo, Marcello e Cheremone, il prefetto disse loro: «Voi avete potuto conoscere, dai colloqui che ho avuto con voi e da tutto quello che vi ho scritto, quanto i nostri governanti abbiano mostrato bontà nei vostri riguardi; voglio ancora ripetervelo: essi fanno dipendere la vostra conservazione e la vostra salvezza da voi stessi e il vostro destino è nelle vostre mani. Da voi chiedono una sola cosa, che la ragione esige da ogni persona ragionevole: che voi adoriate gli dei protettori dell'impero, e che abbandoniate quest'altro culto così contrario alla natura e al buon senso.»

Dionigi rispose: «Non tutti hanno gli stessi dei, e ognuno adora quelli che crede veramente tali.»

Il prefetto Emiliano replicò: «Vedo bene che siete degli ingrati, che abusate della bontà che gli imperatori mostrano per voi. Ebbene! voi non potrete più rimanere in questa città, e io vi mando a Cefro, in fondo alla Libia: là resterete in esilio, secondo l'ordine che ho ricevuto dai nostri imperatori; del resto, non pensare di tenerci le vostre assemblee, né di andare a recitare le vostre preghiere in quei luoghi che chiamate cimiteri: questo vi è assolutamente proibito, e io non lo permetterò a nessuno.»

Niente presenta, come questo processo verbale, i caratteri della verità. Da esso si vede che vi furono tempi in cui le assemblee erano proibite. Così oggi, fra noi, è proibito ai calvinisti di riunirsi in Linguadoca; talvolta, anzi, abbiamo fatto impiccare o arrotare i loro ministri o predicatori che tenevano riunioni contro la legge. Così in Inghilterra e in Irlanda le assemblee sono proibite ai cattolici romani; ci furono casi in cui i trasgressori furono condannati a morte.

Nonostante questi divieti imposti delle leggi romane, Dio ispirò a molti imperatori indulgenza verso i cristiani. Lo stesso Diocleziano, che presso gli ignoranti passa per un persecutore, Diocleziano, il cui primo anno di regno segna il principio dell'era dei martiri, fu per più di diciotto anni protettore dichiarato del cristianesimo, al punto che molti cristiani ebbero cariche importanti presso la sua persona. Egli permise persino che a Nicomedia, sua residenza, vi fosse una superba chiesa innalzata di fronte al suo palazzo; inoltre, sposò una cristiana.

Il cesare Galerio, malauguratamente - e, a suo parere, giustamente - prevenuto verso i cristiani, esortò Diocleziano a far distrugger la cattedrale di Nicomedia. Un cristiano, più zelante che saggio, lacerò l'editto dell'imperatore; e di qui nacque quella persecuzione tanto famosa, nella quale più di duecento persone vennero messe a morte in tutto l'impero romano, senza contare quelli che il furore del popolino, sempre fanatico e sempre barbaro, poté far morire contro le forme giuridiche.

Vi fu, in tempi diversi, un così gran numero di martiri, che bisogna star bene attenti a non intaccare l'autorità della storia di questi autentici confessori della nostra santa religione con un pericoloso miscuglio di favole e di falsi martiri.

Il benedettino don Ruinart, per esempio, uomo d'altronde tanto istruito quanto stimabile e zelante, avrebbe dovuto scegliere con maggior discrezione i suoi Acta primorum martyrorum sincera et selecta. Non è sufficiente che un manoscritto provenga dall'abbazia di Saint-Benôit-sur-Loire o da un convento dei celestini a Parigi, conforme a un manoscritto dei foglianti, perché questo «atto» sia autentico: bisogna che sia antico, scritto da contemporanei, e che presenti inoltre tutti i caratteri della verità.

Don Ruinart avrebbe potuto fare a meno, per esempio, di riferire l'avventura del giovane Romano, accaduta nel 303. Il giovane in questione aveva ottenuto il perdono di Diocleziano in Antiochia; tuttavia Ruinart dice che il giudice Asclepiade lo condannò ad essere bruciato. Alcuni ebrei presenti a questo spettacolo schernirono il giovane san Romano e rinfacciarono ai cristiani che il loro dio li lasciava bruciare, mentre il dio degli ebrei aveva liberato Sidrac, Misac e Abdenago dalla fornace; ma ecco levarsi, in pieno sole, un temporale che spense il fuoco. Allora il giudice ordinò che al giovane Romano venisse tagliata la lingua. Il primo medico dell'imperatore, trovandosi là, assolse la funzione di boia, e gli tagliò la lingua alla radice; subito il giovane, che prima era balbuziente, si mise a parlare normalmente: l'imperatore restò sbalordito al sentir parlare così bene senza lingua; e il medico, per ripetere l'esperienza, tagliò in quattro e quattr'otto la lingua a un passante che ne morì di colpo.

Eusebio, dal quale il benedettino Ruinart ha tratto questo racconto, avrebbe dovuto rispettare abbastanza i miracoli dell'Antico e del Nuovo Testamento (dei quali nessuno dubiterà mai) e non associarli a storie così sospette che potrebbero scandalizzare le fedi deboli.

Quest'ultima persecuzione non si estese a tutto l'impero.

C'erano allora in Inghilterra manifestazioni di cristianesimo, che presto si spensero per riaccendersi poi sotto i re sassoni. La Gallia meridionale e la Spagna pullulavano di cristiani. Il cesare Costanzo Cloro li protesse molto in tutte queste province. Egli aveva una concubina che era cristiana: è la madre di Costantino, conosciuta sotto il nome di sant'Elena. Non ci fu mai tra loro un regolare matrimonio; anzi, nel 292 egli la ripudiò e sposò la figlia di Massimiano Ercole; ma Elena aveva conservato su di lui un forte ascendente e gli aveva ispirato un grande rispetto per la nostra santa religione.

La divina Provvidenza preparò, per vie che sembrano umane, il trionfo della sua Chiesa. Costanzo Cloro morì nel 306 a York in Inghilterra, in un tempo in cui i figli che aveva avuto dalla figlia di un cesare erano ancora in tenera età e non potevano quindi pretendere di governare l'impero. Costantino ebbe il coraggio di farsi eleggere a York da cinque o seimila soldati, per la maggior parte germanici, galli e inglesi. Sembrava poco probabile che una tale elezione, fatta senza il consenso di Roma, del Senato e delle legioni, potesse essere valida; ma Dio gli diede la vittoria su Massenzio, eletto a Roma, e lo liberò poi da tutti i suoi colleghi. Non si può tacere che sulle prime Costantino si rese indegno dei favori celesti; infatti assassinò tutti i suoi congiunti, sua moglie e suo figlio.

Si può dubitare di ciò che riferisce Zosimo in proposito. Egli dice che Costantino, agitato dai rimorsi dopo tanti delitti, domandò ai pontefici dell'impero se ci fossero espiazioni per lui, e quelli gli risposero che non ne conoscevano. È ben vero che non ce n'erano state neanche per Nerone, il quale non aveva osato assistere ai sacri misteri in Grecia. Eppure erano in uso i tauroboli, ed è assai difficile credere che un imperatore onnipotente non abbia potuto trovare un sacerdote che volesse accordargli sacrifici espiatori. Forse è ancora meno credibile che Costantino, tutto preso dalla guerra, dalla sua ambizione, dai suoi progetti, e circondato da adulatori, abbia trovato il tempo di provare rimorsi. Zosimo aggiunge che un sacerdote egiziano, arrivato dalla Spagna, e che aveva accesso all'imperatore, gli promise l'espiazione di tutti i suoi delitti nella religione cristiana. Si è pensato che questo sacerdote fosse Osio, vescovo di Cordova.

Comunque sia, Costantino si tenne a contatto con i cristiani, pur continuando a restare semplice catecumeno, e rimandando il battesimo al momento della morte. Egli fece costruire la città di Costantinopoli, che diventò il centro dell'impero e della religione cristiana. Da allora la Chiesa prese una forma augusta.

È da notare che dall'anno 314, prima che Costantino si trasferisse nella nuova capitale, quelli che avevano perseguitato i cristiani furono da questi puniti per le loro crudeltà. I cristiani gettarono la moglie di Massimiano nell'Oronte, e sgozzarono i suoi parenti; massacrarono in Egitto e in Palestina i magistrati che si erano dichiarati più avversi al cristianesimo. La vedova e la figlia di Diocleziano, che si erano nascoste a Tessalonica, furono riconosciute e i loro corpi vennero gettati in mare. Sarebbe stato augurabile che i cristiani avessero dato meno retta allo spirito di vendetta; ma Dio, che punisce secondo giustizia, volle che le mani di cristiani si tingessero del sangue dei loro persecutori, non appena essi si trovarono in libertà d'agire.

Costantino convocò e riunì in Nicea, di fronte a Costantinopoli, il primo concilio ecumenico, presieduto da Osio. Vi si decise la grande questione che agitava la Chiesa riguardo la divinità di Gesù Cristo. Gli uni si facevano forti dell'opinione di Origene, che nel capitolo VI Contro Celso aveva scritto: «Noi presentiamo le nostre preghiere a Dio per tramite di Gesù, che sta nel mezzo tra le nature create e la natura increata, che ci comunica la grazia del Padre suo, e presenta le nostre preghiere al sommo Dio, in qualità di nostro pontefice.» Essi si rifacevano anche ad alcuni passi di san Paolo, che abbiamo in parte già citati. Soprattutto si basavano su queste parole di Gesù: «Mio padre è più grande di me,» e consideravano Gesù come il primogenito della creazione, come la più pura emanazione dell'Essere supremo, ma non precisamente come Dio.

Gli altri, che erano ortodossi, allegavano passi più conformi all'eterna divinità di Gesù. Questo, ad esempio: «Mio padre ed io siamo una medesima cosa»; parole che i loro avversari interpretavano come significanti: «Mio padre ed io abbiamo lo stesso scopo, la stessa volontà; io non ho altri desideri che quelli di mio padre.» Alessandro, vescovo d'Alessandria, e, dopo di lui, Atanasio, erano a capo degli ortodossi; ed Eusebio, vescovo di Nicomedia, con diciassette altri vescovi, il prete Ario, e parecchi altri preti, erano del partito opposto. Il dissidio si inasprì a tal punto che sant'Alessandro trattò i suoi avversari da anticristi.

Infine, dopo moltissime dispute, lo Spirito Santo così decise nel concilio, per bocca di 299 vescovi contro 18: «Gesù è figlio unico di Dio, generato dal Padre, ossia dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio, consustanziale al Padre; e noi crediamo anche nello Spirito Santo ecc.» Questa la formula del concilio. Si vede da questo esempio quanto i vescovi prevalessero sui semplici preti: stando al rapporto dei due patriarchi d'Alessandria che scrissero la cronaca di Alessandria in arabo, duemila persone del secondo ordine erano del parere di Ario.

Ario fu esiliato da Costantino; ma anche Atanasio fu esiliato quasi subito, e Ario venne richiamato a Costantinopoli; ma san Macario pregò con tanto ardore Dio di far morire Ario prima che egli potesse entrare nella cattedrale, che Dio esaudì la sua preghiera. Ario morì mentre si recava in chiesa, nel 330. L'imperatore Costantino chiuse la propria vita nel 337. Affidò il suo testamento a un prete ariano e morì tra le braccia del capo degli ariani Eusebio, vescovo di Nicomedia, dopo essersi fatto battezzare sul letto di morte, e lasciando la Chiesa trionfante ma divisa.

I partigiani di Atanasio e quelli di Eusebio si fecero una guerra crudele, e quello che vien chiamato arianesimo fu per molto tempo in vigore in tutte le province dell'impero.

Giuliano, il filosofo, soprannominato l'Apostata, tentò di conciliare tali divisioni, ma non ci riuscì.

Il secondo concilio universale fu tenuto a Costantinopoli nel 381. Vi si precisò quello che il concilio di Nicea non aveva ritenuto opportuno dire sullo Spirito Santo, aggiungendo alla formula di Nicea che «lo Spirito Santo è Signore di vita, che procede dal Padre ed è adorato e glorificato con il Padre e con il Figlio».

Solo verso il IX secolo la Chiesa latina stabilì per gradi che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio.

Nel 431, il terzo concilio generale tenuto ad Efeso decise che Maria era veramente Madre di Dio e che Gesù aveva due nature e una sola persona. Nestorio, vescovo di Costantinopoli, che voleva che la Santa Vergine fosse chiamata solo Madre di Cristo, fu dichiarato Giuda dal concilio, e la duplice natura di Gesù fu ancora confermata dal concilio di Calcedonia.

Sorvolerò sui secoli successivi, che sono abbastanza noti. Purtroppo, non ce ne fu una di queste dispute che non causasse guerre, e la Chiesa fu sempre obbligata a combattere. Dio permise ancora, per mettere alla prova la pazienza dei fedeli, che nel IX secolo, i greci e i latini rompessero tra loro per sempre; e permise pure che in occidente avvenissero ventinove sanguinosi scismi per la cattedra di Roma.

Intanto la Chiesa greca quasi per intero e tutta la Chiesa d'Africa caddero sotto il dominio degli arabi, e poi dei turchi, i quali elevarono la religione maomettana sulle rovine di quella cristiana. La Chiesa romana sopravvisse, ma sempre macchiata del sangue di più di sei secoli di discordie fra l'impero d'occidente e il papato. Tali discordie, d'altronde, la resero potentissima. I vescovi e gli abati, in Germania, divennero tutti principi, e i papi acquistarono poco a poco la sovranità assoluta su Roma e in un territorio di cento leghe. Così Dio provò la sua Chiesa con le umiliazioni, con i disordini e con lo splendore.

Questa Chiesa latina perdette nel secolo XVI metà della Germania, la Danimarca, la Svezia, l'Inghilterra, la Scozia, l'Irlanda, la Svizzera, l'Olanda; guadagnò in America, con le conquiste spagnole, più territori di quanti ne perdette in Europa; ma, con un territorio più vasto, ha molto meno sudditi.

La Provvidenza divina sembrava destinasse il Giappone, il Siam, l'India e la Cina a schierarsi sotto l'autorità del papa, per ricompensarlo dell'Asia minore, della Siria, della Grecia, dell'Egitto, dell'Africa, della Russia e degli altri stati perduti di cui abbiamo parlato. San Francesco Saverio, che portò il santo Vangelo nelle Indie orientali e in Giappone, quando i portoghesi vi andarono a cercar mercanzie, fece un grandissimo numero di miracoli tutti attestati dai Revv. Padri Gesuiti: alcuni dicono che egli risuscitò nove morti; ma il Rev. P. Ribadeneira, nel suo Fiore dei Santi, si limitò a dire che ne risuscitò soltanto quattro: non sono pochi. La Provvidenza volle che in meno di cento anni ci fossero migliaia di cattolici romani nelle isole del Giappone; ma il diavolo seminò la zizzania in mezzo al buon grano. Nel 1638, i cristiani ordinarono una congiura seguita da una guerra civile, nella quale furono tutti sterminati. Allora il paese chiuse i suoi porti a tutti gli stranieri, eccettuati gli olandesi, considerati alla stregua di semplici mercanti, e non di cristiani, e che sulle prime furono obbligati a calpestare la croce per ottenere il permesso di vendere le loro mercanzie nella prigione dove li si rinchiuse, quando sbarcarono a Nagasaki.

In Cina la religione cattolica, apostolica romana fu proscritta in epoca recente, ma in modo meno crudele. I Revv. Padri Gesuiti non avevano, a dire il vero, risuscitato dei morti alla corte di Pechino: si erano limitati a insegnare l'astronomia, a fondere cannoni e a diventare mandarini. Le loro sciagurate dispute con i domenicani e con altri scandalizzarono a tal punto il grande imperatore Yong-Cing che quel sovrano, che era la giustizia e la bontà in persona, fu tanto cieco da non volere più permettere che si insegnasse la nostra santa religione, sulla quale i nostri missionari non si trovavano d'accordo. Egli li cacciò con paterna bontà, fornendo loro viveri e veicoli fino ai confini del suo impero.

Tutta l'Asia, tutta l'Africa, metà dell'Europa, tutto ciò che appartiene agli inglesi e agli olandesi in America, tutte le tribù nomadi americane non sottomesse, tutte le terre australi, che sono la quinta parte del globo, sono rimaste preda del demonio, affinché si avverasse il santo detto: «Molti sono i chiamati, pochi gli eletti.»

Se è vero che sulla terra vivono circa 1600 milioni di uomini, come sostengono alcuni studiosi, la Santa chiesa romana cattolica universale ne possiede all'incirca sessanta milioni: ossia più della ventiseiesima parte degli abitanti del mondo conosciuto.



[Modificato da Claudio Cava 04/06/2007 21.19]






“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 21:31
 
Quota

C - D

CRITICA



Non pretendo parlare qui della critica degli scoliasti, che restaura e commenta, rendendola oscura, la parola di un autore antico, che prima si capiva benissimo. Né voglio accennare a quelle vere critiche che hanno reso chiara quanto più possibile la storia e la filosofia antiche. Mi riferisco a quelle critiche che appartengono alla satira.

Un amatore di letteratura leggeva un giorno con me il Tasso; mise gli occhi su questa ottava:

Chiama gli abitator dell'ombre eterne

il rauco suon de la tartarea tromba.

Treman le spaziose atre caverne;

e l'aer cieco a quel rumor rimbomba:

né sì stridendo mai da le superne

regioni del cielo il folgor piomba,

né sì scossa già mai trema la terra

quando i vapori in sen gravida serra.

Egli lesse poi a caso parecchie ottave di questa forza e armonia: «Ah! È dunque questo,» esclamò, «ciò che il vostro Boileau chiama "orpello"? Così dunque pretende di sminuire un grand'uomo che viveva cent'anni prima di lui, per meglio innalzare un altro grand'uomo, Virgilio, vissuto milleseicento anni prima, e che avrebbe certo reso giustizia al Tasso?» «Consolatevi,» risposi, «prendiamo i melodrammi di Quinault.»

Trovammo subito, ad apertura di libro, di che incollerirci con la critica: ecco qua il mirabile poema Armide, in cui leggemmo questi versi:

Sidonie

La haine est affreuse et barbare,

L'amour contraint les coeurs dont il s'empare

À souffrir des maux rigoureux.

Si votre sort est en votre puissance,

Faites choix de l'indifférence:

Elle assure un sort plus heureux.

Armide

Non, non, il ne m'est pas possible

De passer de mon trouble en un état paisible,

Mon coeur ne se peut plus calmer;

Renaud m'offense trop, il n'est que trop aimable;

C'est pour moi désormais un choix indispensable

De le haïr ou de l'aimer.

Leggemmo tutto il dramma, in cui il genio del Tasso riceve ancora nuove grazie dal talento di Quinault. «Ebbene!» dissi al mio amico, «questo è proprio quel Quinault che Boileau si sforzò sempre di considerare come il più spregevole degli scrittori; persuase persino Luigi XIV che questo scrittore grazioso, commovente, patetico, elegante, non aveva altri meriti se non quelli che traeva dalla musica di Lulli.» «È facile capirlo,» rispose il mio amico; «Boileau non era geloso del musicista, ma del poeta. Che credito possiamo dare al giudizio di un uomo che, per rimare un verso che finisce in aut, denigra ora Boursault, ora Hénault, ora Quinault, a seconda che si trovi in buoni o cattivi rapporti con questi signori?

«Ma, per non lasciar raffreddare il vostro zelo contro l'ingiustizia, ecco, affacciatevi a quelle finestre, guardate quella bella facciata del Louvre, con cui Perrault si è immortalato: quell'uomo di merito era fratello di un dottissimo accademico, con cui Boileau aveva avuto qualche scontro: ed eccone abbastanza perché Perrault venisse trattato da architetto ignorante.»

Il mio amico, dopo essere rimasto un poco assorto, riprese sospirando: «Cosiffatta è la natura umana. Il duca di Sully, nelle sue Memorie, scrive che il cardinale D'Ossat e il segretario di stato Villeroi furono dei cattivi ministri; e Louvois le pensava tutte per non accordare la sua stima al grande Colbert.»

«Ma essi almeno non stampavano nulla l'uno contro l'altro, finché erano in vita!» risposi, «questa è una sciocchezza riservata alla letteratura, alla procedura penale e alla teologia.»

«Abbiamo avuto un uomo di merito: Lamotte, che compose bellissime strofe:

Quelquefois au feu qui la charme

Résiste une jeune beauté,

Et contre elle-même elle s'arme

D'une pénible fermeté.

Hélas! cette contrainte extréme

La prive du vice qu'elle aime

Pour fuir la honte qu'elle hait.

Sa sévérité n'est que faste,

Et l'honneur de passer pour chaste

La résout à l'être en effet.

En vain ce sévère stoïque,

Sous mille défauts abattu,

Se vante d'une âme héroïque

Toute vouée à la vertu:

Ce n'est point la vertu qu'il aime;

Mais son coeur, ivre de lui-même,

Voudrait usurper les autels,

Et par sa sagesse frivole

Il ne veut que parer l'idole

Qu'il offre au culte des mortels.

Les champs de Pharsale et d'Arbelle

IOnt vu triompher deux vainqueurs,

L'un et l'autre digne modèle

Que se proposent les grands coeurs.

Mais le succès a fait leur gloire;

Et, si le sceau de la victoire

N'eût consacré ces demi-dieux,

Alexandre, aux yeux du vulgaire,

N'aurait été qu'un téméraire,

Et César qu'un séditieux.

«Questo autore,» disse, «era un saggio che prestò più di una volta il fascino dei versi alla filosofia. Se ci avesse dato sempre strofe simili, sarebbe il primo dei poeti lirici; eppure, proprio mentre componeva questi bei brani, uno dei suoi contemporanei lo chiamava

Certain oison, gibier de basse-cour.

«In un altro passo dice di Lamotte:

De ses discours l'ennuyeuse beauté.

«E in un altro:

... Je n'y vois qu'un défaut:

C'est que l'auteur les devait faire en prose.

Ces odes-là sentent bien le Quinault.

«Lo perseguita in ogni suo scritto: sempre gli rimprovera l'aridità e il difetto d'armonia. Sareste curioso di vedere le odi che scrisse, qualche anno dopo, questo stesso censore che giudicava Lamotte dall'alto in basso e lo denigrava da vero nemico? Leggete:

Cette influence souveraine

N'est pour lui qu'une illustre chaîne

Qui l'attache au bonheur d'autrui;

Tous les brillants qui l'embellissent,

Tous les talents qui l'ennoblissent,

Sont en lui, mais non pas à lui.

Il n'est rien que le temps n'absorbe, ne dévore,

Et les faits qu'on ignore

Sont bien peu différents des faits non avenus.

La bonté qui brille en elle

De ses charmes les plus doux

Est une image de celle

Qu'elle voit briller en vous.

Et, par vous seule enrichie,

Sa politesse, affranchie

Des moindres obscurités,

Est la lueur réfléchie

De vos sublimes clartés.

Ils ont vu par ta bonne foi

De leurs peuples troublés d'effroi

ILa crainte heureusement déçue,

Et déracinée à jamais

La haine si souvent reçue

En survivance de la paix.

Dévoile a ma vue empressée

Ces déités d'adoption,

Synonymes de la pensée,

Symboles de l'abstraction.

N'est-ce pas une fortune,

Quand d'une charge commune

Deux moitiés portent le faix,

Que la moindre le réclame,

Et que du bonheur de l'âme,

Le corps seul fasse les frais?

«Certo,» disse allora il mio giudizioso amatore della letteratura, «non bisognava dare opere così detestabili come modelli a chi si criticava con tanta acredine; sarebbe stato meglio lasciare il proprio avversario godere in pace del suo merito, e conservare quello che si aveva. Ma che volete? Il genus irritabile vatum è malato di quella stessa bile che lo tormentava in passato. Il pubblico perdona queste miserie agli uomini di talento, perché non pensa che a divertirsi. Vede, in un'allegoria intitolata Plutone, dei giudici condannati ad essere scorticati e a sedere, negli inferi, su seggi ricoperti della loro pelle, anziché di gigli; il lettore non si preoccupa di sapere se essi lo meritino o no, se il querelante che li cita davanti a Plutone abbia torto o ragione. Legge quei versi solo per il suo piacere; se gliene danno, non chiede altro; se gli dispiacciono, lascia lì l'allegoria e non farebbe un solo passo per far confermare o annullare la sentenza.

«Le inimitabili tragedie di Racine sono state tutte criticate, e molto negativamente: però dai suoi rivali. Gli artisti sono i giudici competenti dell'arte, è vero; ma sono quasi sempre dei giudici corrotti.

«Un ottimo critico dovrebbe essere un artista di gran cultura e di gran gusto, senza pregiudizi e senza invidia. Ma e difficile trovarlo.»



D







DAVID



Che un giovane contadino, cercando delle asine, trovi un regno, non è un fatto molto comune; che un altro contadino guarisca il suo re da un accesso di follia suonando l'arpa, è un fatto quasi incredibile; ma che quel piccolo suonatore d'arpa diventi re perché ad un angolo della strada s'è trovato davanti un prete di villaggio che gli ha versato sul capo una bottiglia d'olio d'oliva, questo è un fatto davvero prodigioso.

Quando e da chi furono scritte tali meraviglie? Io non lo so, ma sono ben sicuro che non furono scritte né da un Polibio, né da un Tacito. Riverisco profondamente quel degno e buon giudeo, chiunque sia stato, che scrisse la storia vera del potente regno degli ebrei per l'istruzione dell'universo, sotto la dettatura del Dio che lo ispirò; ma mi duole vivamente che il mio amico David cominci col radunare una banda di ladroni in numero di quattrocento, che alla testa di questa truppa di gentiluomini si accordi con Abimelec, il gran sacerdote, il quale lo arma con la spada di Golia e gli dà i pani consacrati (I Re, XXI, 13).

Sono anche un po' scandalizzato che David, l'unto del Signore, l'uomo secondo il cuore di Dio, ribellatosi a Saul, altro unto del Signore, se ne vada con quattrocento banditi a taglieggiare il paese, a derubare quel brav'uomo di Nabal, e che immediatamente dopo costui muoia e David ne sposi subito la vedova. (I Re, XXV, 10-11).

Provo qualche scrupolo per la sua condotta col re Achish, possessore, se non sbaglio, di cinque o sei villaggi nel cantone di Gat. David, allora, alla testa di seicento banditi, compiva scorrerie contro gli alleati del suo benefattore Achish; saccheggiava tutto, ammazzava tutti, vecchi, donne, bambini, lattanti. E perché sgozzava i lattanti? «Perché,» dice il divino autore giudeo, «temeva che questi lattanti avrebbero raccontato le sue imprese a re Achish» (I Re, XXVII, 8-9-11).

I banditi si adirano contro di lui, lo vogliono lapidare. Che fa allora questo Mandrin giudeo? Consulta il Signore. E il Signore gli risponde che deve andare ad attaccare gli Amaleciti: così i suoi banditi vi guadagneranno un buon bottino e si arricchiranno (I Re, XXX).

Intanto, l'unto del Signore, Saul, perde una battaglia contro i filistei e si fa ammazzare. Un ebreo ne porta la notizia a David. David, che a quanto pare non aveva un soldo da dare come mancia al corriere, per tutta ricompensa lo fa assassinare (II Re, I, 10).

Isboset succede a suo padre Saul. David è abbastanza forte per fargli guerra; alla fine Isboset viene assassinato.

David s'impadronisce di tutto il regno: sorprende la piccola città o villaggio di Rabbat, e ne fa morire tutti gli abitanti con supplizi abbastanza eccezionali; segandoli in due, straziandoli con erpici di ferro, bruciandoli in forni da mattoni: un modo di fare la guerra davvero nobile e generoso (II Re, XII).

Dopo queste belle imprese, il paese è afflitto da una carestia che dura tre anni. Lo credo bene, perché, dato il modo con cui il buon David faceva la guerra, le terre non dovevano essere molto ben seminate. Si consulta il Signore e gli si domanda perché c'è la carestia. La risposta sarebbe stata molto facile: senza dubbio perché, in un paese che produce a stento del grano, quando si son fatti cuocere i contadini in forni da mattoni e li si è segati in due, restano poche braccia per coltivare la terra; invece il Signore risponde che è perché Saul tempo prima aveva ucciso dei Gabaoniti.

Che fa allora il buon David? Riunisce i Gabaoniti; dice loro che Saul aveva avuto gran torto di fare loro la guerra, che Saul non era come lui un uomo secondo il cuore di Dio, e che era giusto punire la sua stirpe; e così dà loro da ammazzare sette nipotini di Saul, i quali furono impiccati perché c'era la carestia. (II Re, XXI).

È un piacere vedere come quell'imbecille di don Calmet giustifichi e canonizzi tutte queste azioni, che farebbero fremere d'orrore se non fossero incredibili.

Non parlerò qui dell'assassinio abominevole di Uria e dell'adulterio di David con Betsabea: la storia è abbastanza nota, e le vie del Signore sono così diverse da quelle degli uomini ch'egli permise che Gesù Cristo discendesse da quell'infame Betsabea, pur restando purificato da quel santo mistero.

Ora, non domando come mai il predicatore Jurieu abbia avuto l'insolenza di perseguitare il saggio Bayle per non aver approvato tutte le azioni del buon re David; ma domando come si sia potuto permettere che un miserabile come Jurieu molestasse un uomo come Bayle.



DELITTI LOCALI (DEI)



Percorrete tutta la terra: troverete che il furto, l'omicidio, la calunnia sono considerati delitti che la società condanna e reprime; ma quello che è approvato in Inghilterra, e condannato in Italia, deve essere punito in Italia come un attentato contro l'intera umanità? È questo che io chiamo «delitto locale». Ciò che è criminale solo entro la cerchia di alcune montagne, o tra due fiumi, non esige forse dai giudici più indulgenza di quegli attentati che suscitano orrore in tutti i paesi? Il giudice non dovrebbe dire a se stesso: «Non oserei punire a Ragusa quel che punisco a Loreto»? Questa riflessione non dovrebbe addolcire nel suo cuore quella durezza che egli troppo facilmente ha contratto nel lungo esercizio del suo ufficio?

Sono note le Kermesses della Fiandra: nel secolo scorso arrivavano a un'indecenza che poteva disgustare occhi non abituati a simili spettacoli.

Ecco come si celebrava la festa di Natale in alcune città.

Per primo appariva un giovanotto seminudo, con le ali sulla schiena; recitava l'Ave Maria a una ragazza che gli rispondeva «fiat», e l'angelo la baciava sulla bocca. Poi un bambino, rinchiuso in un gran gallo di cartone, gridava, imitando il canto del gallo: «Puer natus est nobis.» Un grosso bove, muggendo, diceva «ubi?», che pronunziava «oubi». Una pecora belava forte: «Bethleem». Un asino ragliava: «Hihànus», per significare eamus; una lunga processione, preceduta da quattro buffoni con sonagli e bastoni, chiudeva il corteo. Restano ancora oggi tracce di queste devozioni popolari, che presso popoli più istruiti sarebbero considerate profanazioni. Uno svizzero di cattivo umore, e forse più ubriaco di coloro che facevano la parte del bove e dell'asino, si prese a parole con costoro a Louvanio; ci fu uno scambio di botte; si voleva far impiccare lo svizzero, che si salvò a stento.

Lo stesso uomo ebbe una violenta lite all'Aja, in Olanda, per aver preso apertamente le difese di Barneveldt contro un fanatico gomarista. Fu messo in prigione ad Amsterdam, per aver detto che i preti sono il flagello dell'umanità e la fonte di tutti i nostri mali. «Ma come!» diceva. «Se uno crede che le buone opere possono servire alla nostra salvezza, finisce in galera; se si fa beffe d'un gallo e d'un asino, rischia la forca.» Questa avventura, per quanto burlesca, dimostra abbastanza chiaramente che si può essere reprensibili in uno o due punti del nostro emisfero, ed essere del tutto innocenti nel resto della terra.



DESTINO



Di tutti gli scritti giunti fino a noi, il più antico è quello di Omero: è qui che si trovano i costumi dell'antichità profana: rozzi eroi, rozzi dei, fatti a immagine dell'uomo; ma vi si trovano anche i germi della filosofia, e soprattutto l'idea del destino, che è signore degli dei, come gli dei sono i signori del mondo.

Invano Giove vorrebbe salvare Ettore: consulta i Fati, pesa su una bilancia i destini di Ettore e di Achille; si rende conto che il troiano deve assolutamente essere ucciso dal greco, e non può opporsi; e da quel momento Apollo, il genio protettore di Ettore, è obbligato ad abbandonarlo. Non che Omero non prodighi spesso nel suo poema idee del tutto contrarie, secondo il privilegio dell'antichità, ma, infine, è il primo in cui si trovi la nozione di destino. Ai suoi tempi, essa era dunque molto diffusa.

I farisei, presso il piccolo popolo ebreo, non adottarono tale concetto che molti secoli dopo: infatti i farisei, che furono i primi uomini istruiti fra i giudei, erano molto «moderni».

Mischiarono in Alessandria una parte dei dogmi degli stoici con le antiche idee ebraiche. San Girolamo pretende anzi che la loro setta non sia stata di molto anteriore alla nostra era volgare.

I filosofi non ebbero mai bisogno né di Omero né dei farisei per convincersi che tutto accade secondo leggi immutabili, che tutto è preordinato, che tutto è un effetto necessario.

O il mondo sussiste per sua propria natura, per le sue leggi fisiche, o è stato formato da un Essere supremo secondo le sue leggi superne: nell'un caso o nell'altro queste leggi sono immutabili; nell'un caso o nell'altro, tutto è necessario; i corpi gravi tendono verso il centro della terra, senza poter tendere a riposarsi nell'aria; i peri non possono mai fruttare ananassi; l'istinto di uno spaniel non può essere l'istinto di uno struzzo. Tutto è predisposto, ingranato e limitato.

L'uomo non può avere che un certo numero di denti, di capelli e di idee; e viene il momento in cui perde necessariamente i suoi denti, i suoi capelli e le sue idee.

È contraddittorio credere che ciò che fu ieri non sia stato, che ciò che è oggi non sia; ed è altrettanto contraddittorio credere che ciò che deve essere possa non dover essere.

Se tu potessi mutare il destino di una mosca, non ci sarebbe nessuna ragione che potrebbe impedirti di mutare il destino di tutte le altre mosche, di tutti gli altri animali, di tutti gli uomini, di tutta la natura: alla fine ti troveresti più potente di Dio.

Certi imbecilli dicono: «Il mio medico ha salvato mia zia da una malattia mortale: l'ha fatta vivere dieci anni più di quanti ne avrebbe dovuto vivere.» Altri, che fanno i saputi, dicono «L'uomo accorto foggia lui stesso il proprio destino.»

Nullum numen abest, si sit prudentia, sed nos

te facimus, fortuna, deam coeloque locamus.

Ma spesso l'uomo accorto soccombe al suo destino, anziché foggiarselo; è il destino che fa gli uomini accorti.

Certi profondi politici sostengono che, se Cromwell, Ludlow, Ireton, e una dozzina di altri parlamentari fossero stati assassinati otto giorni prima che venisse decapitato Carlo I, questo re avrebbe potuto vivere ancora e morire poi nel suo letto: hanno ragione; potrebbero anche aggiungere che se tutta l'Inghilterra fosse stata inghiottita dal mare, quel monarca non sarebbe morto sul patibolo nei pressi di Whitehall; ma i fatti erano ordinati in modo che Carlo dovesse avere il collo mozzato.

Il cardinale d'Ossat era senza dubbio più prudente di un pazzo delle Petites-Maisons; ma non è anche evidente che gli organi del saggio d'Ossat erano diversi da quelli del pazzo, così come gli organi di una volpe sono differenti da quelli di una gru e di un'allodola?

Il tuo medico ha salvato tua zia; ma è certo che in questo egli non ha contraddetto l'ordine naturale; lo ha seguito. È chiaro che tua zia non poteva fare a meno di nascere in una determinata città, non poteva fare a meno di avere in un determinato momento una certa malattia; che il medico non poteva essere altrove che nella città dov'era; che tua zia doveva chiamarlo, e che egli doveva prescriverle le droghe che l'hanno guarita.

Un contadino crede che sia grandinato per puro caso nel suo campo; ma il filosofo sa che il caso non esiste, e che era impossibile, data la costituzione di questo mondo, che quel giorno, in quel luogo, non grandinasse.

C'è gente che, spaventata da questa verità, l'accetta soltanto a mezzo, come quei debitori che offrono la metà ai loro creditori, e chiedono respiro per il resto. Ci sono - dicono - avvenimenti necessari, e altri che non lo sono. Sarebbe ben strano che una parte di questo mondo fosse preordinata e l'altra no; che una parte di quanto accade dovesse veramente accadere, e un'altra di quanto accade non dovesse accadere. Se la si esamina da vicino, si vede che la dottrina contraria a quella del destino è assurda; ma c'è molta gente destinata a ragionare male, altri a non ragionare affatto, altri a perseguitare coloro che ragionano.

C'è gente che vi dice: «Non credete al fatalismo; perché allora (tutto sembrandovi inevitabile) vi guarderete dal lavorare; marcirete nell'indifferenza; non amerete né le ricchezze né gli onori, né le lodi; non vorrete acquistare nulla; vi crederete senza merito come senza potere; nessun talento sarà più coltivato, tutto perirà per apatia.»

Non temete, signori miei; noi avremo sempre passioni e pregiudizi, perché il nostro destino è di essere soggetti ai pregiudizi e alle passioni; e dunque, potremo ben sapere che non dipende da noi possedere grandi meriti e gran talenti, come non dipende dalla nostra volontà l'avere capelli ben radicati e una bella mano; potremo essere convinti che non dobbiamo attribuirci nessun merito e tuttavia saremo sempre vanitosi.

Io ho necessariamente la passione di scrivere questo; tu hai la passione di condannarmi: siamo entrambi egualmente inutili, egualmente balocchi del destino. La tua natura è di fare il male, la mia è d'amare la verità e di pubblicarla tuo malgrado.

Il gufo, che si nutre di topi dentro il suo rifugio, disse all'usignolo: «Piantala di cantare fra le tue belle fronde e vieni nel mio buco, affinché ti divori.» E l'usignolo rispose: «Io sono nato per cantare qui, e per farmi beffe di te.»

Ora mi chiedete a cosa si riduce la libertà. Non vi capisco: non so cosa sia questa libertà di cui parlate; avete consumato tanto di quel tempo a disputare sulla sua natura che certamente non ne sapete niente. Se volete (o piuttosto se potete) esaminare pacatamente con me che cos'è, passate alla lettera L.



DIO



Sotto l'impero di Arcadio, Logomaco, teologo di Costantinopoli, andò nella Scizia e si fermò ai piedi del Caucaso, nelle fertili pianure di Zefirim, alle frontiere della Colchide. Il buon vecchio Dondindac era nel suo basso salone tra il grande ovile e il vasto granaio; stava in ginocchio con la moglie, i cinque figli e le cinque figlie, i parenti e i servitori, e tutti cantavano le lodi del Signore, dopo un pasto frugale.

«Che fai, idolatra?» gli disse Logomaco. «Io non sono idolatra,» disse Dondindac. «Non puoi non essere idolatra,» disse Logomaco, «poiché sei scita e non greco. Dimmi un poco, che cosa cantavi nel tuo barbaro idioma di Scizia?» «Tutte le lingue sono uguali agli orecchi di Dio,» rispose lo scita: «cantavamo le sue lodi.» «Questa è proprio straordinaria,» ribatté il teologo: «una famiglia scita che prega Dio senza essere stata istruita da noi!» Ben presto s'impegnò in una conversazione con lo scita Dondindac: poiché il teologo sapeva un po' di scita e l'altro un po' di greco. Questa conversazione è stata ritrovata in un manoscritto conservato nella biblioteca di Costantinopoli.

LOGOMACO

Vediamo se sai il tuo catechismo. Perché preghi Dio?

DONDINDAC

Perché è giusto adorare l'Essere supremo, che ci elargisce tutti i suoi beni.

LOGOMACO

Mica male per un barbaro! E che cosa gli chiedi?

DONDINDAC

Lo ringrazio dei beni di cui godo, e anche dei mali con cui mi mette alla prova; ma mi guardo dal chiedergli qualcosa: egli sa meglio di me quel che ci occorre, e del resto temerei di chiedergli il bel tempo mentre il mio vicino gli sta chiedendo la pioggia.

LOGOMACO

Ah, me l'aspettavo che avrebbe detto qualche sciocchezza. Guardiamo le cose più dall'alto. Barbaro, chi ti ha detto che c'è un Dio?

DONDINDAC

La natura tutta.

LOGOMACO

Questo non basta. Che idea hai di Dio?

DONDINDAC

L'idea del mio creatore, del mio signore, che mi ricompenserà se faccio bene e mi punirà se faccio male.

LOGOMACO

Quisquilie, bazzecole! Veniamo all'essenziale. Dio è infinito secundum quid, oppure secondo l'essenza?

DONDINDAC

Non vi capisco.

LOGOMACO

Bestia bruta! Dio è in un luogo, o fuori i qualsiasi luogo, o in ogni luogo.

DONDINDAC

Non ne so niente... come preferite voi.

LOGOMACO

Ignorante! Può fare che ciò che è stato non sia stato, che un bastone non abbia due estremità? Vede il futuro come futuro o come presente? Come fa per trarre l'essere dal nulla e per annientare l'essere?

DONDINDAC

Non ho mai esaminato queste cose.

LOGOMACO

Che zoticone! Suvvia, bisogna abbassarsi, proporzionarsi. Dimmi un poco, amico mio, credi che la materia possa essere eterna?

DONDINDAC

E che m'importa che esista o non esista dall'eternità? Io no, non esisto dall'eternità. Dio è sempre il mio signore: mi ha dato la nozione della giustizia, devo seguirla; non voglio essere filosofo, voglio essere uomo.

LOGOMACO

Che fatica con queste teste dure. Su, andiamo passo passo: che cos'è Dio?

DONDINDAC

Il mio sovrano, il mio giudice, mio padre.

LOGOMACO

Non ti chiedo questo. Qual è la sua natura?

DONDINDAC

Di essere potente e buono.

LOGOMACO

Ma è corporeo o spirituale?

DONDINDAC

Come volete che lo sappia?

LOGOMACO

Come? Non sai che cosa è uno spirito?

DONDINDAC

Non ne ho idea: a che cosa mi servirebbe? Sarei più giusto per questo? Sarei miglior marito, miglior padre, miglior padrone, miglior cittadino?

LOGOMACO

Bisogna assolutamente insegnarti che cosa è uno spirito. Ascolta: è, è, è... te lo dirò un'altra volta.

DONDINDAC

Ho paura che mi parlerete più di quel che non è che di quel che è. Permettetemi di farvi a mia volta una domanda. Ho visto una volta uno dei vostri templi: perché dipingete Dio con una gran barba?

LOGOMACO

È una domanda molto difficile, che richiede certe istruzioni preliminari.

DONDINDAC

Prima di ricevere le vostre istruzioni, vi devo raccontare quel che mi è accaduto un giorno. Avevo appena fatto costruire un capanno in fondo al mio giardino; udii una talpa che ragionava con un maggiolino: «Ecco una bella costruzione,» diceva la talpa; «dev'essere stata una talpa molto potente a far questo lavoro.» «Voi scherzate,» disse il maggiolino, «l'architetto di questo edificio è stato un maggiolino pieno di genio.» Da quella volta, ho deciso di non discutere più.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 21:34
 
Quota

D - F
DIVINITÀ DI GESÙ

I sociniani, che sono considerati dei bestemmiatori, non riconoscono la divinità di Gesù Cristo. Essi osano pretendere, con i filosofi dell'antichità, con gli ebrei, i musulmani e tanti altri popoli, che l'idea di un Dio-uomo è mostruosa, che la distanza tra Dio e l'uomo è infinita, e che è impossibile che l'Essere infinito, immenso, eterno, sia stato contenuto in un corpo perituro.

Essi non temono di citare in loro favore Eusebio, vescovo di Cesarca, il quale, nella sua Storia ecclesiastica, libro I cap. XI, dichiara assurdo che la natura increata, immutabile di Dio onnipotente, assuma la forma di un uomo. Citano i Padri della Chiesa, Giustino e Tertulliano, che hanno detto la stessa cosa: Giustino nel suo Dialogo con l'ebreo Trifone, e Tertulliano nel suo discorso Adversus Praxean.

Citano anche san Paolo, che non chiama mai Gesù Cristo «Dio», e che lo chiama molto spesso «uomo». Spingono la loro audacia fino al punto di affermare che i cristiani ci misero tre secoli interi per formare a poco a poco l'apoteosi di Gesù, e che elevarono questo stupefacente edificio seguendo l'esempio dei pagani, che avevano divinizzato dei mortali. Dapprima secondo costoro, si considerò Gesù solo come un uomo ispirato da Dio; poi, come una creatura più perfetta delle altre. Qualche tempo dopo gli fu dato un posto al di sopra degli angeli, come dice san Paolo. Ogni giorno aumentava la sua grandezza. Diventò un'emanazione di Dio prodotta nel tempo. E non ci si fermò lì, lo si fece nascere prima del tempo. Infine lo si fece Dio, consustanziale a Dio. Crellius, Voquelsius, Natalis Alexander, Hornebeck sostennero tutte queste bestemmie con argomenti che sbalordiscono i saggi e pervertono i deboli. Fu soprattutto Fausto Socino a diffondere in Europa i semi di questa dottrina; e, verso la fine del XVI secolo, poco mancò che non stabilisse una nuova specie di cristianesimo: ce ne erano già più di trecento specie.



DOGMI



Il 18 febbraio dell'anno 1763 dell'era volgare, entrando il sole nella costellazione dei Pesci, fui trasportato in cielo, come sanno tutti i miei amici. Non salii a cavallo della giumenta Borac di Maometto, non ebbi per vettura il carro infiammato di Elia; non fui portato né sull'elefante del siamese Sammonocodom, né sul cavallo di san Giorgio, patrono d'Inghilterra, né sul porco di sant'Antonio: confesso ingenuamente che non so come feci quel viaggio.

Immaginerete bene come restai sbalordito; ma quel che non vorrete credere è che vidi giudicare tutti i morti. E chi erano i giudici? Erano, non vi dispiaccia, tutti coloro che fecero del bene agli uomini: Confucio, Solone, Socrate, Tito, gli Antonini, Epitteto, tutti i grandi uomini che, avendo insegnato e praticato le virtù che Dio esige, sembravano i soli in diritto di pronunciare le sue sentenze.

Non vi dirò su quali troni erano assisi, né quanti milioni di esseri celesti erano prosternati davanti al creatore di tutti i mondi, né quale folla di abitanti di questi innumerevoli mondi comparve davanti ai giudici. Renderò conto, qui, soltanto di alcuni piccoli particolari, molto interessanti, da cui fui colpito.

Osservai che ogni morto che perorava la propria causa e che esibiva i propri buoni sentimenti, aveva accanto a sé i testimoni delle sue azioni. Per esempio, quando il cardinale di Lorena si vantò d'aver fatto accogliere alcune sue opinioni dal concilio di Trento, e, per premio della sua ortodossia, chiese la vita eterna, subito apparvero attorno a lui venti cortigiane o dame di corte, che portavano scritto sulla fronte il numero dei loro convegni col cardinale. E si vedevano anche coloro che avevano gettato con lui le fondamenta della Lega: tutti i complici dei suoi perversi disegni venivano a circondarlo.

Di fronte al cardinale di Lorena era Calvino che si vantava, nel suo rozzo dialetto, d'aver preso a calci l'idolo papale dopo che altri l'avevano abbattuto. «Ho scritto contro la pittura e la scultura,» diceva, «ho dimostrato nel modo più evidente che le buone opere non servono a nulla e ho provato che è diabolico ballare il minuetto; presto, buttate fuori di qui il cardinale di Lorena, e mettetemi a fianco di san Paolo.»

Mentre parlava, si vide accanto a lui un rogo ardente: uno spaventevole spettro, che portava al collo una gorgiera spagnola mezzo bruciata, uscì da quelle fiamme gridando orribilmente: «Mostro! Mostro esecrabile, trema! Riconosci quel Serveto che facesti morire col più atroce dei supplizi, perché aveva disputato con te sulla maniera in cui tre persone possono costituire una sola sostanza!»

Tutti i giudici ordinarono allora che il cardinale di Lorena fosse precipitato nell'abisso, ma che Calvino fosse punito ancor più crudelmente.

Vidi una folla prodigiosa di morti che dicevano: «Ho creduto, ho creduto»; ma sulla loro fronte era scritto: «Ho fatto»; ed erano condannati.

Il gesuita Le Tellier apparì, fiero, con in mano la bolla Unigenitus. Ma al suo fianco sorse improvvisamente un mucchio di duemila mandati d'arresto. Un giansenista gli diede fuoco: Le Tellier fu bruciato fino alle ossa; e il giansenista, che non aveva meno intrigato di lui, ebbe la sua parte di bruciature. Vedevo arrivare da ogni parte schiere di fachiri, di talapoini, di bonzi, di monaci bianchi, neri e grigi che si eran tutti immaginati che, per fare la corte all'Essere supremo, bisognasse o cantare, o frustarsi, o camminare nudi. Udii una voce terribile che chiedeva loro: «Che bene avete fatto agli uomini?» A queste parole seguì un cupo silenzio; nessuno osò rispondere, e tutti furono spinti nel manicomio dell'universo: è uno dei più grandi edifici che si possano immaginare.

Un tale gridava: «È alle metamorfosi di Xaca che bisogna credere.» E un altro: «No! A quelle di Sammonocodom!» «Bacco fermò il sole e la luna,» diceva questo. «Gli dei risuscitarono Pelope,» diceva quello. «Ecco la bolla In coena Domini,» annunciava l'ultimo venuto. E l'usciere dei giudici gridava: «Al manicomio! Al manicomio!»

Quando tutti questi processi furono conclusi, udii promulgare questa sentenza: «In nome dell'eterno creatore, conservatore, remuneratore, vendicatore, misericorde eccetera, sia noto a tutti gli abitanti dei centomila milioni di miliardi di mondi che ci piacque creare, che noi non giudicheremo mai nessuno dei detti abitanti sulle sue idee contorte, ma unicamente sulle sue azioni; perché tale è la nostra giustizia.»

Confesso che fu la prima volta che sentii un tale editto: tutti quelli che avevo letto sul granellino di sabbia ove sono nato finivano invece con queste parole: «Perché tale è il nostro beneplacito.»



E







EGUAGLIANZA



Che cosa deve un cane a un cane, e un cavallo a un cavallo? Niente, nessun animale dipende dal suo simile; ma l'uomo, che ha ricevuto il raggio della Divinità chiamato ragione, che frutto ne ha? Quello d'essere schiavo in quasi tutta la terra.

Se questa terra fosse quella che sembra dover essere, vale a dire se l'uomo vi trovasse ovunque una sussistenza facile e assicurata e un clima confacente alla sua natura, è chiaro che sarebbe impossibile ad un uomo asservirne un altro. Se la terra abbondasse di frutti salutari; se l'aria che deve contribuire alla nostra vita non ci desse anche le malattie e la morte; se l'uomo non avesse bisogno d'altro alloggio e letto se non quelli dei daini e dei caprioli, allora i Gengis Khan e i Tamerlani non avrebbero altri servi che i loro figli, i quali sarebbero abbastanza umani da aiutarli in vecchiaia.

In questo stato così naturale di cui godono tutti i quadrupedi, gli uccelli e i rettili, l'uomo sarebbe felice come loro, e il predominio diventerebbe una chimera, un'assurdità cui nessuno potrebbe pensare: perché infatti cercare dei servi quando non si ha bisogno di nessun servizio?

Se poi passasse in mente a qualche individuo dalla natura tirannica e dal braccio nerboruto di asservire il suo vicino meno forte di lui, la cosa sarebbe impossibile: l'oppresso si troverebbe lontano cento leghe prima che l'oppressore riuscisse a prendere le sue misure.

Tutti gli uomini sarebbero dunque necessariamente uguali se fossero senza bisogni. La miseria connessa alla nostra specie subordina un uomo a un altro uomo; la vera sciagura non è l'ineguaglianza, è la dipendenza.

Importa ben poco che un tale si chiami Sua Altezza, e il talaltro Sua Santità; ma è duro servire l'uno o l'altro.

Una famiglia numerosa ha coltivato un buon terreno; due famigliole vicine hanno dei campi ingrati e ribelli: è naturale che le due famiglie povere servano la famiglia ricca, oppure che ne sgozzino tutti i suoi membri, questo è chiaro. Una delle due famiglie indigenti va ad offrire le sue braccia alla ricca per avere del pane; l'altra l'aggredisce ed è battuta. La famiglia serva è l'origine dei domestici e dei manovali; la famiglia battuta è l'origine degli schiavi.

È impossibile, nel nostro disgraziato globo, che gli uomini che vivono in società non siano divisi in due classi, l'una di oppressori, l'altra di oppressi; e queste due classi si suddividono in mille, e queste mille hanno ancora sfumature diverse.

Non tutti gli oppressi sono assolutamente infelici. La maggioranza è nata in questo stato, e il lavoro continuo impedisce loro di soffrir troppo della propria situazione; ma, quando non ne possono più, allora si vedono le guerre, come quella del partito popolare contro il partito del senato a Roma; quelle dei contadini in Germania, in Inghilterra, in Francia. Tutte queste guerre finiscono, prima o poi, con l'asservimento del popolo, perché i potenti hanno il denaro, e il denaro è padrone di tutto in uno Stato: dico in uno Stato, perché le cose non vanno nello stesso modo da nazione a nazione. La nazione che saprà meglio servirsi del ferro soggiogherà sempre quella che avrà più oro e meno coraggio.

Ogni uomo nasce con un'inclinazione piuttosto violenta per il dominio, la ricchezza e i piaceri, e con altrettanta inclinazione per la pigrizia: di conseguenza ogni uomo vorrebbe avere il denaro e le donne o le figlie degli altri, esserne padrone, sottometterli a tutti i suoi capricci, e non far niente, o a meno non fare nient'altro che cose molto piacevoli. Vedete bene che con queste belle disposizioni, è tanto impossibile che gli uomini siano uguali com'è impossibile che due predicatori o due professori di teologia non siano gelosi l'uno dell'altro.

Il genere umano, così com'è, non può sussistere, a meno che non ci sia un'infinità di uomini utili che non possiedano niente del tutto: perché, certamente, un uomo che se la passa bene non lascerà la propria terra per venire ad arare la vostra; e, se avete bisogno di un paio di scarpe, non sarà certo un ministro a farvele. L'eguaglianza è dunque ad un tempo la cosa più naturale e la più chimerica.

Poiché gli uomini, quando lo possono, sono eccessivi in tutto, si è portata all'estremo quest'ineguaglianza; si è preteso in vari paesi che non fosse lecito a un cittadino uscire dalla contrada in cui il caso l'ha fatto nascere; il senso di questa legge è senza possibilità di dubbio: Questo paese è tanto cattivo e così mal governato che vietiamo a qualsiasi individuo di uscirne, per paura che ne escano tutti. Comportatevi meglio: date a tutti i vostri sudditi la voglia di restare nel vostro paese, e agli stranieri di venirci.

Ogni uomo, in fondo al cuore, ha il diritto di credersi interamente eguale agli altri uomini; non ne consegue che il cuoco di un cardinale debba ordinare al suo padrone di preparargli il pranzo; ma il cuoco può dire: «Sono un uomo come il mio padrone; sono nato come lui piangendo; egli morirà con le mie stesse angosce e con le stesse cerimonie. Facciamo ambedue le stesse funzioni animali. Se i turchi s'impadroniscono di Roma, e se allora io divento cardinale e il mio padrone cuoco, lo prenderò al mio servizio.» Tutto questo discorso è ragionevole e giusto; ma aspettando che il gran Turco s'impadronisca di Roma, il cuoco deve fare il suo dovere, o qualsiasi società umana è sovvertita.

Quanto a colui che non è né cuoco di cardinale né riveste alcuna carica statale; quanto al privato che non deve niente a nessuno, ed è seccato d'essere ricevuto dappertutto con aria di protezione o di disprezzo, e sa bene che parecchi monsignori non hanno né maggior cultura, né maggior acume, né maggiore virtù di lui, e che alla fine si stufa di fare anticamera, quale partito dovrà prendere? Quello di andarsene.



ENTUSIASMO



Questa parola greca significa «commozione di viscere, agitazione interiore». I greci inventarono questa parola per indicare le scosse dei nervi, la dilatazione e la contrazione degli intestini, le violente palpitazioni del cuore, il corso precipitoso di quegli spiriti di fuoco che salgono dalle viscere al cervello quando si è violentemente commossi?

Oppure si diede il nome di entusiasmo, di turbamento delle viscere alle contorsioni di quella Pizia che, sul tripode di Delfi, riceveva lo spirito di Apollo per una via che non sembra fatta altro che per ricevere dei corpi?

Cosa intendiamo, noi, per entusiasmo? Quante sfumature nei nostri sentimenti! Approvazione, sensibilità, emozione, turbamento, affanno, passione, impeto, demenza, furore, rabbia: ecco tutti gli stati per i quali può passare questa povera anima umana.

Un geometra assiste a una tragedia commovente: nota soltanto che è ben rappresentata. Un giovane al suo fianco è commosso e non nota nulla; una donna piange; un altro giovane è talmente eccitato che, per sua sventura, si mette a scrivere anche lui una tragedia: si è preso la malattia dell'entusiasmo.

Il centurione o il tribuno militare, che consideravano la guerra solo come un mestiere nel quale si poteva fare un po' di soldi, andavano tranquilli a combattere, come un muratore sale su un tetto. Cesare piangeva contemplando la statua di Alessandro.

Ovidio parlava d'amore con spirito; Saffo esprimeva l'entusiasmo di questa passione; e se è vero che essa le costò la vita, fu perché in lei l'entusiasmo si convertì in demenza.

Lo spirito di partito dispone in modo sbalorditivo all'entusiasmo: non c'è fazione che non abbia i propri energumeni.

L'entusiasmo è soprattutto il retaggio della religiosità male intesa. Il giovane fachiro che, nel dire le sue preghiere, vede la punta del suo naso, si monta a poco a poco sino a credere che, se si carica di catene del peso di cinquanta libbre, l'Essere supremo gliene sarà molto grato. Si addormenta con la fantasia piena di Brahma, e naturalmente lo vede in sogno. Qualche volta, fra il sonno e la veglia, dai suoi occhi sprizzano scintille: vede Brahma splendente di luce, cade in estasi, e questa malattia diventa spesso incurabile.

La cosa più difficile è il saper congiungere ragione ed entusiasmo; la ragione consiste nel vedere sempre le cose come sono; chi, nell'ubriachezza, vede doppio, è in quel momento privo di ragione.

L'entusiasmo è come il vino: può suscitare tanto tumulto nei vasi sanguigni e così violente vibrazioni nei nervi, che la ragione ne viene ottenebrata. Può anche causare soltanto leggere scosse, che provocano nel cervello un'attività un poco più intensa del normale: è quello che accade nei grandi moti d'eloquenza, e soprattutto nella poesia sublime. L'entusiasmo ragionevole è il dono dei grandi poeti.

Questo entusiasmo ragionevole è la perfezione della loro arte; è quel che fece credere un tempo che essi fossero ispirati dagli dei; ed è ciò che non fu mai detto degli altri artisti.

Come può la ragione governare l'entusiasmo? Un poeta traccia dapprima l'ordito della sua opera; e la ragione guida la sua penna. Ma, se vuole animare i personaggi e infondere loro la forza delle passioni, allora l'immaginazione si accende e subentra l'entusiasmo; è come un corsiero che prenda la mano, ma corra lungo una strada regolarmente tracciata.



EZECHIELE (DI). ALCUNI PASSI SINGOLARI DI QUESTO PROFETA, E ALCUNE ANTICHE USANZE



Quasi tutti abbiamo capito, ormai, che non bisogna giudicare le usanze antiche sul modello di quelle moderne: chi volesse riformare la corte di Alcinoo nell'Odissea sul modello di quella del gran Turco o di Luigi XIV, non sarebbe approvato dai dotti; e chi biasimasse Virgilio per aver rappresentato il re Evandro coperto di una pelle d'orso e accompagnato da due cani, mentre riceve degli ambasciatori, sarebbe un cattivo critico.

I costumi degli antichi ebrei sono ancor più diversi dai nostri di quelli del re Alcinoo, di sua figlia Nausicaa e del buon Evandro.

Ezechiele, schiavo presso i caldei, ebbe una visione accanto al fiumicello Chebar, che si perde nell'Eufrate. Non c'è da meravigliarsi che egli abbia visto animali con quattro teste e quattro ali, con piedi di vitello, né delle ruote che andavano da sole e avevano in sé lo spirito di vita; anzi, questi simboli piacciono all'immaginazione. Ma molti critici si sono ribellati contro l'ordine che il Signore gli dette di mangiare, per trecentonovanta giorni, pane d'orzo, di frumento e di miglio, spalmato di merda.

Il profeta esclamò: «Puah, puah, puah! la mia anima non si è ancora mai contaminata.» E il Signore gli rispose: «Ebbene io ti concedo sterco di bove invece d'escrementi d'uomo: impasterai di sterco il tuo pane.»

Poiché non si usa affatto mangiare simile marmellata col pane, la maggior parte degli uomini trovano tali ordini indegni della maestà divina. Tuttavia bisogna riconoscere che la merda di vacca e tutti i diamanti del Gran Mogol sono perfettamente uguali, non solo agli occhi di un essere divino, ma a quelli di un vero filosofo; e in quanto alle ragioni che Dio poteva avere per ordinare al profeta una colazione simile, non sta a noi indagarle.

Ci basta ricordare che questi comandamenti, che a noi sembrano bizzarri, non apparvero tali agli ebrei. È vero che, ai tempi di san Girolamo, la Sinagoga non permetteva la lettura di Ezechiele prima dell'età di trent'anni; ma solo perché, ne capitolo XVIII, egli dice che i figli non porteranno più l'iniquità dei padri, e non si dirà più: «I padri mangiarono uva acerba, e i denti dei figli si sono allegati.»

In questo, Ezechiele si trovava in aperta contraddizione con Mosè che, nel capitolo XXVIII dei Numeri, assicura che i figli si portano addosso l'iniquità dei padri fino alla terza e quarta generazione.

Ezechiele, nel capitolo XX, fa anche dire al Signore che Egli dette agli ebrei «precetti non buoni». Ecco perché la Sinagoga proibiva ai giovani una lettura che poteva far dubitare dell'irrefragabilità delle leggi di Mosè.

I censori dei nostri giorni sono ancor più disorientati dal capitolo XVI di Ezechiele: ecco come questo profeta si esprime per far conoscere i delitti di Gerusalemme. Egli finge che il Signore parli a una giovinetta così: «Quando tu nascesti, non ti fu reciso il cordone ombelicale, non fosti detersa con sale, eri ignuda, e io ebbi pietà di te. Sei diventata grande, il tuo seno s'è formato, t'è spuntato il pelo; io sono passato, t'ho vista, ho capito che era giunto il tempo degli amori; ho coperto la tua vergogna; mi sono steso su di te col mio mantello; sei stata mia: io t'ho lavata, profumata, ben vestita, ben calzata; t'ho donato una sciarpa di cotone, dei braccialetti, una collana; ti ho messo al naso una pietra preziosa, degli orecchini alle orecchie, una corona sulla testa ecc. Allora, confidando nella tua bellezza, hai fornicato per conto tuo con tutti i passanti... Hai costruito un bordello... Ti sei prostituita perfino sulle pubbliche piazze, aprendo le gambe davanti a tutti i passanti... Sei andata a letto con gli egiziani... e infine hai anche pagato i tuoi amanti, hai fatto loro dei doni perché fornicassero con te...; e, pagando, invece d'essere pagata, hai fatto il contrario delle altre donne... Il proverbio dice: "Tale la madre, tale la figlia", ed è quanto si dice di te...»

Ancor più insorge il censore contro il capitolo XXIII. Una madre aveva due figlie, che avevan perduto di buon'ora la loro verginità: la maggiore si chiamava Oolla, la minore Ooliba: «Oolla andò pazza per dei giovani signori, magistrati e cavalieri; fornicò con gli egiziani fin dalla sua prima giovinezza... Ooliba, sua sorella, fornicò ben più con ufficiali, magistrati e bei cavalieri; mise a nudo la sua turpitudine, moltiplicò le sue fornicazioni, ricercò con ardore gli amplessi di coloro che hanno il membro grosso come quello di un asino, e che spandono la loro semenza come cavalli...»

Queste descrizioni, che scandalizzano tanti cervelli deboli, stanno solo a significare le iniquità di Gerusalemme e di Samaria: le espressioni, che ci sembrano troppo libere, non lo erano allora. La stessa ingenuità si palesa senza timore in più di un passo della Scrittura. Vi si parla spesso di aprire la vulva; i termini che servono a indicare l'accoppiamento di Bòoz con Ruth, di Giuda con la nuora, non sono affatto disdicevoli in ebraico, mentre lo sarebbero nella nostra lingua.

Non ci si copre con un velo quando non ci si vergogna della propria nudità; perché a quei tempi si sarebbe dovuto arrossire nel nominare i genitali, se quando qualcuno faceva una promessa a qualcun'altro gli toccava, appunto, i genitali? Era un segno di rispetto, un simbolo di fedeltà, come in altri tempi, da noi, i signori dei castelli mettevano le loro mani tra quelle del loro sovrano.

Noi abbiamo tradotto i genitali con «coscia». Eleazaro mette la mano sotto la coscia di Abramo, Giuseppe mette la mano sotto quella di Giacobbe. Questo costume era antichissimo in Egitto. Gli egiziani erano così lontani dal ritenere indecente quel che noi non osiamo né scoprire né nominare, che portavano in processione un'enorme immagine del membro virile, chiamato phallum, per ringraziare gli dei della bontà che essi hanno di far servire questo membro alla propagazione del genere umano.

Tutto ciò dimostra che le nostre convenienze non sono quelle degli altri popoli. In quale tempo, fra i romani, ci fu maggior civiltà che nel secolo di Augusto? Eppure Orazio non teme di scrivere:

Nec metuo ne, dum futuo, vir rure recurrat.

Augusto si serve della stessa espressione in un epigramma contro Fulvia.

Un uomo che, fra noi, pronunciasse la parola che corrisponde a futuo sarebbe considerato come un facchino ubriaco. Questa parola e tante altre di cui si servono Orazio e altri autori, ci sembra ancora più indecente delle espressioni di Ezechiele. Liberiamoci da tutti i nostri pregiudizi quando leggiamo gli antichi scrittori, o quando viaggiamo in paesi lontani. La natura è la medesima dappertutto, e le usanze dappertutto diverse.

N.B. Un giorno incontrai ad Amsterdam un rabbino cui era molto piaciuto questo capitolo: «Ah, amico mio,» mi disse, «quanto ve ne siamo grati. Avete fatto conoscere tutta la sublimità della legge mosaica, il pasto d'Ezechiele, le sue belle attitudini quando giaceva sul fianco sinistro. Oolla e Ooliba sono ammirevoli; sono tipi, fratello mio, tipi che simboleggiano che un giorno il popolo ebreo sarà padrone di tutta la terra; ma perché avete omesso tante altre cose che sono quasi della stessa forza? Perché non avete rappresentato il Signore quando dice al saggio Osea, nel secondo versetto del primo capitolo: "Osea, prendi una puttana, e fa' con lei dei figli di puttana." Sono le sue precise parole. Osea si prese la ragazza, ne ebbe un figlio, poi una bambina, poi ancora un maschio: ed era un simbolo, un simbolo che durò tre anni. "Non basta," disse il Signore, nel terzo capitolo, "devi prendere una donna che non sia solo dissoluta, ma adultera." Osea ubbidì, però la cosa gli costò quindici scudi e uno staio e mezzo di orzo; perché voi sapete che nella terra promessa c'era pochissimo grano: Quale sarà il significato di tutto ciò?» «Non lo so,» risposi. «E io nemmeno,» disse il rabbino.

Si avvicinò un gran dotto, e ci disse che erano ingegnose finzioni, molto affascinanti. «Ah, signore,» gli rispose un giovane istruito, «se volete delle finzioni, datemi retta, preferite quelle di Omero, di Virgilio e di Ovidio. Chiunque ama le profezie di Ezechiele merita di far colazione con lui.»



F







FALSITÀ DELLE VIRTÙ UMANE



Quando il duca di La Rochefoucauld ebbe scritto le sue massime sull'amor proprio, ed ebbe messo in rilievo questa molla che tiene in piedi l'uomo, un tale signor Esprit, dell'Oratoire, scrisse un libro capzioso, intitolato De la fausseté des vertus humaines. In esso sostiene che non esiste alcuna virtù; ma, per fortuna, termina ogni capitolo rinviandoci alla carità cristiana. Così, secondo messer Esprit, né Catone, né Aristide, né Marco Aurelio, né Epitteto erano gente perbene; gente perbene se ne può trovare soltanto fra i cristiani. Fra i cristiani, non c'è virtù se non fra i cattolici; fra i cattolici, bisogna ancora eccettuare i gesuiti, nemici degli oratoriani; pertanto, la virtù non si troverebbe che tra i nemici dei gesuiti.

Il signor Esprit comincia col dire che la prudenza non è una virtù; infatti, argomenta, è spesso ingannata. È come se si dicesse che Cesare non era un grande condottiero, perché fu sconfitto a Durazzo.

Se il signor Esprit fosse stato un filosofo, non avrebbe considerato la prudenza una virtù, ma un dono, una qualità utile, felice; perché uno scellerato può essere prudentissimo, e ne ho conosciuti di questa specie. Oh, la follia di pretendere che

Nul n'aura de vertu que nous et nos amis!

Che cos'è la virtù, amico mio? È il fare del bene; fanne, e questo basterà. Sulle ragioni non staremo a indagare. E che! Secondo te non ci sarebbe nessuna differenza fra il presidente De Thou e Ravaillac, fra Cicerone e quel Popilio cui aveva salvato la vita, e che lo decapitò per denaro? E dichiarerai che Epitteto e Porfirio erano dei furfanti perché non seguirono i nostri dogmi? Una tale insolenza mi disgusta. Non aggiungerò altro, per non lasciarmi trasportare dalla collera.



FANATISMO



Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio alla febbre, come le furie alla collera. Chi ha delle estasi, delle visioni, chi scambia i sogni per la realtà, e le immaginazioni per profezie, è un entusiasta; chi sostiene la propria follia con l'omicidio è un fanatico. Juan Diaz, ritiratosi a Norimberga, fermamente convinto che il papa fosse l'Anticristo dell'Apocalisse e che avesse addosso il segno della Bestia, era soltanto un entusiasta; suo fratello Bartolomeo Diaz, che partì da Roma per andare ad assassinare santamente il proprio fratello, e lo uccise per amore di Dio, era uno dei più abominevoli fanatici che mai la superstizione abbia potuto produrre.

Poliuto, che va al tempio, in un giorno di solennità, per rovesciare e infrangere le statue e i paramenti, è un fanatico meno orribile di Diaz, ma non meno sciocco. Gli assassini del duca Francesco di Guisa, di Guglielmo principe d'Orange, del re Enrico III, del re Enrico IV, e tanti altri, erano energumeni malati della stessa rabbia di Diaz.

Il più disgustoso esempio di fanatismo è quello dei borghesi di Parigi che, la notte di san Bartolomeo, corsero ad assassinare, sgozzare, buttar giù dalle finestre, fare a pezzi i loro concittadini che non andavano a messa.

Esistono fanatici di sangue freddo: sono i giudici che condannano a morte coloro che non hanno commesso altro crimine che quello di non pensarla come loro; e questi giudici sono tanto più colpevoli, tanto più degni dell'esecrazione del genere umano, in quanto, non trovandosi in un accesso di furore come i Clément, i Châtel, i Ravaillac, i Gérard, i Damiens, potrebbero, ci sembra, ascoltare la ragione.

Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la malattia è quasi incurabile. Ho visto certi epilettici che, parlando dei miracoli di san Paride, a poco a poco, loro malgrado, prendevano fuoco; gli occhi si infiammavano, le loro membra tremavano, il furore sfigurava loro il viso, e avrebbero ammazzato chiunque li avesse contraddetti.

A questa malattia epidemica non c'è altro rimedio che lo spirito filosofico, il quale, man mano diffondendosi, addolcirà finalmente i costumi degli uomini, prevenendo gli accessi del male: perché, non appena questo male fa dei progressi, bisogna correr via, e aspettare che l'aria si sia purificata. Le leggi e la religione non bastano contro questa peste degli animi; la religione, invece di essere per loro un alimento salutare, si tramuta in veleno nei cervelli infetti. Questi miserabili hanno continuamente fitto in capo l'esempio di Aod, che assassina re Eglon; di Giuditta, che taglia la testa di Oloferne, dopo aver giaciuto con lui; di Samuele, che fa a pezzi re Agag. Non vedono che questi esempi, rispettabili nell'antichità, sono abominevoli oggi; essi attingono il loro furore nella stessa religione che lo condanna.

Le leggi sono ancora impotenti contro questi accessi di furore; è come se leggeste un decreto del consiglio a un frenetico. Quella gente è persuasa che lo spirito santo che li pervade stia al di sopra delle leggi, e che il loro fanatismo sia la sola legge cui debbano ubbidire.

Che cosa rispondere a un uomo il quale vi dice che preferisce ubbidire a Dio che agli uomini e che, di conseguenza, e sicuro di meritare il cielo sgozzandovi?

Di solito sono le canaglie a guidare i fanatici e a mettere loro in mano il pugnale; somigliano a quel Vecchio della Montagna che faceva, si dice, gustare le gioie del paradiso a certi imbecilli, e prometteva loro un'eternità di quei piaceri di cui avevano avuto un assaggio, a condizione che andassero ad assassinare tutti coloro che egli avesse indicato.

C'è stata al mondo una sola religione che non sia stata insozzata da fanatismo: quella dei letterati cinesi. Le sette dei filosofi non solo erano esenti da questa peste, ma ne erano il rimedio: perché l'effetto della filosofia è di rendere tranquillo l'animo, e il fanatismo è incompatibile con la tranquillità.

Se la nostra santa religione è stata tanto spesso corrotta da questo furore infernale, bisogna prendersela con la pazzia degli uomini.

Così delle penne che ebbe

perverti Icaro l'uso;

donate a sua salvezza,

le volse a proprio danno.

(Bertaud, vescovo di Séez)



FAVOLE



Le più antiche favole non sono forse chiaramente allegoriche? La prima che conosciamo, secondo la nostra maniera di computare il tempo, non è quella che viene narrata nel nono capitolo del libro dei Giudici? Bisognava scegliere un re tra gli alberi; l'ulivo non volle abbandonare la cura del suo olio, né il fico quella dei suoi fichi, né la vigna quella del suo vino, né gli altri alberi quella dei loro frutti; e invece il cardo, che non era buono a niente, si fece re, perché era fornito di spine e poteva fare del male.

L'antica favola di Venere, così com'è narrata da Esiodo, non è forse un'allegoria dell'intera natura? Le parti della generazione caddero dall'Etere sulla riva del mare; Venere nacque da questa spuma preziosa; il suo primo nome è quello di amante della generazione. C'è forse un'immagine il cui senso sia più preciso? Questa Venere è la dea della bellezza; la bellezza cessa d'essere amabile se non s'accompagna alle grazie; la bellezza fa nascere l'amore; l'amore ha dardi che trafiggono il cuore e porta una benda che nasconde i difetti dell'oggetto amato.

La saggezza viene concepita nel cervello del signore degli dei sotto il nome di Minerva; l'anima dell'uomo è un fuoco divino che Minerva mostra a Prometeo, il quale si serve di questo fuoco per animare l'uomo.

Impossibile non riconoscere in queste favole una pittura vivente dell'intera natura. La maggior parte delle altre favole sono o la corruzione di quelle antiche o il capriccio dell'immaginazione. Delle favole antiche, come dei nostri racconti moderni, ce ne sono di morali, deliziosi, e ce ne sono di banali.

Le favole degli antichi popoli ingegnosi furono rozzamente imitate dai popoli rozzi; ad esempio, quelle di Bacco, di Ercole, di Prometeo, di Pandora e tante altre; esse erano il passatempo del mondo antico. I barbari, che ne udirono parlare in modo confuso, le introdussero nella loro selvaggia mitologia; e poi osarono dire: «Le abbiamo inventate noi.» Poveri popoli ignorati e ignoranti, che non avete conosciuto nessun'arte né piacevole né utile, e mai nemmeno il nome della geometria, come potete dire di aver inventato qualcosa? Non avete saputo né scoprire delle verità né mentire abilmente.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 21:37
 
Quota

- F -


FEDE



I

Un giorno il principe Pico della Mirandola incontrò papa Alessandro VI in casa della cortigiana Emilia, mentre Lucrezia, figlia del Santo Padre, stava per partorire, e a Roma non si sapeva se il nascituro fosse del papa o di suo figlio, il duca di Valentinois, o del marito di Lucrezia, Alfonso d'Aragona che passava per impotente. La conversazione fu sulle prime assai brillante. Il cardinale Bembo ne riferisce una parte. «Mio caro Pico,» disse il papa, «chi credi che sia il padre del mio nipotino?» «Vostro genero,» rispose Pico. «Ma come puoi credere una sciocchezza simile?» «Lo credo per fede.» «Ma non sai che un impotente non fa figli?» «La fede,» ribatté Pico, «consiste nel credere in cose che sono impossibili; per di più l'onore della vostra casa esige che il figlio di Lucrezia non passi per il frutto di un incesto. Voi mi fate credere in misteri ancor più incomprensibili. Non devo forse essere convinto che un serpente parlò e che da allora tutti gli uomini furono dannati; che l'asina di Balaam abbia parlato anch'essa con grande eloquenza, e che le mura di Gerico crollarono al suono delle trombe?» E Pico infilò prontamente una lunga litania di cose ammirabili in cui credeva. Alessandro, ridendo a crepapelle, piombò su un sofà. «Anch'io credo a tutto questo come te,» diceva, «perché mi rendo conto che non potrò salvarmi che in grazia della fede: non certo per le mie opere.» «Ah, Santo Padre,» disse Pico, «voi non avete bisogno né di opere né di fede: queste cose valgono per dei poveri profani come noi, ma voi che siete vice-Dio, potete credere e operare come più vi piace. Voi avete le chiavi del cielo; e, senza dubbio, san Pietro non vi sbatterà la porta in faccia. Ma, in quanto a me, vi dico che avrei bisogno di una potente protezione se, non essendo altro che un povero principe, fossi andato a letto con mia figlia e mi fossi servito dello stiletto e di certe polverine così spesso come Vostra Santità.» Alessandro vi sapeva stare allo scherzo. «Parliamo seriamente,» disse al principe della Mirandola. «Dimmi, che merito può esserci nel dire a Dio che siamo persuasi di cose delle quali non possiamo affatto essere persuasi? Che piacere può fare, questo, a Dio? Detto tra noi: dire di credere in quel che è impossibile credere, significa mentire.»

Pico della Mirandola si fece un gran segno di croce: «Ah, mio Dio!» esclamò, «Vostra Santità mi perdoni, ma voi non siete cristiano!» «No, in fede mia,» disse il papa. «Lo sospettavo,» replicò Pico della Mirandola.

(Scritto da un discendente di Rabelais)

II

Che cos'è la fede? È il credere in ciò che appare evidente? No: per me è evidente che esiste un Essere necessario, eterno, supremo, intelligente; ma questa non è fede, è ragione. Non ho nessun merito nel pensare che questo Essere eterno, infinito, che è la virtù, la bontà stessa, voglia che io sia buono e virtuoso. La fede consiste nel credere non a ciò che sembra vero, ma a ciò che sembra falso al nostro intelletto. Gli asiatici possono credere soltanto per fede al viaggio di Maometto nei sette pianeti, alle incarnazioni del dio Fo, di Visnù, di Xaca, di Brahma di Sammonocodom ecc. Essi sottomettono il loro intelletto, hanno paura d'esaminare, non vogliono né essere impalati né bruciati; dicono soltanto: «Io credo.»

C'è la fede in cose stupefacenti, e la fede in cose contraddittorie e impossibili.

Visnù s'è incarnato cinquecento volte; questo è sbalorditivo, ma, infine, non fisicamente impossibile, perché se Visnù ha un'anima, può averla messa in cinquecento corpi, tanto per divertirsi. L'indiano, in verità, non ha una fede molto viva; non è intimamente persuaso di queste metamorfosi; però dice al suo bonzo: «Ho la fede: voi volete che Visnù sia passato per cinquecento incarnazioni; ciò vi frutta cinquecento rupie di rendita. E va bene; ma se io non l'ho, questa fede, voi andrete in giro a berciare contro di me, mi denuncerete, e rovinerete il mio commercio. Ebbene, questa fede ce l'ho, e in più eccovi dieci rupie in regalo.» L'indiano può giurare a quel bonzo che gli crede, senza fare un falso giuramento perché, dopo tutto, non gli è dimostrato che Visnù non sia venuto nelle Indie cinquecento volte.

Ma se il bonzo esige da lui ch'egli creda in una cosa contraddittoria, impossibile - per esempio, che due più due fanno cinque, che lo stesso corpo può trovarsi in mille luoghi diversi, che essere e non essere sono assolutamente la medesima cosa - in questo caso, se l'indiano dice che egli ha la fede, mente; e se giura che crede, commette uno spergiuro. Dice dunque al bonzo: «Reverendo padre, io non posso assicurarvi che credo a queste assurdità, anche se esse vi fruttassero diecimila rupie di rendita, invece di cinquecento.» «Figlio mio,» risponde il bonzo, «dammi venti rupie, e Dio ti farà la grazia di credere in tutto ciò in cui non credi.» «Ma come potete pensare,» risponde l'indiano, «che Dio operi su di me quel che non può operare su se stesso? Non è possibile che Dio faccia o creda in cose contraddittorie: non sarebbe Dio, altrimenti. Io sono pronto, per farvi piacere, a credere in ciò che è oscuro; ma non posso dirvi che credo nell'impossibile. Dio vuole che noi siamo virtuosi, non che siamo assurdi. Vi ho già dato dieci rupie, eccone ancora venti: credete in trenta rupie; siate, se ci riuscite, un uomo onesto, e non rompetemi più le scatole.»



FILOSOFIA



Filosofo, «amante della saggezza», ossia «della verità». Tutti i filosofi hanno avuto questa duplice facoltà: non c'è nessun filosofo dell'antichità che non abbia dato esempi di virtù agli uomini e lezioni di verità morali. Essi poterono ingannarsi tutti nella fisica, ma questa è così poco necessaria alla condotta della vita che i filosofi non ne avevano nessun bisogno. Sono occorsi secoli per conoscere una parte delle leggi della natura. Un giorno solo basta a un saggio per conoscere i doveri dell'uomo.

Il filosofo non è un entusiasta, non s'erige a profeta, non si dice ispirato dagli dei; e così non porrò nel novero dei filosofi né l'antico Zoroastro, né Ermete, né l'antico Orfeo, né alcuno di quei legislatori di cui si gloriavano le nazioni della Caldea, della Persia, della Siria, dell'Egitto e della Grecia. Coloro che si proclamarono figli degli dei erano padri dell'impostura; e, se si servirono della menzogna per insegnare alcune verità, erano indegni d'insegnarle; non erano filosofi: erano tutt'al più dei prudentissimi mentitori.

Per quale fatalità, forse vergognosa per i popoli occidentali, dobbiamo arrivare fino all'estremo Oriente per trovare un saggio semplice, alieno dal fasto e dall'impostura, che insegnava agli uomini a vivere felici seicento anni prima della nostra era, in un tempo in cui da noi tutto il nord ignorava l'alfabeto e i greci cominciavano appena a distinguersi per la loro saggezza? Questo saggio è Confucio, che, unico fra tutti i legislatori, non volle mai ingannare gli uomini. Quale più bella regola di condotta fu mai data, dopo di lui, in tutta la terra? «Governate uno Stato come si deve governare una famiglia: non si può ben governare la propria famiglia che dandole il buon esempio.

«La virtù deve essere comune al contadino e al monarca.

«Abbi cura di prevenire i delitti, se vuoi toglierti il peso di punirli.

«Sotto i buoni re Yao e Xu i cinesi furono buoni; sotto i cattivi re Kie e Chu furono cattivi.

«Fa' agli altri quel che faresti a te stesso.

«Ama gli uomini in generale; ma prediligi quelli virtuosi. Dimentica le ingiurie, mai i benefici.

«Ho veduto uomini incapaci di scienza, non ne ho mai visti incapaci di virtù.»

Riconosciamo che non c'è mai stato legislatore che abbia annunciato verità più utili al genere umano.

Una folla di filosofi insegnò, dopo di lui, una morale altrettanto pura. Se si fossero limitati ai loro vani sistemi di fisica, oggi non si pronunzierebbe il loro nome che per prenderli in giro. Se li rispettiamo ancora, è perché furono giusti e insegnarono agli uomini ad esserlo.

Non possiamo leggere certi passi di Platone e, soprattutto, l'ammirevole esordio delle leggi di Zaleuco, senza sentire in cuore l'amore per le azioni oneste e generose. I romani ebbero il loro Cicerone, che vale da solo, forse, tutti i filosofi della Grecia. Dopo di lui vi furono uomini ancor più degni di rispetto, ma che si dispera quasi di poter imitare: Epitteto, nella sua condizione di schiavo, gli Antonini e i Giuliani sul trono.

Quale cittadino fra noi si priverebbe, come Giuliano, Antonino e Marco Aurelio, di tutte le delicatezze della nostra vita molle ed effeminata? Chi dormirebbe come loro sulla nuda terra? Chi vorrebbe imporsi la loro frugalità? Chi marcerebbe come loro a piedi nudi e capo scoperto, alla testa degli eserciti, esposto al sole ardente come al gelo? Chi saprebbe dominare come loro le proprie passioni? Tra noi ci sono dei devoti; ma dove sono i saggi? Dove sono le anime incrollabili, giuste e tolleranti?

Abbiamo avuto grandi filosofi speculativi, in Francia; e tutti, meno Montaigne, sono stati perseguitati. Questo, mi sembra, è l'estremo grado della malignità della nostra natura: voler opprimere quegli stessi filosofi che vogliono correggerla.

Capisco che dei fanatici di una setta vogliano scannare gli entusiasti di un'altra; che i francescani odino i domenicani, e che un cattivo artista intrighi per diffamare chi gli è superiore; ma che il saggio Charron sia stato minacciato di morte; che il dotto e generoso Ramus sia stato assassinato; che Descartes sia stato obbligato a fuggire in Olanda per sottrarsi al furore degli ignoranti; che Gassendi sia stato costretto più volte a ritirarsi a Digne, al riparo dalle calunnie di Parigi, queste sono vergogne eterne per una nazione.

Uno dei filosofi più perseguitati fu l'immortale Bayle, onore dell'umana natura. Mi si dirà che il nome di Jurieu, suo calunniatore e persecutore, è diventato esecrabile: lo riconosco. Anche il nome del gesuita Le Tellier è divenuto tale; ma i grandi uomini che costui oppresse, non hanno ugualmente consumato i loro giorni nell'esilio e nella miseria?

Uno dei pretesti di cui ci si servì per perseguitare Bayle e ridurlo alla povertà fu la voce David del suo utile dizionario. Lo si accusava di non aver lodato azioni in sé ingiuste, sanguinarie, atroci, o contrarie alla buona fede, o che fanno arrossire il pudore.

Bayle, infatti, non lodò David per aver radunato, secondo i libri ebraici, seicento vagabondi carichi di debiti e di delitti; per aver saccheggiato i suoi compatrioti alla testa di quei banditi; per essersi deciso a sgozzare Nabal e tutta la sua famiglia perché non aveva voluto pagare le taglie; per essere andato a vendere i suoi servigi al re Achis, nemico della sua nazione; per aver tradito questo re, suo benefattore; per aver saccheggiato i villaggi alleati del medesimo re; per aver massacrato in quei villaggi persino i lattanti, per paura che qualcuno di loro un giorno potesse denunciare le sue rapine; per aver fatto morire tutti gli abitanti di alcuni altri villaggi sotto seghe, erpici di ferro, e in fornaci da mattoni; per aver rubato, con una azione perfida, il trono a Isboset, figlio di Saul; per aver spogliato e fatto morire Mifiboset, nipote di Saul e figlio del suo amico, del suo protettore Gionata; per aver consegnato ai gabaoniti altri due figli e cinque nipoti di Saul che morirono impiccati.

Non parlo dell'incredibile incontinenza di David, delle sue concubine, del suo adulterio con Betsabea e dell'assassinio di Uria.

Ma come! I nemici di Bayle avrebbero voluto che egli elogiasse tutte queste crudeltà e tutti questi delitti? Bayle avrebbe dovuto dire: «Principi della terra, imitate l'uomo secondo il cuore di Dio; massacrate senza pietà gli alleati del vostro benefattore; sgozzate o fate sgozzare la famiglia del vostro re; andate a letto con tutte le donne dopo aver fatto trucidare tutti gli uomini, e sarete un modello di virtù, non appena si dirà che avete composto dei salmi»?

Bayle non aveva forse ragione di dire che David fu un uomo secondo il cuore di Dio, non per i suoi misfatti, ma per la sua penitenza? Bayle non rendeva un servigio al genere umano affermando che Dio, il quale senza dubbio aveva dettato tutta la storia ebraica, non canonizzò i crimini riferiti in essa?

Tuttavia Bayle fu perseguitato. E da chi? Da uomini anch'essi perseguitati, da esuli che nella loro patria sarebbero stati condannati al rogo; e costoro erano combattuti da altri esuli chiamati giansenisti, cacciati dal loro paese dai gesuiti, i quali, più tardi, furono cacciati a loro volta.

Cosi tutti i persecutori si dichiararono una guerra mortale, mentre il filosofo, oppresso da tutti loro, si accontentava di compiangerli.

Non è molto noto che Fontanelle, nel 1713, fu sul punto di perdere le sue pensioni, la sua carica e la sua libertà per aver redatto, in Francia, vent'anni prima, il Trattato sugli oracoli del dottor Van Dale, da cui aveva eliminato prudentemente tutto quanto poteva far divampare il fanatismo. Un gesuita aveva scritto contro di lui, ed egli non s'era degnato di rispondere; e ciò bastò perché il gesuita Le Tellier, confessore di Luigi XIV, accusasse Fontanelle di ateismo presso il re.

Senza l'intervento del signor D'Argenson, quel degno figlio d'un falsario, procuratore di Vire, e riconosciuto poi falsario anche lui, avrebbe proscritto la vecchiaia del nipote di Corneille.

È talmente facile sedurre il proprio penitente che dobbiamo ringraziare Dio se quel Le Tellier non fece più male ancora. Ci sono due luoghi nel mondo dove non si può resistere alla seduzione e alla calunnia: il letto e il confessionale.

Abbiamo sempre visto i filosofi perseguitati da fanatici. Ma è possibile che anche i letterati siano dei fanatici, e che essi stessi affilino spesso le armi contro i loro fratelli, che vengono l'uno dopo l'altro abbattuti?

Dannati uomini di lettere! Sta a voi fare i delatori? Ditemi se ci furon mai, presso i romani, dei Garasse, degli Chaumeix, degli Hayer che accusassero i Lucrezio, i Posidonio, i Varrone, i Plinio!

Essere ipocriti, che bassezza! Ma essere ipocriti e malvagi, che orrore! Nell'antica Roma, dei cui sudditi eravamo piccola parte, non ci furono mai ipocriti. Ci furono delle canaglie, lo ammetto, ma non degli ipocriti religiosi, che sono la specie più vile e più crudele di tutte. Perché in Inghilterra non ce ne sono affatto? Perché mai in Francia ce ne sono tanti? Filosofi, vi sarà facile risolvere questo problema.



FINE, CAUSE FINALI



Bisogna essere dei gran pazzi per negare che lo stomaco sia fatto per digerire, gli occhi per vedere, le orecchie per udire.

D'altra parte, bisogna avere uno strano amore delle cause finali, per sostenere che la pietra è stata creata allo scopo di costruire case e che i bachi da seta sono nati in Cina perché noi potessimo avere del satin in Europa.

Ma, si osserva, se Dio ha creato una cosa per un fine, ne consegue che ha creato tutte le cose per un fine. È ridicolo ammettere la Provvidenza in un caso e negarla negli altri. Tutto ciò che è, è stato previsto, preordinato. Non c'è ordine che non abbia un senso, non c'è effetto senza causa: dunque tutto è egualmente il risultato, il prodotto di una causa finale; ed è altrettanto legittimo dire che i nasi sono stati fatti per portare gli occhiali e le dita per essere ornate di diamanti, quanto lo è il dire che le orecchie sono state formate per udire i suoni e gli occhi per vedere la luce.

Io credo che si possa facilmente chiarire questa difficoltà. Quando gli effetti sono invariabilmente i medesimi, in tutti i luoghi e in tutti i tempi, quando questi effetti uniformi sono indipendenti dagli esseri ai quali appartengono, allora c'è, in modo evidente, una causa finale.

Tutti gli animali hanno occhi, e vedono; tutti hanno orecchie e odono; hanno una bocca con la quale mangiano, uno stomaco o qualcosa di simile con cui digeriscono, un orifizio da cui espellono gli escrementi e uno strumento per la generazione; e questi doni della natura operano in essi senza l'ausilio di nessun'arte. Ecco delle cause finali chiaramente stabilite; sarebbe pervertire la nostra facoltà il pensare di negare una verità così universale.

Ma le pietre non servono, in ogni luogo e tempo, a costruire case; né tutti i nasi portano occhiali, né tutte le dita anelli, né tutte le gambe vestono calze di seta. Il baco da seta non è stato dunque creato per coprirmi le gambe, come la vostra bocca è fatta per mangiare e il nostro deretano per andare al gabinetto. Ci sono, dunque, effetti prodotti da cause finali e altri, in grandissimo numero, che non possono chiamarsi con questo nome.

Ma gli uni e gli altri fanno parte egualmente del disegno della Provvidenza generale; niente, indubbiamente, accade contro di essa o senza di essa. Tutto ciò che appartiene alla natura è uniforme, immutabile, è l'opera immediata del Signore: è lui che ha creato le leggi per cui la luna conta per tre quarti nella causa del flusso e del riflusso dell'oceano, e il sole per un quarto; è lui che ha dato un movimento di rotazione al sole, per cui questo astro, in cinque minuti e mezzo, invia raggi di luce negli occhi degli uomini, dei coccodrilli e dei gatti.

Ma se, dopo tanti secoli, ci è successo di inventare forbici e spiedi, di tosare con le prime la lana dei montoni, e di farli cuocere con i secondi per mangiarli, che altro si può inferire se non che Dio ci ha fatti in modo che un giorno dovessimo diventare industriosi e carnivori?

Senza dubbio, i montoni non furono certo creati per essere cotti e mangiati, poiché molti popoli si astengono da questo orrore; gli uomini non furono certo creati per massacrarsi a vicenda, poiché i bramini e i quaccheri non ammazzano nessuno; ma la pasta di cui siam fatti produce spesso massacri, come produce calunnie, vanità, persecuzioni e impertinenze. Non che la conformazione dell'uomo sia precisamente la causa finale dei nostri furori e delle nostre sciocchezze: perché una causa finale è universale e invariabile in ogni tempo e in ogni luogo; ma gli orrori e le assurdità della specie umana fanno parte egualmente dell'ordine eterno delle cose. Quando noi battiamo il grano, il correggiato è la causa finale della separazione del grano. Ma se questo correggiato, battendo il mio grano, schiaccia mille insetti, ciò non avviene affatto perché lo voglio, e nemmeno per caso: è solo perché quegli insetti si son trovati in quel momento sotto il mio correggiato, e dovevano trovarcisi.

È una conseguenza della natura delle cose che un uomo sia ambizioso, che un altro arruoli talvolta altri uomini, che sia vincitore o che sia sconfitto. Ma mai si potrà dire: «L'uomo è stato creato da Dio per essere ucciso in guerra.»

Gli strumenti che ci ha dato la natura non possono essere sempre cause finali in azione, che abbiano il loro immancabile effetto: gli occhi dati per vedere non sono sempre aperti; ogni senso ha i suoi momenti di riposo. Vi sono anche dei sensi di cui non si fa mai uso. Per esempio: una povera sciocca sventurata, rinchiusa in un chiostro a quattordici anni, chiude per sempre in sé la porta da cui sarebbe dovuta uscire una nuova generazione; ma la causa finale sussiste lo stesso: essa agirà, non appena sarà libera.



FOLLIA



Non è il caso di rivolgerci al libro di Erasmo, che oggi sarebbe soltanto un insieme di luoghi comuni e abbastanza insipidi.

Noi chiamiamo «follia» quella malattia degli organi del cervello che impedisce ad un uomo di pensare e agire come gli altri. Se costui non può amministrare i suoi beni, lo si interdice; se non riesce ad avere idee consone alla società, lo si esclude; se e pericoloso, lo si rinchiude; se è furioso, lo si lega.

Ciò che importa osservare è che quest'uomo non è affatto privo di idee; ne ha come tutti gli altri, durante la veglia, e spesso anche quando dorme. Ci si può domandare come mai la sua anima spirituale, immortale, situata nel suo cervello, pur ricevendo attraverso i sensi tutte le idee ben nette e distinte, non ne ricavi mai pero un retto giudizio. Essa vede gli oggetti come li vedeva l'anima di Aristotele e di Platone, di Locke e di Newton; ode gli stessi suoni, ha la stessa sensazione del tatto: come mai, dunque, ricevendo le stesse percezioni delle persone più sagge, non può fare a meno di combinarle in modo stravagante?

Se questa sostanza semplice ed eterna ha per le sue azioni gli stessi strumenti che hanno le anime dei cervelli sani, dovrebbe ragionare come loro. Chi può impedirglielo? Concepisco chiaramente che, se un pazzo vede rosso e i sani vedono blu; se quando questi odono una musica, lui ode il raglio di un asino; se quando i sani sono alla predica, costui crede di essere a teatro; se quando essi intendono «sì», egli intende «no», allora la sua anima deve pensare il contrario di quel che pensano gli altri. Ma il pazzo ha le medesime percezioni loro; non c'è nessuna ragione apparente perché la sua anima, avendo ricevuto dai suoi sensi tutti i suoi strumenti, non possa farne uso. Essa è pura, dicono; non è di per sé soggetta ad alcuna infermità: eccola fornita di tutti gli ausili necessari; qualsiasi cosa accada nel corpo, niente può mutare l'essenza di quest'anima; con tutto ciò, la si porta, col suo involucro, al manicomio!

Questa riflessione può far sospettare che la facoltà di pensare, data da Dio all'uomo, sia soggetta a guasti, come gli altri sensi. Un pazzo è un infermo il cui cervello soffre, come il gottoso è un infermo che ha male ai piedi e alle mani: egli pensava con il cervello, come camminava con i piedi, senza nulla sapere né della sua incomprensibile facoltà di camminare, né della sua non meno incomprensibile facoltà di pensare. Si ha la gotta al cervello come la si ha ai piedi. Infine, dopo mille ragionamenti, forse solo la fede può convincerci che una sostanza semplice e immateriale possa essere malata.

I dotti o i dottori diranno al pazzo: «Amico mio, sebbene tu abbia perduto il senso comune, la tua anima è altrettanto spirituale, pura, immortale della nostra. Ma la nostra è alloggiata bene, e la tua, male; le finestre della casa sono ostruite per lei, le manca l'aria, soffoca.» Il pazzo, nei suoi momenti di lucidità, potrebbe rispondere: «Amici miei, voi, come al solito, presupponete quel che invece è in discussione. Le mie finestre sono aperte altrettanto bene che le vostre, poiché vedo gli stessi oggetti e odo le stesse parole; bisogna dunque, necessariamente, che la mia anima faccia un cattivo uso dei suoi sensi, o che essa stessa sia un senso viziato, una qualità depravata. In poche parole: o la mia anima è di per sé pazza, o io non ho anima.»

Uno dei dottori potrà rispondere: «Fratello mio, Dio forse ha creato anime folli, come ha creato anime sagge.» Il pazzo replicherà: «Se credessi a quel che dite, sarei ancora più pazzo di quel che sono. Di grazia, voi che ne sapete tante, ditemi: perché sono pazzo?» Se i dottori hanno ancora un po' di buon senso, gli risponderanno: «Non ne sappiamo un'acca.» Essi non comprenderanno perché un cervello abbia idee incoerenti; del resto, non comprenderanno nemmeno perché un altro cervello possa avere idee normali e coerenti. Si crederanno saggi, e invece saranno altrettanto pazzi quanto lui.



FRODE. SE SIA NECESSARIO USARE PIE FRODI CON IL POPOLO



Il fachiro Bambabef incontrò un giorno un discepolo di Kung Fu-tzu, che noi chiamiamo Confucio, e questo discepolo si chiamava Uang. Bambabef sosteneva che il popolo ha bisogno di essere ingannato. Uang invece affermava che non bisogna mai ingannare nessuno. Eccovi, riassunta, la loro discussione.

BAMBABEF

Bisogna imitare l'Essere supremo, che non ci mostra le cose quali sono in realtà: egli ci fa vedere il sole con un diametro di due o tre piedi, sebbene questo astro sia un milione di volte più grande della terra; ci fa vedere la luna e le stelle attaccate sullo stesso fondo azzurro, mentre si trovano a distanze diverse. Vuole che, vista da lontano, una torre quadrata ci sembri rotonda; vuole che il fuoco ci sembri caldo, sebbene in sé non sia né caldo né freddo. Insomma, ci circonda di errori convenienti alla nostra natura.

UANG

Quelli che voi chiamate errori non sono tali. Il sole, quale si trova a milioni di milioni di li di là dal nostro globo, non è quello che noi vediamo. Noi non vediamo, in realtà, e non possiamo vedere che il sole che si riflette sulla nostra retina, sotto un determinato angolo. I nostri occhi non ci sono stati dati per conoscere le grandezze e le distanze; per conoscerle occorrono altri ausili e altre operazioni.

Bambabef sembrò molto stupito a queste parole. Uang, che era molto paziente, gli spiegò la teoria dell'ottica; e Bambabef, che non era affatto stupido, si arrese alle dimostrazioni del discepolo di Confucio. Poi riprese la disputa in questi termini:

BAMBABEF

Se Dio non ci inganna per mezzo dei nostri sensi, come io credevo, ammettete almeno che i medici ingannano sempre i bambini per il loro bene; dicono che daranno loro dello zucchero, e invece danno loro del rabarbaro. E dunque, io, fachiro, posso ingannare il popolo, che è ignorante come i bambini.

UANG

Io ho due figli, e non li ho mai ingannati. Ho detto loro, quando erano malati: «Ecco una medicina molto amara, bisogna avere il coraggio di berla; vi farebbe male se fosse dolce.» Non ho mai sopportato che governanti e precettori incutessero loro paura degli spiriti, dei fantasmi, dei folletti, degli stregoni. E così ne ho fatti dei giovani cittadini coraggiosi e saggi.

BAMBABEF

Il popolo non è nato in una condizione felice come quella della vostra famiglia.

UANG

Tutti gli uomini si somigliano: sono nati con le stesse disposizioni. Sono i fachiri che corrompono la natura degli uomini,

BAMBABEF

Noi insegnamo loro degli errori, lo confesso, ma per il loro bene. Noi facciamo credere loro che, se non comprano i nostri chiodi benedetti, se non espiano i loro peccati dandoci del denaro, diventeranno, in un'altra vita, cavalli da posta, cani o lucertole: ciò li sgomenta, e così diventano gente per bene.

UANG

Ma non vi accorgete di pervertire questa povera gente? Ce ne sono fra loro, più che non si creda, che ragionano, e che se la ridono dei vostri miracoli, delle vostre superstizioni; che sanno benissimo che non saranno cambiati né in lucertole né in cavalli da posta; e allora, che accade? Essi hanno abbastanza buon senso da capire che gli insegnate una religione balorda, ma non ne hanno abbastanza per elevarsi verso una religione pura e libera da superstizioni come la nostra. Le passioni li portano a credere che non c'è religione, perché la sola che si insegna loro è ridicola; voi diventate colpevoli di tutti i vizi in cui affondano.

BAMBABEF

Niente affatto, perché noi insegnamo loro una buona morale.

UANG

Vi fareste lapidare dal popolo, se gli insegnaste una morale impura. Gli uomini sono cosiffatti che accettano volentieri di commettere il male, ma non accettano che glielo si predichi. Bisognerebbe soltanto non mischiare una morale saggia con favole assurde, perché così voi indebolite, con le vostre imposture, di cui potreste fare a meno, quella morale che siete obbligati a insegnare.

BAMBABEF

E che! Voi credete che si possa insegnare la verità al popolo senza sostenerla con delle favole?

UANG

Lo credo fermamente. I nostri letterati sono della stessa pasta dei nostri sarti, dei nostri tessitori e dei nostri contadini. Essi adorano un Dio creatore, remuneratore e vendicatore. Essi non macchiano il loro culto né con sistemi assurdi, né con cerimonie stravaganti; e ci sono molto meno delitti fra i letterati che non tra il popolo. Perché non degnarsi di istruire i nostri operai, come istruiamo i nostri letterati?

BAMBABEF

Fareste una grossa sciocchezza. È come se voleste che fossero forniti delle stesse doti, che fossero tutti giureconsulti. Occorre pane bianco per i padroni e pane bigio per i domestici.

UANG

Ammetto che non tutti gli uomini debbano avere la stessa scienza; ma ci sono cose necessarie a tutti. È necessario che ognuno sia giusto, e il modo più sicuro di insegnare la giustizia a tutti è di insegnare la religione senza superstizioni.

BAMBABEF

È bel progetto, ma impraticabile. Pensate forse che agli uomini basti credere in un Dio che punisce e ricompensa? Voi mi avete detto che spesso succede, tra il popolo, che i più intelligenti si ribellano alle mie favole: costoro si ribelleranno ugualmente alla vostra verità. Diranno: «Chi mi assicura che Dio punisce e ricompensa? Che prova c'è? E che missione avete, voi? Che miracolo avete compiuto perché vi creda?» E si burleranno di voi molto più che di me.

UANG

Ecco dov'è il vostro errore. Voi vi immaginate che si scuoterà il giogo di un'idea onesta, verosimile, utile a tutti, concorde con la ragione umana, solo perché si rifiutano cose disoneste, assurde, inutili, pericolose, che suscitano avversione in chi è dotato di buon senso.

Il popolo è dispostissimo a credere ai suoi magistrati; quando questi gli propongono una credenza ragionevole, la fa sua volentieri. Non c'è nessun bisogno di miracoli per credere in un Dio giusto, che legge nel cuore dell'uomo: è un'idea troppo naturale per essere combattuta. Non è necessario precisare in qual modo Dio punirà e ricompenserà: basta che si creda alla sua giustizia. Vi assicuro che ho visto intere città che non avevano quasi altri dogmi, e sono quelle dove ho trovato più virtù.

BAMBABEF

Fateci caso: in queste città troverete anche dei filosofi che vi negheranno e le pene e le ricompense.

UANG

Ma ammetterete che questi filosofi negheranno ancor più vivamente le vostre invenzioni: Perciò non avete niente da guadagnarci. E quand'anche vi fossero dei filosofi che rifiutassero i miei principi, non sarebbero per questo meno onesti né meno ricchi di quella virtù che deve essere praticata per amore, non per paura. Ma c'è di più: lo vi assicuro che nessun filosofo potrebbe mai essere certo che la Provvidenza non riservi pene ai malvagi e ricompense ai buoni; perché se essi mi chiederanno chi mi ha detto che Dio punisce, io chiederò loro chi gli ha detto che Dio non punisce. Insomma, sostengo che i filosofi mi aiuteranno, lungi dal contraddirmi. Volete essere filosofo anche voi?

BAMBABEF

Volentieri. Ma non ditelo ai fachiri.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 21:47
 
Quota

- G -






GENESI



Non anticiperemo qui quanto diciamo di Mosè nella voce a lui dedicata; seguiremo, per ordine, qualche passo principale del Genesi.

«Nel principio Iddio creò il cielo e la terra.»

Così è stato tradotto, ma la traduzione non è esatta. Non c'è uomo un po' istruito che non sappia che il testo porta: «Nel principio, gli dei fecero» oppure «gli dei fece il cielo e la terra». D'altronde, questa lezione è conforme all'antica idea dei fenici, i quali avevano immaginato che Dio, avesse impiegato divinità inferiori per dare ordine al caos, lo sciautereb. I fenici erano da molto tempo un popolo potente, che aveva già la sua teogonia prima che gli ebrei si fossero impadroniti di qualche villaggio sui confini del loro paese. È ben naturale pensare che, quando gli ebrei ebbero finalmente un piccolo insediamento presso la Fenicia, abbiano cominciato ad apprenderne la lingua, soprattutto quando vi furono schiavi. Allora, coloro che impararono a scrivere, si misero bellamente a copiare qualcosa dell'antica teologia dei loro padroni: è così che avanza lo spirito umano.

Nei tempi in cui si crede che Mosè sia vissuto, i filosofi fenici ne sapevano probabilmente abbastanza per considerare la terra come un punto, a paragone della infinita moltitudine di mondi che Dio ha posti nell'immensità dello spazio chiamato «cielo». Ma quell'idea, così antica e così falsa che il cielo sia stato fatto per la terra, è sempre prevalsa nel volgo ignorante. È press'a poco come se si dicesse che Dio creò tutte le montagne e un granello di sabbia, e ci si immaginasse che le montagne siano state fatte per quel granello! Non è possibile che i fenici, così abili navigatori, non avessero dei buoni astronomi; ma i vecchi pregiudizi prevalevano, e questi vecchi pregiudizi furono la sola scienza degli ebrei.

«La terra era tohu-bohu e vuota; le tenebre erano sopra la faccia dell'abisso, e lo spirito di Dio era portato sulle acque.»

Tohu-bohu significa precisamente caos, disordine; è uno di quei vocaboli imitativi che si trovano in tutte le lingue, come «sottosopra», «frastuono», «trictrac». La terra non aveva ancora la forma di adesso, la materia esisteva, ma la potenza divina non l'aveva ancora formata. Lo spirito di Dio significa il soffio, il vento, che agitava le acque. Quest'idea è espressa nei frammenti dell'autore fenicio Sanchuniathon. I fenici, come tutti gli altri popoli, credevano all'eternità della materia. Non c'è un solo autore, nell'antichità, che abbia mai detto che qualcosa sia stato tratto dal nulla. In tutta la Bibbia non si trova nemmeno un passo in cui si dice che la materia venne creata dal nulla.

Gli uomini furono sempre divisi sulla questione dell'eternità del mondo, ma mai su quella dell'eternità della materia.

Ex nihilo nihil, in nihilum nil posse reverti.

Ecco l'opinione di tutta l'antichità.

«Dio disse: Sia fatta la luce, e la luce fu; ed egli vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e Dio chiamò la luce "giorno" e le tenebre "notte": e la sera e il mattino furono un giorno. E Dio disse anche: Sia fatto il firmamento in mezzo alle acque, ed esso separi le acque dalle acque. E Dio fece il firmamento e divise le acque al di sopra del firmamento da quelle al di sotto del firmamento; e Dio chiamò il firmamento "cielo". E la sera e il mattino furono il secondo giorno ecc. E Dio vide che ciò era buono.»

Cominciamo con l'esaminare se il vescovo di Avranches, Huet, e Leclerc non abbiano avuto veramente ragione contro coloro che pretendono di trovare in questo passo un tratto di eloquenza sublime.

Questo tipo di eloquenza non appartiene a nessuna storia scritta dagli ebrei. Lo stile è qui della massima semplicità, come nel resto dell'opera. Se un oratore, per far conoscere la potenza di Dio, si servisse di questa sola espressione: «Egli disse: Sia fatta luce, e la luce fu», sarebbe veramente sublime. Tale è quel passo di un salmo: «Dixit, et facta sunt». È un tratto che, unico in quel passo e posto in modo da rendere una grande immagine, colpisce l'animo e lo rapisce. Ma qui siamo davanti a una narrazione di una semplicità assoluta. L'autore ebreo non parla della luce diversamente da come parla degli altri oggetti della creazione; ripete egualmente ad ogni versetto: «E Dio vide che ciò era buono.». Tutto è sublime nella creazione, non c'è dubbio: ma quella della luce non lo è più di quella dell'erba dei campi. Sublime è ciò che si innalza al di sopra del resto, mentre qui lo stesso tono regna in tutto il capitolo.

Era anche opinione antichissima che la luce non venisse dal sole. Vedendola diffondersi prima del levarsi e dopo il tramontare del sole, gli uomini immaginavano che il sole servisse solo a darle maggior forza. Così l'autore del Genesi si conforma a questo errore popolare; e, per una singolare inversione dell'ordine delle cose, fa creare il sole e la luna addirittura quattro giorni dopo la luce. Non riusciamo a capire come ci possano essere un mattino e una sera prima che ci sia un sole: c'è qui una confusione che è impossibile sbrogliare. Quell'autore «ispirato» si conformava ai vaghi e rozzi pregiudizi del suo popolo. Dio non pretendeva di insegnare la filosofia agli ebrei; certo, avrebbe potuto innalzare il loro spirito fino alla verità, ma preferì abbassarsi fino a loro.

La separazione della luce e delle tenebre non appartiene a una fisica migliore; sembra che la notte e il giorno fossero mescolati assieme come grani di specie diversa che debbano venir separati. È abbastanza noto che le tenebre non sono altro che la privazione della luce, e che non c'è luce, in realtà, se non in quanto i nostri occhi ne ricevono la sensazione; ma a quei tempi si era ben lontani dal conoscere queste verità.

Anche l'idea di un firmamento appartiene alla più remota antichità. Ci si immaginava che i cieli fossero del tutto solidi, perché vi si vedevano sempre gli stessi fenomeni. I cieli ruotavano sul nostro capo, e dunque dovevan essere fatti di una materia durissima. E il modo di calcolare come le esalazioni della terra e dei mari potevano fornire acqua alle nubi? Non c'era nessun Halley che potesse fare questo calcolo. Ci dovevan essere dunque dei serbatoi d'acqua, nel cielo.

Questi serbatoi non potevano essere sostenuti che da una volta molto solida: vi si vedeva attraverso, e dunque essa doveva essere di cristallo. Perché le acque superiori cadessero da questa volta sulla terra, era necessario che ci fossero porte, chiuse, cateratte, che s'aprissero e si chiudessero. Tale era l'astronomia ebraica; e poiché si scriveva per gli ebrei, bisognava pur adottare le loro idee.

«E Dio fece due grandi luminari: uno per presiedere al giorno, l'altro alla notte; e fece anche le stelle.»

Sempre la stessa ignoranza della natura. Gli ebrei non sapevano che la luna illumina solo di luce riflessa. E l'autore parla qui delle stelle come di una bagattella, sebbene esse siano altrettanti soli ciascuno dei quali ha dei mondi che ruotano attorno a lui. Lo Spirito Santo si proporzionava allo spirito dei tempi.

«Dio disse ancora: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, che sia padrone dei pesci del mare"...»

Che intendevano gli ebrei per «facciamo l'uomo a nostra immagine»? Quel che intendeva tutta l'antichità:

Finxit in effigiem moderantum cuncta deorum.

Si fanno immagini solo di corpi. Nessun popolo immaginò un Dio senza corpo, ed è impossibile rappresentarselo altrimenti. Si può ben dire: «Dio non è nulla di tutto ciò che conosciamo», ma non si può avere alcuna idea di quello che egli è. Gli ebrei credettero sempre a un Dio corporeo, come tutti gli altri popoli. Tutti i primi Padri della Chiesa credettero anch'essi a un Dio corporeo, finché non ebbero abbracciato le idee di Platone.

«Egli li creò maschio e femmina.»

Se Dio o gli dei secondari crearono l'uomo maschio e femmina, sembra, in questo caso, che gli ebrei credessero Dio e gli dei maschi e femmine. D'altronde non si capisce se l'autore voglia dire che l'uomo aveva dapprima in sé i due sessi, o se intende che Dio creò Adamo ed Eva lo stesso giorno. Il senso più naturale è che Dio formò Adamo ed Eva contemporaneamente, ma questo sarebbe in contraddizione con la formazione della donna, fatta con una costola dell'uomo molto tempo dopo i sette giorni.

«Ed egli il settimo giorno si riposò.»

I fenici, i caldei, gli indiani dicevano che Dio aveva creato il mondo in sei tempi, che l'antico Zoroastro chiama i sei gâhânbâr, così celebri tra i persiani.

È incontestabile che tutti questi popoli avevano una teologia prima che l'orda ebraica abitasse i deserti di Horeb e del Sinai, prima che potesse avere degli scrittori. È dunque assai verosimile che la storia dei sei giorni sia stata imitata da quella dei sei tempi.

«Dal luogo di voluttà usciva un fiume che irrigava il giardino, e di lì si divideva in quattro fiumi; il primo si chiama Pishon (Fison), che gira nel paese di Havila da cui viene l'oro... Il secondo si chiama Ghihon, che circonda l'Etiopia... Il terzo è il Tigri e il quarto l'Eufrate.»

Secondo questa versione il paradiso terrestre avrebbe occupato quasi un terzo dell'Asia e dell'Africa. L'Eufrate e il Tigri hanno la loro sorgente a più di sessanta leghe l'una dall'altra, tra montagne orribili che non somigliano certo ad un giardino. Il fiume che costeggia l'Etiopia, e che non può essere che il Nilo o il Niger, comincia a più di settecento leghe dalle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate; e, se il Fison è il Fasi, è ben strano che sia stata messa nello stesso luogo la sorgente di un fiume della Scizia e quella di un fiume dell'Africa.

Del resto, il giardino dell'Eden è chiaramente quello di Eden a Saana, nell'Arabia Felice, famosa in tutta l'antichità. Gli ebrei, popolo molto recente, erano un'orda araba. E menavano vanto di quel che c'era di più bello nel miglior cantone dell'Arabia. Essi si son sempre serviti delle antiche tradizioni delle grandi nazioni in cui si trovavano incorporati.

«Il Signore prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di voluttà perché lo coltivasse.»

È una bellissima cosa «coltivare il proprio giardino», ma è molto improbabile che Adamo potesse coltivare un giardino di sette od ottocento leghe d'estensione. O forse gli furon dati degli aiutanti.

«Non mangiate il frutto della scienza del bene e del male.»

È difficile concepire che ci sia stato un albero che insegnasse il bene e il male, come ci sono peri e albicocchi. E poi, perché Dio non vuole che l'uomo conosca il bene e il male? Il contrario non è molto più degno di Dio e molto più necessario all'uomo? Secondo la nostra povera ragione parrebbe giusto che Dio ordinasse di mangiarne molto di quel frutto; ma bisogna che la nostra ragione si sottometta.

«Come ne avrete mangiato, morirete.»

Tuttavia Adamo ne mangiò e non morì. Molti Padri hanno considerato tutto ciò un'allegoria. In effetti, si potrebbe dire che gli animali non sanno di dover morire, mentre l'uomo lo sa per merito della sua ragione. Questa ragione è l'albero della scienza che gli fa prevedere la sua fine. Una spiegazione che potrebbe essere forse la più ragionevole.

«Il Signore disse anche: "Non è bene che l'uomo sia solo, facciamogli un aiuto simile a lui."»

Ci si aspetta che il Signore dia ad Adamo una donna. Nient'affatto: il Signore gli dà come compagni tutti gli animali.

«E il nome che Adamo diede a ciascuno degli animali è il loro vero nome.»

Per «vero nome» di un animale si può intendere un nome che designi tutte le proprietà della sua specie, o almeno le principali. Ma questo non si trova in nessuna lingua del mondo. In ognuna vi sono solo alcuni nomi imitativi, come «coq» in lingua celtica e «lupus» in latino. Ma questi nomi imitativi sono in numero minimo. E poi, se Adamo avesse conosciuto tutte le proprietà degli animali, o aveva già mangiato il frutto della scienza, o non c'era bisogno che Dio gli vietasse di mangiarlo.

Osservate che questa è la prima volta che Adamo è nominato nel Genesi. Presso gli antichi brahmani, enormemente anteriori agli ebrei, il primo uomo si chiamava Adimo, «il figlio della terra», e sua moglie Procriti, «la vita»: è quel che dice il Veidam, che è forse il libro più antico del mondo. I nomi di Adamo e di Eva avevano lo stesso significato, nella lingua fenicia.

«Mentre Adamo era addormentato, Dio prese una delle sue costole, e mise della carne al suo posto, e, con la costola tolta ad Adamo, fece una donna e la condusse ad Adamo.»

Il Signore, nel capitolo precedente, aveva già creato il maschio e la femmina; perché dunque togliere una costola all'uomo per farne una donna che già esisteva? Si suol rispondere che l'autore annuncia in un luogo quel che spiega nell'altro.

«Ora il serpente era il più astuto degli animali della terra... Esso disse alla donna...»

In tutto questo passo non si fa nessuna menzione del diavolo; tutto qui è puramente fisico. Il serpente era considerato da tutti i popoli orientali non solo come l'animale più astuto di tutti, ma anche come immortale. In una favola dei caldei si narrava di una lite tra Dio e il serpente; questa favola era stata conservata da Ferecide. Origene la cita nel suo sesto libro Contro Celso. Nelle feste di Bacco si portava in processione un serpente. A quanto dice Eusebio, nella sua Praeparatio Evangelica, libro I, capitolo X, gli egiziani attribuivano al serpente un carattere divino. In Arabia e nelle Indie e nella Cina stessa, il serpente era considerato come il simbolo della vita; è questa la ragione per cui gli imperatori cinesi, anteriori a Mosè, portarono sempre sul petto l'immagine di un serpente.

Eva non è affatto stupita che il serpente le parli. Gli animali han sempre parlato, in tutte le antiche storie; è per questo che quando Pilpai e Loqman fecero parlare gli animali, nessuno ne restò sorpreso.

Tutta questa avventura è talmente fisica e spoglia d'ogni allegoria, che vi si spiega perché, da allora, il serpente striscia sul ventre, perché noi cerchiamo sempre di schiacciarlo e perché esso cerca sempre di morderci; precisamente come si spiegava nelle antiche storie di metamorfosi perché il corvo, che in altri tempi era bianco, oggi è nero; perché il gufo esce dal suo buco solo di notte; perché il lupo ama la strage ecc.

«Io moltiplicherò le tue miserie e le tue gravidanze: partorirai nel dolore; sarai sotto il potere dell'uomo ed egli ti dominerà.»

Non si capisce perché la moltiplicazione delle gravidanze sia una punizione. Era, al contrario, una grandissima benedizione, soprattutto per gli ebrei. I dolori del parto sono forti solo nelle donne delicate: quelle che sono abituate al lavoro partoriscono senza difficoltà, soprattutto nei climi caldi. E invece ci sono animali che soffrono molto durante il parto, e ce ne sono anche che ne muoiono. Quanto poi alla superiorità dell'uomo sulla donna, è cosa assolutamente naturale: è l'effetto della maggior forza fisica, e anche spirituale. Gli uomini in generale hanno organi più capaci di un'applicazione continua e sono più adatti ai lavori della mente e del braccio. Ma quando una donna ha più polso e più acume del marito, ella ne è in tutto la padrona: in questo caso il marito è soggetto alla moglie.

«Il Signore fece loro tuniche di pelle.»

Questo passo prova chiaramente che gli ebrei credevano in un Dio corporeo, dato che gli fanno esercitare il mestiere di sarto. Un rabbino chiamato Eliezer scrisse che Dio coprì Adamo ed Eva con la stessa pelle del serpente che li aveva tentati; e Origene pretende che questa tunica di pelle era una nuova carne, un nuovo corpo che Dio fece all'uomo.

«E il Signore disse: "Ecco Adamo che è diventato come uno di noi."»

Bisogna rinunciare al senso comune per non convenire che gli ebrei ammisero da principio più dei. Più difficile è sapere che cosa intendessero con la parola Dio, Elôhîm. Qualche commentatore ha preteso che questa parola, che significa «uno di noi», alluda alla Trinità; ma nella Bibbia è certo che non si parla mai della Trinità. La Trinità non è un insieme di più dei, è lo stesso Dio triplice; e gli ebrei non intesero mai parlare di un Dio in tre persone. Con queste parole «simili a noi», è molto probabile che gli ebrei intendessero gli angeli, Elôhîm, e quindi che questo libro fu scritto quando essi adottarono la credenza di queste divinità inferiori.

«Il Signore lo mandò via dal giardino di voluttà perché coltivasse la terra.»

Ma il Signore lo aveva messo in quel giardino perché lo «coltivasse». Se Adamo da giardiniere diventò agricoltore, bisogna riconoscere che il suo stato non peggiorò molto: un buon agricoltore val bene un buon giardiniere.

Tutta questa storia in generale si riferisce all'idea che ebbero tutti gli uomini e che hanno ancora: che i primi tempi fossero migliori dei nuovi. Sempre ci siamo lamentati del presente e abbiamo rimpianto il passato. Gli uomini sovraccarichi di lavoro posero la felicità nell'ozio, senza pensare che la peggiore delle condizioni è quella di non aver niente da fare. E quando l'uomo si sentì infelice, si foggiò l'idea di un tempo in cui tutti erano stati felici. Su per giù è come se si dicesse: «Ci fu un tempo in cui nessun albero moriva, nessuna bestia era né malata né debole, né divorata da un'altra.» Di qui l'idea dell'età dell'oro, dell'uovo bucato da Arimane, del serpente che rubò all'asino la ricetta della vita felice e immortale, che l'uomo aveva messo sul suo basto; di qui il combattimento di Tifone contro Osiride, di Ofioneo contro gli dei, e quel famoso vaso di Pandora, e tutte quelle antiche favole delle quali qualcuna è divertente, ma nessuna è istruttiva.

«Ed egli mise nel giardino di voluttà un cherubino con una spada volteggiante e fiammeggiante per custodire l'accesso all'albero della vita.»

La parola Kerub significa «bue». Un bue armato di una spada fiammeggiante fa una curiosa figura davanti a una porta. Ma gli ebrei rappresentarono più tardi degli angeli in figura di buoi e di sparvieri, sebbene fosse loro proibito fare qualsiasi immagine. Sicuramente essi presero quei buoi e quegli sparvieri dagli egiziani, da cui imitarono tante cose. Gli egiziani venerarono dapprima il bue come simbolo dell'agricoltura, e lo sparviero come quello dei venti; ma non fecero mai di un bue un portinaio.

«E i figli di Elôhîm, vedendo che le figlie degli uomini erano belle, presero per mogli quelle che scelsero.»

Anche quest'immaginazione fu comune a tutti i popoli: non c'è paese, esclusa la Cina, in cui qualche dio non sia sceso a fare figli con qualche ragazza. Questi dei corporei discendevano spesso sulla terra per visitare i loro domini; vedevano le nostre ragazze e sceglievano le più belle; i figli nati dal connubio di questi dei con donne mortali dovevano essere superiori agli altri uomini; così il Genesi non manca di dire che questi dei che si unirono alle nostre ragazze misero al mondo dei giganti.

«E io farò scendere sulla terra le acque del diluvio.»

Osserverò soltanto che sant'Agostino, nel suo De civitate Dei, dice: «Maximum illud diluvium graeca nec latina novit historia»: né la storia greca, né quella latina conoscono questo grande diluvio. Infatti, in Grecia, si sapeva solo di quelli di Deucalione e di Ogige, considerati come universali nelle favole raccolte da Ovidio, ma del tutto ignorati nell'Asia orientale.

«Dio disse a Noè: "Io stringerò un patto di alleanza con te e con la tua progenie dopo di te e con tutti gli animali."»

Dio che si allea con le bestie? Bella unione!, dicono gli increduli. Ma se egli si allea con l'uomo, perché non con la bestia? Anch'essa è dotata di sentimento, e nel sentimento c'è qualcosa di altrettanto divino che nel pensiero più metafisico. D'altronde gli animali sentono molto più di quanto non pensi la maggior parte degli uomini. Molto probabilmente, proprio in virtù di quel patto, Francesco d'Assisi, fondatore dell'ordine serafico, diceva alle cicale e alle lepri: «Canta, sorella cicala; bruca, fratello leprotto.» Ma quali furono le condizioni del patto? Che tutti gli animali si sarebbero divorati l'un l'altro; che si sarebbero nutriti del nostro sangue, e noi del loro; che, oltre a mangiarli, li avremmo ferocemente sterminati; ci resta soltanto di mangiare i nostri simili scannati con le nostre mani. Se ci fosse stato un tale patto, sarebbe stato un patto col diavolo.

Probabilmente tutto questo passo non vuol dire altro che Dio è ugualmente padrone assoluto di tutto ciò che respira.

«E io metterò il mio arco nelle nubi e questo sarà un segno del mio patto...»

Notate che l'autore non dice: «Ho messo il mio arco nelle nubi», ma dice: «metterò»; il che evidentemente presuppone che era opinione comune che l'arcobaleno non fosse sempre esistito. È un fenomeno causato dalla pioggia; e qui lo si presenta come qualcosa di soprannaturale, per avvertire che la terra non sarà più inondata. È strano scegliere il segno della pioggia per rassicurare che non moriremo annegati. Ma si può anche rispondere che, nel pericolo dell'inondazione, si è rassicurati dall'arcobaleno.

«E, verso sera, i due angeli arrivarono a Sodoma...»

Tutta la storia dei due angeli che i sodomiti volevano violentare è forse la più straordinaria che l'antichità abbia inventato. Ma bisogna considerare che quasi tutta l'Asia credeva nei demoni, incubi e succubi; che per di più quei due angeli erano creature più perfette degli uomini, e dovevan essere più belli e suscitare, in un popolo corrotto, desideri più violenti che non gli uomini ordinari.

Quanto a Lot, che propone ai sodomiti le sue due figlie al posto dei due angeli, e alla moglie di Lot, mutata in una statua di sale, e a tutto il resto di questa storia, che si può dire? L'antica favola araba di Ciniro e Mirra ha qualche affinità con la storia dell'incesto di Lot con le sue figlie; e l'avventura di Filemone e Bauci non è priva di analogie con quella dei due angeli che apparvero a Lot e a sua moglie. Quanto alla statua di sale, non sappiamo a che somigli: forse alla storia di Orfeo e di Euridice?

Ci sono stati dei dotti che hanno preteso che si togliessero dai libri canonici tutte queste storie incredibili che scandalizzano i deboli di spirito, ma si è risposto che questi dotti erano cuori corrotti, persone da mandare al rogo; e che è impossibile essere un onest'uomo se non si crede che i sodomiti vollero violentare due angeli. È così che ragiona una genìa di mostri che vorrebbero dominare le menti.

Alcuni celebri Padri della Chiesa hanno avuto la prudenza d'interpretare tutte queste storie come allegorie, secondo l'esempio degli ebrei, e soprattutto di Filone. Alcuni papi, più prudenti ancora, vollero impedire che si traducessero in volgare questi libri, per timore che gli uomini fossero in grado di giudicare quel che si proponeva loro di adorare.

Dobbiamo concludere che coloro che intendono perfettamente questo libro devono essere tolleranti verso coloro che non lo intendono, infatti, se questi non ci capiscono niente, non è colpa loro; ma chi non ci capisce niente, deve a sua volta essere tollerante verso chi capisce tutto.



GIOBBE



Buongiorno, Giobbe, amico mio, tu sei uno dei più originali tra i personaggi antichi di cui i libri facciano menzione. Tu non eri ebreo: si sa che il libro che porta il tuo nome è più antico del Pentateuco. E se gli ebrei, che lo tradussero dall'arabo, si servirono della parola «Jehovah» per significare Dio, presero questa parola dai fenici e dagli egiziani, come i veri dotti non dubitano. La parola «Satana» non era ebraica, ma caldea: anche questo è abbastanza noto.

Tu abitavi ai confini della Caldea. Certi commentatori, degni della loro professione, pretendono che tu credessi nella resurrezione, perché, quand'eri sdraiato sul tuo letamaio, dicesti, nel tuo XIX capitolo, che un giorno o l'altro «te ne saresti risollevato». Un infermo che spera nella guarigione, non spera per questo nella resurrezione. Ma voglio parlarti d'altro. Confessa che eri un gran chiacchierone; ma i tuoi amici lo erano più di te. Si dice che tu possedessi settemila montoni, tremila cammelli, mille buoi e cinquecento asine. Vediamo di fare i conti.

Settemila montoni a tre lire e dieci soldi

l'uno, fanno ventiduemilacinquecento

lire tornesi, scrivo 22.500

Valuto i tremila cammelli a cinquanta

scudi l'uno 450.000

Mille buoi non possono essere stimati

in media meno di 80.000

E cinquecento asine, a venti franchi

l'una 10.000

---------

Il tutto ammonta a 562.500

senza contare i tuoi mobili, gli anelli e i gioielli.

Io sono stato molto più ricco di te; e quantunque abbia perduto gran parte dei miei beni, e sia malato come te, non ho mormorato contro Dio, come sembra che i tuoi amici t'abbiano rimproverato qualche volta.

Né mi convince molto quel Satana che, per indurti al peccato e farti dimenticare Dio, gli domanda il permesso di toglierti i tuoi averi e di affibbiarti la rogna. È proprio in una condizione simile che gli uomini ricorrono sempre alla Divinità: sono gli uomini felici che la dimenticano. Satana non conosceva abbastanza il mondo, s'è fatto furbo poi; e adesso, quando vuole impadronirsi di qualcuno, ne fa un appaltatore generale delle imposte o qualcosa di meglio, se possibile. È quello che il nostro amico Pope ci ha chiaramente dimostrato nella storia del cavaliere Balaam.

Tua moglie era un'impertinente; ma i tuoi pretesi amici, Elifaz, nativo di Teman in Arabia, Bildad di Suez, e Sofar di Naamat, erano molto più insopportabili di lei. T'esortavano alla pazienza in modo da spazientire il più mansueto degli uomini: ti facevano lunghe prediche, più noiose di quelle dello scaltro V... ad Amsterdam e del ... eccetera.

È vero che tu stesso non sai quel che dici quando esclami: «Oh, mio Dio, sono forse un mare o una balena per essere stato rinchiuso da te come in una prigione?» Ma i tuoi amici non ne sanno di più quando ti rispondono che «il giorno non può rinverdire senza umidità e l'erba dei prati non può crescere senz'acqua». Niente è meno consolante di quest'assioma.

Sofar di Naamat ti rimprovera d'essere un chiacchierone: ma nessuno di questi bravi amici ti presta uno scudo. Io non t'avrei trattato così. Niente di più comune della gente che dà consigli, e niente di più raro di quella che t'aiuta. Vale proprio la pena di avere tre amici per non riceverne nemmeno una goccia di brodo quando si è ammalati! M'immagino che quando Dio ti ebbe restituito le tue ricchezze e la tua salute, quegli eloquenti personaggi non abbiano osato presentarsi a te: non per niente «gli amici di Giobbe» sono passati in proverbio.

Dio fu assai malcontento di loro, e gli disse chiaro e tondo, nel capitolo XLII, che erano «noiosi e imprudenti», e li condannò a un'ammenda di sette tori e di sette arieti per aver detto delle sciocchezze. Io li avrei condannati per non aver aiutato il loro amico.

Ti prego di dirmi se è vero che sei vissuto centoquarant'anni dopo quell'avventura. Sono felice di vedere che le persone perbene vivono a lungo; bisogna proprio che gli uomini d'oggi siano dei gran birbanti, tanto è più breve la loro vita!

(Lettera di un malato alle acque di Aquisgrana)

Del resto, il libro di Giobbe è uno dei più preziosi di tutti l'antichità. È evidente che questo libro è di un arabo vissuto prima del tempo in cui collochiamo Mosè. Vi è detto che Elifaz, uno degli interlocutori, è di Teman, che è un'antica città dell'Arabia. Bildad era di Suez, altra città araba. Sofar era di Naamat, contrada ancor più orientale dell'Arabia.

Ma quel che è più importante e che dimostra che questa favola non può essere di un ebreo, è il fatto che vi si parla delle tre costellazioni che chiamiamo oggi l'Orsa, Orione e le Iadi. Gli ebrei non ebbero mai la minima cognizione dell'astronomia, non avevano nemmeno un termine per indicare questa scienza; e tutto quel che riguarda le arti della mente era loro sconosciuto, persino la parola «geometria».

Gli arabi, al contrario, abitando sotto le tende, ed essendo sempre in condizione di osservare gli astri, furono forse i primi che calcolarono gli anni investigando il cielo. Un'osservazione ancor più importante è che in questo libro si parla di un solo Dio. È un errore assurdo avere immaginato che gli ebrei fossero i soli a riconoscere un unico Dio: era la dottrina di quasi tutto l'Oriente, e gli ebrei non furono che dei plagiari, come lo furono in ogni altra cosa.

Nel capitolo XXXVIII, Dio parla lui stesso dal centro di un turbine: e questo fu più tardi imitato nel Genesi. Non si ripeterà mai abbastanza che i libri ebraici sono assai recenti. L'ignoranza e il fanatismo gridano che il Pentateuco è il più antico libro del mondo. È evidente che i libri di Sanchoniaton, quelli di Thoth, anteriori di ottocento anni a quelli di Sanchoniaton, quelli del primo Zoroastro, il Shasta, il Veidam degli indiani, che abbiamo ancora, i cinque King dei cinesi e infine il libro di Giobbe sono assai più antichi di qualunque libro giudaico. È dimostrato che quel piccolo popolo poté avere degli annali solo quando ebbe un governo stabile; che non ebbe questo governo che sotto i suoi re; che il suo gergo si formò col tempo, da un misto di fenicio e d'arabo. Ci sono prove incontestabili che i fenici coltivarono le lettere molto tempo prima degli ebrei. La professione di costoro fu il brigantaggio e la senseria; non furono scrittori se non per caso. Sono andati perduti i libri degli egiziani e dei fenici; ma i cinesi, i brahmani, i ghebri, gli ebrei hanno conservato i loro. Sono tutti monumenti singolari, ma sono solo monumenti dell'immaginazione umana, dai quali non si può imparare una sola verità, sia fisica che storica. Oggi qualsiasi libricino di fisica è più utile di tutti i libri dell'antichità.

Il buon Calmet o don Calmet (perché i benedettini vogliono che gli si dia del «don»), quell'ingenuo compilatore di tante fantasticherie e stupidaggini, quell'uomo la cui ingenuità ha procurato tanto spasso a chi vuol ridere delle corbellerie antiche, riporta fedelmente le opinioni di coloro che vollero indovinare la malattia da cui era stato colpito Giobbe, come se Giobbe fosse stato un personaggio reale. Egli non esita a dire che Giobbe aveva la sifilide e, come al solito, accumula citazioni su citazioni, per provare ciò che non è. Non aveva letto la storia della sifilide di Astruc: perché, non essendo Astruc né un Padre della Chiesa, né un dottore di Salamanca, ma un medico dottissimo, il bravo Calmet non sapeva nemmeno che fosse esistito. Questi monaci compilatori non sono che dei poveri diavoli.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 21:50
 
Quota

- G


GIUDEA



Non sono mai stato in Giudea, grazie a Dio, e non ci andrò mai. Ho parlato con gente d'ogni nazione, che tornava di laggiù; tutti m'han detto che la posizione di Gerusalemme è orribile, che il paese intorno è tutto sassoso; che le montagne sono brulle; che il famoso fiume Giordano non è più largo di quarantacinque piedi; che la sola regione buona di quel paese è Gerico; insomma, tutti ne parlano come ne parlava san Girolamo, che abitò così a lungo a Betlemme, e che dipinge quella contrada come il rifiuto della natura. Egli dice che in estate non c'è neppure acqua da bere. Questo paese, tuttavia, dové sembrare agli ebrei un luogo di delizie in confronto ai deserti di cui erano originari. Dei miserabili che avessero lasciato le Lande per abitare in qualche montagna del Lampourdan, vanterebbero la loro nuova sede; e se sperassero di poter penetrare nelle parti migliori della Linguadoca, la crederebbero la terra promessa.

Ecco esattamente la storia degli ebrei: Gerico e Gerusalemme sono Tolosa e Montpellier, e il deserto del Sinai è il paesaggio tra Bordeaux e Baiona.

Ma se il Dio che guidava gli ebrei voleva dar loro una buona terra, e se quegli sventurati avevano effettivamente dimorato in Egitto, perché non ve li lasciò? A tale domanda non si risponde che con disquisizioni teologiche.

La Giudea, si dice, era la terra promessa. Dio disse ad Abramo: «Io vi darò tutto quel paese, dal fiume d'Egitto sino all'Eufrate.»

Ahimè, amici miei, voi non avete mai avuto quelle fertili rive dell'Eufrate e del Nilo. Ci si è burlati di voi. I padroni del Nilo e dell'Eufrate furono volta per volta i vostri padroni. Voi siete stati quasi sempre schiavi. Promettere e mantenere sono due cose diverse, miei poveri ebrei. Voi avete un vecchio rabbino, il quale, leggendo le vostre sagge profezie, che vi annunciano una terra di miele e di latte, esclamò che vi fu promesso più burro che pane. Sapete che se il Gran Turco mi offrisse oggi la signoria di Gerusalemme, io non la vorrei?

Federico II, vedendo quel detestabile paese disse pubblicamente che Mosè era stato assai sconsiderato a condurvi la sua banda di lebbrosi. «Perché non andò a Napoli?» diceva Federico. Addio, miei cari ebrei, mi dispiace che terra promessa significhi terra perduta.

(Dal barone di Brukana)



GIULIANO IL FILOSOFO, IMPERATORE ROMANO



Talvolta si rende giustizia troppo tardi. Due o tre scrittori, o prezzolati o fanatici, parlano del barbaro ed effeminato Costantino come di un dio, e trattano da scellerato il giusto, il saggio, il grande Giuliano. Tutti gli altri, copiando i primi, ripetono l'adulazione e la calunnia. Esse diventano quasi un articolo di fede. Giunge finalmente il tempo della sana critica e, dopo quattordici secoli, alcuni uomini illuminati fanno la revisione di un processo giudicato dall'ignoranza. In Costantino si vede un ambizioso fortunato, che beffa Dio e gli uomini. Egli ha l'impudenza di fingere che Dio gli abbia inviato nell'aria un'insegna che gli assicura la vittoria. Si bagna nel sangue di tutti i suoi congiunti e s'addormenta nelle mollezze: ma era cristiano, fu canonizzato.

Giuliano è sobrio, casto, disinteressato, valoroso e clemente; ma non era cristiano, e fu considerato a lungo come un mostro.

Oggi, dopo aver paragonato i fatti, i monumenti, gli scritti di Giuliano e quelli dei suoi nemici, si è costretti a riconoscere che, se non amava il cristianesimo, fu scusabile nell'odiare una setta che si era macchiata del sangue di tutta la sua famiglia; e che, essendo stato perseguitato, imprigionato, esiliato, minacciato di morte dai galilei sotto il regno del barbaro Costanzo, non li perseguitò mai; che, al contrario perdonò a dieci soldati cristiani che avevano congiurato contro la sua vita. Si leggono le sue lettere, e lo si ammira:

«I galilei,» dice, «patirono sotto il mio predecessore l'esilio e la prigione; si massacrarono a vicenda coloro che si chiamavano a turno "eretici"; io li ho richiamati dall'esilio, li ho liberati dalle prigioni; ho restituito i beni ai proscritti, li ho costretti a vivere in pace. Ma tale è l'inquieto furore dei galilei, che si lamentano di non potersi più divorare fra di loro.» Che lettera! Che sentenza della filosofia contro il fanatismo persecutore!

Finalmente, esaminati i fatti, siamo stati obbligati a riconoscere che Giuliano aveva tutte le qualità di Traiano, tranne quei gusti così a lungo perdonati ai greci e ai romani; tutte le virtù di Catone, senza la sua rigidezza e la sua acredine; tutto quel che fu ammirato in Giulio Cesare, senza i suoi vizi; che aveva, inoltre, la continenza di Scipione. Insomma fu del tutto pari a Marco Aurelio, il primo degli uomini.

Nessuno osa più ripetere, oggi, sulla scorta del calunniatore Teodoreto, che egli immolò una donna nel tempio di Carre, per rendersi gli dei propizi. Nessuno ripete più che, morendo, gettò con la mano qualche goccia del suo sangue verso il cielo, dicendo a Gesù Cristo: «Hai vinto, Galileo!» come se avesse combattuto contro Gesù nel fare la guerra ai persi; come se questo filosofo, che morì con tanta rassegnazione, avesse riconosciuto Gesù; come se avesse creduto che Gesù fosse nell'aria e che questa fosse il cielo! Queste assurdità di coloro che vengon chiamati «Padri della Chiesa» oggi non si ripetono più.

Si tenta perfino di metterlo in ridicolo, come facevano i frivoli cittadini di Antiochia. Gli si rimprovera la barba mal pettinata e la maniera di camminare. Ma, signor abate de La Bletterie, voi non l'avete visto camminare, e avete invece letto le sue lettere e le sue leggi, monumento delle sue virtù. Che importa se aveva la barba sudicia e il passo precipitoso, se il suo cuore era magnanimo e ogni suo impulso tendeva alla virtù?

Resta un fatto importante da esaminare. Si rimprovera a Giuliano di aver voluto smentire la profezia di Gesù Cristo, ricostruendo il tempio di Gerusalemme. Si dice che uscissero di sotterra fuochi che impedirono l'opera. Si dice che questo è un miracolo, e che questo miracolo non convertì né Giuliano, né Alipio, sovrintendente di quell'impresa, né nessuno della sua corte. E su ciò l'abate de La Bletterie s'esprime così: «Egli e i filosofi della sua corte misero senza dubbio in opera ciò che sapevano di fisica per sottrarre a Dio un miracolo così spettacoloso. La natura fu sempre la risorsa degli increduli, ma serve la religione così a proposito, che essi dovrebbero perlomeno sospettarla di collusione.»

Anzitutto, non è vero che nel Vangelo sia detto che mai il tempio ebraico sarebbe stato ricostruito. Il Vangelo di Matteo, scritto sicuramente dopo la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, profetizza, è vero, che non sarebbe rimasta pietra su pietra di quel tempio dell'idumeo Erode: ma nessun evangelista dice che non sarebbe mai stato ricostruito.

In secondo luogo, che importa alla Divinità che ci sia un tempio ebraico o un magazzino, o una moschea nel luogo dove gli ebrei ammazzavano buoi e vacche?

In terzo luogo, non si sa se fu dalla cinta delle mura di Gerusalemme o dalla cinta del tempio che scaturirono quei pretesi fuochi che, secondo alcuni, bruciarono gli operai. Ma non si capisce perché Gesù avrebbe bruciato gli operai dell'imperatore Giuliano e non quelli del califfo Omar che, molto tempo dopo, costruì una moschea sulle rovine del tempio; o quelli del gran Saladino, che restaurò tale moschea. Gesù aveva tanta predilezione per le moschee dei musulmani?

In quarto luogo, Gesù, pur avendo predetto che non sarebbe rimasta pietra su pietra in Gerusalemme, non aveva impedito che venisse ricostruita.

In quinto luogo, Gesù predisse molte cose di cui Dio non permise l'adempimento. Predisse la fine del mondo e il suo avvento sulle nubi, con una gran potenza e una gran maestà, alla fine della generazione che viveva allora (Luca, XXI): eppure il mondo dura ancora, e durerà quasi certamente ancora abbastanza a lungo.

In sesto luogo, se Giuliano avesse scritto di questo miracolo, direi che fu ingannato con un ridicolo trucco: crederei che i cristiani suoi nemici ce l'abbiano messa tutta per opporsi alla sua impresa: che abbiano ucciso gli operai, e fatto credere ch'essi erano morti a causa di un miracolo. Ma Giuliano non ne fece parola. La guerra contro i persi lo teneva impegnato, allora; differì per il momento la ricostruzione del tempio e morì prima che i lavori cominciassero.

In settimo luogo, questo miracolo viene riferito da Ammiano Marcellino, che era pagano. Son quasi certo che si tratta di un'interpolazione cristiana: ne sono state rimproverate loro tante altre, scoperte più tardi!

Ma è anche verosimile che, in un'età in cui non si parlava che di prodigi e di stregonerie, Ammiano Marcellino abbia basato questa favola sulla fede di qualche spirito ingenuo. Da Tito Livio fino a De Thou incluso, tutte le storie sono infettate di prodigi.

In ottavo luogo, se Gesù faceva miracoli, li avrebbe fatti proprio per impedire che si ricostruisse un tempio dove lui stesso sacrificò e fu circonciso? Non avrebbe fatto piuttosto miracoli per rendere cristiani tanti popoli che si beffavano del cristianesimo, o piuttosto per rendere più umili e più umani i suoi cristiani, i quali, da Ario e Atanasio fino a Rolando e ai cavalieri delle Cévenne, versarono torrenti di sangue e si comportarono da cannibali?

Da ciò concludo che la «natura» non è «in collusione» col cristianesimo, come scrive La Bletterie, ma piuttosto che La Bletterie è in collusione con favole da vecchierelle, come dice Giuliano: «Quibus cum stolidis aniculis negotium erat».

La Bletterie, dopo aver reso giustizia ad alcune virtù di Giuliano, termina pertanto la storia di questo grand'uomo dicendo che la sua morte fu dovuta alla «vendetta divina». Se così fosse, tutti gli eroi morti giovani, da Alessandro a Gustavo Adolfo, sarebbero morti per punizione di Dio. Giuliano morì della più bella morte, inseguendo i suoi nemici dopo molte vittorie. Gioviano, che gli succedette, regnò molti anni meno di lui, e con vergogna. Io non ci vedo affatto la vendetta divina, e non vedo in La Bletterie che un declamatore in mala fede. Ma dove sono gli uomini che osano dire la verità? (voi: ma non ho intenzione di imitarvi).

Lo stoico Libanio fu uno di questi uomini rari: egli celebrò il valoroso e clemente Giuliano davanti a Teodosio, lo sterminatore dei Tessalonicesi; ma Le Beau e La Bletterie han paura di lodarlo davanti a coloro che bazzicano le sacrestie.

(Tratto dal signor Boulanger)



GIUSEPPE



La storia di Giuseppe, a considerarla solo come oggetto di curiosità e di letteratura, è uno dei più preziosi monumenti dell'antichità a noi pervenuto. Sembra essere il modello di tutti gli scrittori orientali; ed è più commovente dell'Odissea di Omero, perché un eroe che perdona è più commovente di un eroe che si vendica.

Noi consideriamo gli arabi come i primi autori di quelle ingegnose finzioni passate poi in tutte le lingue; ma non scorgo presso di loro nessuna avventura paragonabile a quella di Giuseppe. In essa quasi tutto è meraviglioso, e la fine può commuovere fino alle lacrime. Si tratta di un giovane sedicenne di cui i fratelli sono gelosi; egli viene venduto da loro ad una carovana di mercanti ismaeliti, condotto in Egitto e comperato da un eunuco del re. Questo eunuco aveva moglie, e ciò non deve sorprendere molto: il Kizlar-Aga, eunuco completo, cui tutto è stato tagliato, ha oggi un serraglio a Costantinopoli: gli han lasciato gli occhi e le mani, e la natura non ha perduto i suoi diritti nel suo cuore. Gli altri eunuchi a cui sono stati tagliati soltanto i due complementi dell'organo della generazione, spesso impiegano ancora quest'organo; e Putifar, a cui fu venduto Giuseppe, poteva benissimo far parte di questo genere di eunuchi.

La moglie di Putifar si innamora del giovane Giuseppe, il quale, fedele al suo padrone e benefattore, respinge le pressioni della donna. Questa, infuriata, accusa Giuseppe d'aver voluto sedurla. È la storia di Ippolito e di Fedra, di Bellerofonte e di Stenobea, di Ebro e di Damasippe, di Tanis e di Peribea, di Mirtilo e di Ippodamia, di Peleo e di Demenetta.

È difficile sapere, tra tutte queste storie, quale sia l'originaria, ma negli antichi autori arabi c'è un particolare, a proposito dell'avventura di Giuseppe e della moglie di Putifar, che è assai ingegnoso. L'autore suppone che Putifar, incerto fra sua moglie e Giuseppe, non considerò la tunica di Giuseppe, che la moglie aveva strappato, come una prova della colpa del giovane.

Nella camera della donna c'era un bambino in una culla; Giuseppe diceva che la donna gli aveva strappato e tolto la tunica alla presenza del bambino. Putifar consultò il piccolo, il cui ingegno era molto precoce, data l'età; il bambino disse a Putifar: «Guarda se la tunica è strappata davanti o dietro: se lo è davanti, è una prova che Giuseppe ha voluto prendere con la forza tua moglie, che si difendeva; se lo è dietro, è una prova che tua moglie lo inseguiva.» Putifar, grazie alla genialità di questo bambino, riconobbe l'innocenza del suo schiavo. Così è riferita la storia nel Corano, secondo l'antico scrittore arabo. Questi non si preoccupa di farci sapere a chi appartenesse il bambino che ragionò con tanta perspicacia: se era figlio della moglie di Putifar, allora Giuseppe non era il primo uomo che la donna aveva agguantato.

Comunque sia, Giuseppe, secondo il Genesi, viene messo in prigione, e qui si trova in compagnia del coppiere e del panettiere del re d'Egitto. Questi due prigionieri di Stato sognano, durante la notte, e Giuseppe spiega i loro sogni: predice che entro tre giorni il coppiere rientrerà in grazia del sovrano e il panettiere sarà impiccato. Il che non mancò di succedere.

Due anni dopo anche il re d'Egitto fa un sogno: il suo coppiere gli dice che c'è un giovane ebreo in prigione, che è il primo al mondo a interpretare i sogni: il re fa venire in sua presenza il giovane, che gli predice sette anni d'abbondanza e sette anni di carestia.

Interrompiamo per un poco il racconto, per notare quanto straordinariamente antica sia l'arte d'interpretare i sogni. Giacobbe aveva visto in sogno la scala misteriosa in cima alla quale stava Dio stesso. E imparò in sogno il metodo per moltiplicare le sue greggi: metodo che riuscì solo a lui. Lo stesso Giuseppe aveva saputo da un sogno che un giorno avrebbe dominato sui suoi fratelli. E, molto tempo prima, Abimelec: era stato avvertito in sogno che Sara era moglie di Abramo.

Ritorniamo a Giuseppe. Non appena ebbe spiegato il sogno al Faraone, divenne primo ministro. Dubitiamo che oggi si possa trovare un re, anche in Asia, che regali una tale carica per l'interpretazione di un sogno. Il Faraone fece sposare a Giuseppe una figlia di Putifar; si dice che questo Putifar fosse un gran sacerdote di Eliopolis: non era dunque l'eunuco, suo primo padrone; o, se era lui, aveva certamente anche un altro titolo oltre a quello di gran sacerdote, e sua moglie era stata madre più di una volta.

Frattanto, come Giuseppe aveva previsto, sopravvenne la carestia, e Giuseppe, per meritare le buone grazie del suo re, obbligò tutto il popolo a vendere le sue terre al Faraone. L'intera nazione si fece schiava per avere del grano: fu questa, a quanto pare, l'origine del potere dispotico. Bisogna ammettere che mai re fece migliore affare; ma anche il popolo non doveva certo benedire il primo ministro.

Infine, anche il padre e i fratelli di Giuseppe ebbero bisogno di grano, perché «la carestia desolava allora tutta la terra». Non vale la pena di raccontare qui come Giuseppe accolse i suoi fratelli, come li perdonò e li arricchì. Si trova in questa storia tutto ciò che costituisce un poema epico interessante: esposizione, nodo drammatico, riconoscimento, peripezia e meraviglioso. Nulla reca meglio il marchio del genio orientale.

Quel che rispose il buon Giacobbe, padre di Giuseppe, al Faraone, deve ben colpire coloro che sanno leggere: «Quanti anni hai?» gli chiese il re. «Centotrenta,» rispose il vecchio, «e in questo breve pellegrinaggio non ho mai avuto un giorno felice.»



GIUSTO (DEL) E DELL'INGIUSTO



Chi ci ha dato il sentimento del giusto e dell'ingiusto? Dio, che ci ha fornito di un cervello e di un cuore. Ma quand'è che la ragione ci illumina sul vizio e la virtù? Quando ci insegna che due più due fanno quattro. Non c'è conoscenza innata, per la stessa ragione per cui non c'è albero che sorga dalla terra già carico di foglie e di frutti. Niente è, come si dice, innato, ossia nato sviluppato; ma, ripetiamo ancora, Dio ci fa nascere con organi i quali, man mano che si sviluppano, ci fanno sentire tutto ciò che la nostra specie deve sentire per la conservazione di se stessa.

Come si produce questo mistero continuo? Ditemelo voi, gialli abitanti dell'isola della Sonda, neri africani, imberbi canadesi, e voi, Platone, Cicerone, Epitteto. Voi tutti sentite egualmente che è meglio dare ciò che avanza del vostro pane, del vostro riso, o della vostra manioca al povero che ve lo chiede umilmente, anziché ammazzarlo o cavargli gli occhi. È chiaro a tutti che un beneficio è più onesto di un oltraggio, che la mitezza è preferibile all'ira.

Si tratta dunque solo di servirci della nostra ragione per discernere le sfumature dell'onesto e del disonesto. Il bene e il male sono spesso vicini; le nostre passioni li confondono: chi ci illuminerà? Noi stessi, se siamo in tranquillità d'animo. Chiunque ha scritto sui nostri doveri, ha scritto bene in tutti i paesi del mondo, perché ha scritto ubbidendo alla sua ragione. Tutti hanno detto la stessa cosa: Socrate ed Epicuro, Confucio e Cicerone, Marco Antonio e Murad II ebbero la stessa morale.

Ripetiamolo ogni giorno a tutti gli uomini: «La morale è una: essa viene da Dio; i dogmi sono diversi: vengono da noi.»

Gesù non insegnò nessun dogma metafisico; non scrisse opuscoli teologici; non disse: «Io sono consustanziale, ho due volontà e due nature in una sola persona.» Egli lasciò ai cordiglieri e ai giacobini, che dovevano venire dodici secoli dopo di lui, il compito di argomentare per stabilire se sua madre fosse stata concepita o no nel peccato originale; non disse mai che il matrimonio è il segno visibile di una cosa invisibile; non disse una parola della grazia concomitante; non istituì né monaci né inquisitori; non prescrisse niente di quel che vediamo oggi.

Dio aveva dato la conoscenza del giusto e dell'ingiusto in tutti i tempi che precedettero il cristianesimo. Dio non è mutato e non può mutare; il fondo della nostra anima, i nostri principi di ragione e di morale saranno eternamente i medesimi. A che servono alla virtù le distinzioni teologiche, i dogmi fondati su queste distinzioni, le persecuzioni fondate su questi dogmi? La natura, sgomenta e fremente d'orrore contro tutte queste invenzioni barbare, grida a tutti gli uomini: «Siate giusti, e non dei sofisti persecutori!»

Leggete nel Sadder, che è il compendio delle leggi di Zoroastro, questa saggia massima: «Quando non è sicuro se un'azione che ti viene proposta sia giusta o ingiusta, astieniti.» Chi mai dette una regola più ammirevole? Quale legislatore si espresse meglio? Non è questo il sistema delle opinioni probabili, inventate da gente che si chiamava «la Società di Gesù».



GLORIA



Ben-al-Betif, quel degno capo dei dervisci, diceva loro un giorno: «Fratelli miei, sarà bene che vi serviate spesso di quella sacra formula del nostro Corano: "In nome di Dio molto misericordioso", perché Dio usa misericordia, e voi imparerete a usarla ripetendo spesso le parole che raccomandano una virtù senza la quale non resterebbero sulla terra che ben pochi uomini. Ma guardatevi bene, fratelli miei, d'imitare quei temerari che si vantano ogni momento di lavorare per la gloria di Dio. Se un giovane imbecille sostiene una tesi sulle categorie davanti a un ignorante in toga impellicciata, non manca di scrivere in grossi caratteri a capo della sua tesi: "Ek Allâh abron doxa: ad majorem Dei gloriam". Se un buon musulmano fa imbiancare il suo salotto, subito fa dipingere sull'uscio queste quattro parole; se un "saka" porta dell'acqua, lo fa per la maggior gloria di Dio. È un uso empio piamente praticato. Che direste di un umile servitore che, vuotando il vaso da notte del nostro sultano, esclamasse "Alla maggior gloria del nostro invincibile monarca"? Eppure, c'è ben maggior distanza dal sultano a Dio che dal sultano all'umile servitore.

«Che avete in comune, miserabili vermi della terra chiamati uomini, con la gloria dell'Essere infinito? Può egli amare la gloria? Può riceverne da voi? Può goderne? Fino a quando, animali bipedi e implumi, concepirete Dio a vostra immagine? E che! Perché voi siete vanitosi, perché amate la gloria, volete che anche Dio l'ami. Se esistessero molti dei, forse ognuno di loro vorrebbe ottenere i suffragi dei suoi simili. Questa sarebbe la gloria di un dio. Se si può paragonare la grandezza infinita con l'estrema piccolezza, questo Dio sarebbe come il re Alessandro, o Iskander, il quale voleva entrare in lizza solo contro dei re. Ma voi, poveri vermi, quale gloria potete procurare a Dio? Cessate di profanare il suo santo nome! Un imperatore, chiamato Ottaviano Augusto, proibì che lo si lodasse nelle scuole di Roma, per timore che il suo nome venisse avvilito. Ma voi non potete né avvilire l'Essere supremo né onorarlo. Annientatevi, adorate e tacete.»

Così parlava Ben-al-Betif; e i dervisci gridarono: «Gloria a Dio! Ben-al-Betif ha parlato da saggio!»



GRAZIA



Sacri consultori della Roma moderna, illustri e infallibili teologi, nessuno rispetta più di me le vostre divine decisioni; ma se Paolo Emilio, Scipione, Catone, Cicerone, Cesare, Tito, Traiano, Marco Aurelio tornassero in quella Roma cui un giorno dettero una certa fama, dovete riconoscere ch'essi sarebbero un po'stupiti delle vostre decisioni intorno alla grazia. Che direbbero se udissero parlare della grazia di salvezza secondo san Tommaso, e della grazia medicinale secondo il Caietano; della grazia esteriore e interiore, della gratuita, della santificante, dell'attuale, dell'abituale, della cooperante; dell'efficace, che qualche volta resta senza effetto; della sufficiente, che qualche volta non basta;della versatile e della congrua? In buona fede, essi ne capirebbero più di voi e di me?

Che bisogno avrebbe questa povera gente delle vostre sublimi istruzioni? Mi sembra di udirli dire:

Reverendi Padri, voi siete dei terribili geni; noi pensavamo stoltamente che l'Essere eterno non si conducesse mai secondo leggi particolari, come i vili umani, ma secondo le sue leggi generali, eterne come lui. Nessuno ha mai immaginato fra noi che Dio fosse simile a un padrone insensato, che dà un peculio a uno schiavo e rifiuta il nutrimento a un altro; che ordina a un monco d'impastare farina, a un muto di leggergli qualcosa, a un paralitico di fargli da corriere.

Tutto è grazia da parte di Dio: egli ha fatto al mondo che abitiamo la grazia di formarlo; agli alberi, la grazia di farli crescere; agli animali, quella di nutrirli. Ma si potrà dire che, se un lupo trova sulla sua strada un agnello per la sua cena, e un altro lupo muore di fame, Dio ha concesso al primo una grazia particolare? O che si è preso cura, con una grazia preveniente, di far crescere una quercia a preferenza di un'altra, cui manca la linfa? Se in tutta la natura tutti gli esseri sono soggetti alle leggi generali, perché mai una sola specie d'animali non dovrebbe esservi soggetta?

Perché il padrone assoluto di tutto dovrebbe prendersi cura di dirigere la vita intima di un solo uomo, più che di governare il resto dell'intera natura? Per quale bizzarria dovrebbe cambiare qualcosa nel cuore di un curlandese o di un biscaglino, mentre non cambia mai nulla alle leggi che ha imposto a tutti gli astri?

Che miseria supporre ch'egli faccia, disfi e rifaccia di continuo i nostri sentimenti! E che audacia crederci diversi da tutti gli esseri! Per di più, soltanto in coloro che vanno a confessarsi avverrebbero questi mutamenti. E così, un savoiardo, un bergamasco avrà il lunedì la grazia di far dire una messa per dodici soldi; il martedì, andrà all'osteria e la grazia lo pianterà in asso; il mercoledì avrà una grazia cooperante che lo spingerà a confessarsi, ma non avrà la grazia efficace della perfetta contrizione; il giovedì avrà invece una grazia sufficiente, che però, come si è detto, non lo assisterà sufficientemente. Dio lavorerà di continuo nella testa di quel bergamasco, ora con forza, ora debolmente, mandando al diavolo il resto della terra. Non si degnerà di occuparsi dell'intimo degli indiani e dei cinesi! Reverendi Padri, se vi resta un granello di ragione, non trovate questo sistema enormemente ridicolo?

Sciagurati, guardate quella quercia la cui cima si tende verso le nuvole, e quella canna che striscia ai suoi piedi: voi non dite che la grazia efficace è stata concessa alla quercia e negata alla canna. Alzate gli occhi al cielo, guardate l'eterno Demiurgo che crea milioni di mondi che gravitano tutti gli uni verso gli altri in virtù di leggi universali ed eterne. Vedete la stessa luce riflettersi dal sole a Saturno, e da Saturno a noi; e in questo accordo di tanti astri trascinati in rapido moto, in questa generale obbedienza di tutta la natura, osate credere, se potete, che Dio si preoccupi di dare una grazia versatile a suor Teresa e una concomitante a suor Agnese!

Atomo, al quale uno stupido atomo ha detto che l'Eterno ha leggi particolari per alcuni atomi del tuo vicinato, che concede la sua grazia a questo e la rifiuta a quello, che un tale, che non aveva la grazia ieri, l'avrà domani: non ripetere questa sciocchezza. Dio ha fatto l'universo, e non creerà certo nuovi venti per smuovere qualche fuscello di paglia in un angolino dell'universo. I teologi sono come i guerrieri di Omero, i quali credevano che gli dei si armassero ora contro di loro, ora in loro favore. Se Omero non fosse considerato un poeta, sarebbe certo considerato un bestemmiatore.

È Marco Aurelio che parla così, non io. Perché Dio, che vi ispira, mi fa la grazia di credere a tutto quello che voi dite, a tutto quello che avete detto e a tutto quello che direte.



GUERRA



La carestia, la peste e la guerra sono i tre più famosi ingredienti di questo basso mondo. Si possono collocare nella classe della carestia tutti i cattivi nutrimenti cui la penuria ci costringe a ricorrere per abbreviare la nostra vita nella speranza di sostentarla.

Nella peste si comprendono tutte le malattie contagiose, che sono in numero di due o tremila. Questi due presenti ci vengono dalla provvidenza. Ma la guerra, che riunisce tutti questi doni, ci viene dall'inventiva di tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi o di governanti; è forse per questo motivo che costoro, in molte dediche, vengono chiamati «immagini viventi della divinità».

L'ottimista più risoluto ammetterà senza fatica che la guerra trascina sempre con sé la peste e la fame, per poco che abbia visto gli ospedali degli eserciti in Germania, o che sia passato in qualche villaggio dove è stata compiuta qualche impresa bellica.

Non c'è dubbio che non sia una bellissima arte, quella che devasta le campagne, distrugge le abitazioni e fa crepare, normalmente, in un anno, quarantamila uomini su centomila. Quest'invenzione fu dapprima coltivata da nazioni che s'erano riunite per il bene comune; per esempio la dieta dei greci dichiarò alla dieta della Frigia e dei popoli vicini che sarebbe partita su un migliaio di barche da pesca per andare a sterminarli, se poteva.

Il popolo romano adunato in assemblea giudicava che era suo interesse andare a battersi prima della mietitura contro il popolo di Veio, o contro i volsci. E qualche anno dopo tutti i romani, avendocela a morte contro tutti i cartaginesi, combatterono a lungo per mare e per terra. Oggi le cose vanno altrimenti.

Un genealogista prova a un principe che egli discende in linea diretta da un conte i cui parenti, tre o quattrocent'anni prima, avevano fatto un patto di famiglia con un casato di cui non rimane nemmeno la memoria. Quel casato aveva lontane pretese su una provincia il cui ultimo possessore è morto di apoplessia: il principe e il suo consiglio concludono senza difficoltà che quella provincia gli appartiene per diritto divino. La provincia in questione, che si trova a qualche centinaio di leghe di distanza, ha un bel protestare che non lo conosce, che non ha nessuna voglia di essere governata da lui; che, per dar leggi alla gente, bisogna almeno avere il loro consenso: questi discorsi non arrivano nemmeno agli orecchi del principe, il cui diritto è incontestabile. Egli trova di botto una quantità di uomini che non hanno niente da fare e niente da perdere; li veste d'un grosso panno turchino a cento soldi il braccio, orla il loro cappello d'un cordoncino bianco, li fa girare a destra e a sinistra e marcia verso la gloria.

Gli altri principi, che sentono parlare di questa spedizione, vi prendono parte, ciascuno secondo il suo potere, e coprono pochi palmi di terra di più mercenari omicidi di quanti ne trascinassero al loro seguito Gengis-Khân, Tamerlano, o Bâyazîd.

Popoli lontani sentono dire che qualcuno sta per battersi, e che ci sono cinque o sei soldi al giorno da guadagnare se vogliono essere della partita: subito si dividono in due schiere come i mietitori, e vanno a vendere i loro servizi a chiunque voglia assoldarli.

Queste moltitudini si accaniscono le une contro le altre non soltanto senza avere alcun interesse nella faccenda, ma senza neppure sapere di che si tratti.

E così si trovano contemporaneamente cinque o sei potenze belligeranti, ora tre contro tre, ora due contro quattro, ora una contro cinque; e tutte si detestano allo stesso modo, e di volta in volta si alleano e s'attaccano; tutte d'accordo su un punto solo, fare il maggior male possibile.

La cosa più strabiliante di questa impresa infernale è che ogni capo assassino fa benedire le sue bandiere e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il prossimo. Se un capo ha avuto la fortuna di far sgozzare solo due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma quando ce ne sono almeno diecimila sterminati dal ferro e dal fuoco e, per colmo di grazia, è stata distrutta fino all'ultima pietra qualche città, allora si canta a quattro voci una canzone abbastanza lunga, composta in una lingua ignota a tutti coloro che hanno combattuto, e per di più infarcita di barbarismi. La medesima canzone serve per i matrimoni e per le nascite, e al tempo stesso per la strage: questo è imperdonabile, soprattutto nel paese più famoso per le canzoni nuove che inventa a getto continuo.

La religione naturale ha innumerevoli volte impedito ai cittadini di commettere crimini. Un'anima bennata non ne ha la volontà; un'anima tenera ne ha orrore; essa si figura un dio giusto e vendicativo. Invece la religione artificiale incoraggia tutte le crudeltà che si commettono in gruppo: congiure, rivolte, rapine, imboscate, assalti alle città, saccheggi, stragi. Ognuno allegramente va incontro al delitto sotto la bandiera del proprio santo.

Ovunque viene pagato un certo numero d'oratori per celebrare quelle giornate di sangue; gli uni sono vestiti di un lungo giustacuore nero e di mantelluccio; gli altri indossano una camicia sopra una veste; alcuni portano sopra la camicia due strisce penzolanti di stoffa screziata. Tutti parlano a non finire: citano quel che si è fatto un giorno in Palestina a proposito di un combattimento in Veteravia.

Il resto dell'anno, questi tali declamano contro i vizi. Provano in tre punti e per antitesi che le dame che stendono un lieve strato di carminio sulle loro guance fresche saranno oggetto eterno delle eterne vendette dell'Eterno; che Polyeucte e Athalie sono opere del demonio; che un uomo che si fa servire in tavola duecento scudi di merluzzo in un giorno di quaresima ottiene immancabilmente il premio del paradiso, e che un pover'uomo che mangia due soldi e mezzo di montone è dannato per sempre all'inferno.

Su cinque o seimila declamazioni di questa specie, ce ne sono al massimo tre o quattro, composte da un gallo di nome Massillon, che un uomo retto può leggere senza disgusto; ma in tutti quei discorsi, non ce n'è uno in cui l'oratore osi ergersi contro quel flagello e quel crimine che è la guerra, la quale comprende in sé tutti i flagelli e tutti i crimini. Quegli sciagurati oratori parlano continuamente contro l'amore, che è la sola consolazione del genere umano e il solo modo di ridargli vita; non dicono niente degli sforzi esecrandi che facciamo per distruggerlo.

Hai fatto un gran brutto sermone sull'impurità, o Bourdaloue! ma non hai fiatato contro quegli omicidi compiuti in mille modi diversi, quelle rapine, quei brigantaggi, quella rabbia universale che devasta il mondo. Tutti i vizi riuniti di tutte le età e di tutti i luoghi non eguaglieranno mai i mali che produce una sola campagna di guerra.

Miserabili medici delle anime, state a gridare per cinque quarti d'ora su qualche puntura di spillo, e non dite niente sulla malattia che ci lacera in mille pezzi! Filosofi moralisti, bruciate tutti i vostri libri! Finché il capriccio di pochi uomini farà legalmente sgozzare migliaia di nostri fratelli, la parte del genere umano che si consacra all'eroismo sarà quanto c'è di più infame nell'intera natura.

Che diventano e che m'importano l'umanità, la beneficenza, la modestia, la temperanza, la dolcezza, la saggezza, la pietà, mentre mezza libbra di piombo sparata da seicento passi mi dilania il corpo, e muoio a vent'anni tra tormenti indicibili, in mezzo a cinque o seimila moribondi, mentre i miei occhi, che s'aprono per l'ultima volta, vedono la città dove sono nato distrutta dal ferro e dalle fiamme, e gli ultimi suoni che odono le mie orecchie sono le grida delle donne e dei bambini agonizzanti sotto le rovine, il tutto per i pretesi interessi di un uomo che non conosciamo?

E il peggio è che la guerra è un flagello inevitabile. A guardar bene, tutti gli uomini hanno adorato il dio Marte: Sabaoth, per gli ebrei, significa il dio degli eserciti; ma Minerva, in Omero, chiama Marte un dio furioso, insensato, infernale.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 21:59
 
Quota

I -






IDEA



Che cos'è un'idea?

È un'immagine che si dipinge nel mio cervello.

Tutti nostri pensieri sono dunque immagini?

Certamente, perché le idee più astratte nascono dalla mia percezione degli oggetti. Io pronuncio la parola «essere» in generale, solo perché ho conosciuto esseri particolari. Pronuncio la parola «infinito» solo perché, avendo visto dei limiti, allontano nel mio intelletto questi limiti quanto più posso. Io ho idee solo perché ho immagini in testa.

E qual è il pittore che fa questo quadro?

Non sono io, non sono un disegnatore tanto bravo: colui che mi ha fatto, fa le mie idee.

Sareste dunque del parere di Malebranche, il quale diceva che noi vediamo tutto in Dio?

Per lo meno sono ben sicuro che, se non vediamo le cose in Dio, le vediamo grazie alla sua azione onnipotente.

E come si effettua questa azione?

V'ho detto cento volte, nelle nostre conversazioni, che non ne sapevo nulla, e che Dio non ha rivelato il suo segreto a nessuno. Io ignoro cos'è che fa battere il mio cuore, correre il mio sangue nelle vene; ignoro il principio di tutti i miei movimenti; e voi vorreste che vi dicessi in quale modo sento o penso? Non è giusto.

Ma sapete almeno se la vostra facoltà d'avere idee è congiunta all'estensione?

Non ne so nulla. È ben vero che Taziano, nel suo discorso ai greci, dice che l'anima è manifestamente composta di un corpo. Ireneo, nel capitolo LXII del secondo libro, dice che il Signore ha insegnato che le nostre anime conservano l'aspetto del nostro corpo per conservarne la memoria. Tertulliano assicura, nel secondo libro del suo De anima, ch'essa è un corpo. Arnobio, Lattanzio, Ilario, Gregorio di Nissa, Ambrogio non sono di parere diverso. Si vuole che altri Padri della Chiesa abbiano asserito che l'anima è del tutto priva d'estensione, e in ciò la pensassero come Platone; ma questo è assai dubbio. Quanto a me, non oso avere alcun parere; io non vedo che cose incomprensibili nell'uno e nell'altro sistema; e dopo essermi dedicato tutta la vita, sono rimasto al punto di prima.

Non valeva dunque la pena di pensarci.

È vero: chi gode ne sa più di chi riflette, o almeno sa meglio, è più felice. Ma che volete? Non è dipeso da me né di ricevere né di respingere tutte le idee che son piombate nel mio cervello per combattersi a vicenda, prendendo le mie cellule midollari come campo di battaglia. E dopo che si sono ben combattute, non ho raccolto dalle loro spoglie altro che l'incertezza.

È triste avere tante idee, e non conoscere con precisione la loro natura.

Lo ammetto: ma è assai più triste e stupido credere di sapere quello che non si sa.



IDOLO, IDOLATRA, IDOLATRIA



Idolo viene dal greco $åqäïò$, figura; $ånäùëïí$, rappresentazione di una figura; $ëáôñåýåéí$, servire, riverire, adorare. La parola «adorare» è latina e ha molti significati diversi: significa portare la mano alla bocca parlando con rispetto, inchinarsi, mettersi in ginocchio, salutare e, infine, nel senso più comune, rendere un culto supremo.

È utile rilevare a questo punto che le Mémoires de Trévoux cominciano questa voce col dire che tutti i pagani erano idolatri, e che gli indiani sono tuttora tali. Per prima cosa, nessuno fu mai chiamato «pagano» prima del tempo di Teodosio il Giovane; questo nome fu dato allora agli abitanti dei borghi d'Italia - pagorum incolae, pagani - i quali conservarono la loro antica religione. In secondo luogo, l'Indostan è maomettano, e i maomettani sono implacabili nemici delle immagini e dell'idolatria. In terzo luogo, non bisogna affatto chiamare «idolatri» molti popoli dell'India, che osservano l'antica religione dei parsi, né certe caste che non hanno idoli.



Se sia mai esistito uno stato idolatra

Sembra che non sia mai esistito nessun popolo della terra che si sia autodefinito idolatra. Questa parola è un'ingiuria, un termine oltraggioso, come quello di gavaches che gli spagnoli davano un tempo ai francesi, o quello di marrani che i francesi davano agli spagnoli. Se si fosse chiesto al senato di Roma, all'areopago di Atene, alla corte di Persia: «Siete idolatri?» difficilmente avrebbero inteso questa domanda. Nessuno avrebbe risposto: «Sì, noi adoriamo delle immagini, degli idoli.» La parola «idolatra, idolatria» non si trova né in Omero né in Esiodo, né in Erodoto, né in nessun altro autore della religione dei gentili. Non ci fu mai alcun editto, alcuna legge che ordinasse di adorare degli idoli, di servirli e considerarli come dei.

Quando i condottieri romani e cartaginesi stipulavano un trattato, chiamavano a testimoni tutti i loro dei. «Davanti a loro,» dicevano, «noi giuriamo la pace.» Ora le statue di tutti questi dei, il cui elenco era lunghissimo, non stavano certo nella tenda dei generali. Essi consideravano gli dei come presenti alle azioni degli uomini, come testimoni, come giudici. E certamente la divinità non si riduceva al suo simulacro.

Con che occhio vedevano dunque le statue delle loro false divinità nei templi? Con lo stesso occhio, se è permesso esprimersi così, col quale noi vediamo le immagini degli oggetti della nostra venerazione. L'errore non era quello d'adorare un pezzo di legno o di marmo, ma di adorare una falsa divinità rappresentata da quel legno e quel marmo. La differenza fra loro e noi non consiste nel fatto che essi avessero immagini, mentre noi non ne abbiamo; ma che le loro immagini raffiguravano esseri fantastici in una religione falsa, mentre le nostre raffiguravano esseri reali in una religione vera. I greci avevano la statua di Ercole, e noi quella di san Cristoforo; essi avevano Esculapio e la sua capra, e noi san Rocco e il suo cane; avevano Giove armato del tuono, e noi sant'Antonio da Padova e san Giacomo di Compostella.

Quando il console Plinio, nell'esordio del suo Panegirico a Traiano, rivolge le sue preghiere «agli dei immortali», non è a delle immagini ch'egli si rivolge. Quelle immagini non erano certo immortali.

Né gli ultimi tempi del paganesimo né quelli più remoti offrono un solo esempio che possa far concludere che si adorassero idoli. Omero parla solo degli dei che abitano l'alto Olimpo. Il palladium, benché caduto dal cielo, non era che un sacro pegno della protezione di Pallade: in esso si venerava la dea.

Ma i romani e i greci s'inginocchiavano davanti alle statue degli dei, offrivano loro corone, incenso, fiori, e le portavano in trionfo nelle pubbliche piazze. Noi abbiamo santificato queste usanze, senza per questo essere idolatri.

Le donne, in tempo di siccità, portavano in giro le statue degli dei dopo aver digiunato. Camminavano a piedi nudi, i capelli sciolti, e presto si metteva a piovere a secchi, come dice Petronio: «et statim urceatim pluebat». Non abbiamo forse consacrato quest'uso, illegittimo presso i gentili, e indubbiamente legittimo fra noi? In quante città non si portano in giro, camminando a piedi nudi, le reliquie dei santi per ottenere con la loro intercessione le benedizioni del cielo? Se un turco o un letterato cinese fosse testimone di queste cerimonie, potrebbe sulle prime per ignoranza accusarci di riporre la nostra fiducia nei simulacri che portiamo in processione: ma basterebbe una parola per disingannarlo.

Si resta stupiti del numero straordinario di declamazioni rivolte in tutti i tempi conto l'idolatria dei romani e dei greci; e poi si resta ancora più stupiti quando si vede che essi non erano affatto idolatri.

Ci sono sempre stati templi più privilegiati degli altri. La grande Diana di Efeso godeva di una maggior reputazione di una Diana da villaggio. Avvenivano più miracoli nel tempio di Esculapio a Epidauro che in altri suoi templi. La statua di Giove Olimpio attirava più offerte di quella di Giove Paflagone. Ma, poiché bisogna sempre opporre le usanze di una religione vera a quelle di una religione falsa, non sentiamo anche noi da tanti secoli più devozione per certi altari che per altri? Non portiamo forse più offerte alla Madonna di Loreto che non alla Madonna delle Nevi? Sta a noi vedere se si deve prendere questo pretesto per accusarci d'idolatria.

Si era immaginata una sola Diana, un solo Apollo, un solo Esculapio e non tanti Apolli, tante Diane e tanti Esculapi quante erano le loro statue o i loro templi. È dunque provato, quanto può esserlo un fatto storico, che gli antichi non credevano che una statua fosse una divinità, che il culto non poteva essere riferito a quella statua, a quell'idolo, e che, di conseguenza, gli antichi non erano idolatri.

Un volgo rozzo e superstizioso che non ragionava, che non sapeva né dubitare, né negare, né credere, che accorreva ai templi per ozio, e perché in essi i poveri sono eguali ai ricchi, che portava la sua offerta per abitudine, che parlava continuamente di miracoli senza averne esaminato nessuno, e che non era molto superiore alle vittime che recava; questo volgo, dico, poteva certo, alla vista della grande Diana e di Giove tonante essere colpito da religioso orrore, e adorare, senza saperlo, la statua stessa. È quello che è accaduto e accade talvolta nei nostri templi, con i nostri rozzi contadini; eppure non si è mancato di insegnar loro che devono chiedere la loro intercessione ai Beati, agli immortali accolti in cielo, non a figure di legno o di pietra, e che devono adorare soltanto Dio.

I greci e i romani aumentarono il numero dei loro dei mediante le apoteosi. I greci divinizzavano i conquistatori, come Bacco, Ercole, Perseo. Roma innalzò altari ai suoi imperatori. Le nostre apoteosi sono di genere diverso: noi abbiamo santi in luogo dei loro semidei, dei loro dei secondari; ma non guardiamo né al rango né alle conquiste. Abbiamo dedicato templi a uomini semplicemente virtuosi, i quali sarebbero per la maggior parte ignorati sulla terra, se non fossero stati posti in cielo. Le apoteosi degli antichi venivan fatte per adulazione; le nostre, per rispetto alle virtù. Ma quelle prime apoteosi sono un'altra prova convincente che i greci e i romani non erano propriamente idolatri. È chiaro che non attribuivano maggior virtù divina alle statue di Augusto e di Claudio che ai medaglioni con la loro immagine.

Cicerone, nelle sue opere filosofiche, non lascia nemmeno sospettare che si potesse ingannare nei riguardi delle statue degli dei e confonderle con gli dei stessi. I suoi interlocutori lanciano fulmini contro la religione ufficiale; ma nessuno di loro si sogna di accusare i romani di scambiare dei pezzi di marmo o di bronzo per delle divinità. Lucrezio, pur così severo contro i superstiziosi, non rimprovera questa sciocchezza a nessuno. Dunque, ancora una volta, questa opinione non esisteva, non se ne aveva nessuna idea: non c'erano idolatri.

Orazio fa parlare una statua di Priapo, e le fa dire: «Io una volta ero un tronco di fico; un falegname, non sapendo se fare di me un dio o un sedile, decise infine di farmi dio» ecc. Che dobbiamo concludere da questa storiella faceta? Priapo era una di quelle divinità inferiori, di cui era permesso ridere; e questa stessa storiella è la prova più certa che la figura di Priapo, che veniva posta nei frutteti per spaventare gli uccelli, non era molto riverita.

Dacier, abbandonandosi al suo spirito di commentatore, non ha mancato d'osservare che Baruch aveva predetto questo fatto, dicendo, «Essi non saranno altro che quello che vorranno gli artefici»; ma poteva anche osservare che si può dire lo stesso di tutte le statue.

Si può trarre, da un blocco di marmo, tanto una conca che una statua di Alessandro o di Giove, o di qualcuno ancor più rispettabile. La materia di cui erano fatti i cherubini del Santo dei Santi avrebbe potuto servire ugualmente alle funzioni più vili. Un trono, un altare sono forse meno riveriti perché l'artefice avrebbe potuto farne invece una tavola da cucina?

Dacier, anziché concludere che i romani adoravano la statua di Priapo, e che Baruch l'aveva predetto, avrebbe dovuto dunque concludere che i romani ne ridevano. Consultate tutti gli autori che parlano delle statue dei loro dei, non ne troverete nessuno che parli d'idolatria: dicono esattamente il contrario.

Leggete in Marziale:

Qui finxit sacros auro vel marmore vultus,

Non facit ille deos...

In Ovidio:

Colitur pro Jove forma Jovis.

In Stazio:

Nulla autem effigies, nulli commissa metallo

Forma Dei; mentes habitare ac pectora gaudet.

In Lucano:

Estne Dei sedes, nisi terra et pontus et aer?

Si farebbe un volume di tutti i passi che asseriscono che quelle immagini non erano altro che immagini.

Soltanto nel caso di statue che pronunciavano oracoli, si è potuto pensare che esse avessero in sé qualcosa di divino. Ma certo l'opinione predominante era che gli dei avessero scelto certi altari, certi simulacri per risiedervi ogni tanto, darvi udienza agli uomini e rispondere loro. In Omero e nei cori delle tragedie greche si trovano preghiere dedicate solo ad Apollo, il quale dà i suoi responsi sulle montagne, nel tal tempio, nella tal città: in tutta l'antichità non c'è la minima traccia d'una preghiera rivolta a una statua.

Coloro che praticavano la magia, che la credevano una scienza, o fingevano di crederlo, pretendevano di possedere il segreto di far scendere gli dei nelle statue: non gli dei maggiori, ma quelli secondari, i geni. Era quel che Mercurio Trismegisto chiamava «fare dei» e che sant'Agostino confutava nella sua Città di Dio. Ma ciò stesso mostra con evidenza che i simulacri non avevano in sé niente di divino, poiché bisognava che un mago li animasse. E mi sembra che succedesse di rado che un mago fosse tanto abile da animare una statua e farla parlare. In due parole, le immagini degli dei non erano dei. Giove, e non la sua immagine, lanciava il fulmine; e non era la statua di Nettuno ad agitare i mari né quella di Apollo a diffondere la luce. I greci e i romani erano gentili, politeisti, ma non erano idolatri.



Se i persiani, i sabei, gli egizi, i tartari, i turchi siano stati idolatri e quanto antica sia l'origine dei simulacri chiamati idoli. Storia del loro culto

È un grande errore chiamare «idolatri» i popoli che adorarono il sole e le stelle. Queste nazioni non ebbero per molto tempo né simulacri né templi. Se si ingannarono fu nel rendere agli astri il culto dovuto al creatore di questi. Per di più, il dogma di Zoroastro, o Zardust, raccolto nel Sadder, indica un Essere supremo, vendicatore e remuneratore: e questo è ben lontano dall'idolatria. Il governo della Cina non ebbe mai nessun idolo; conservò sempre il semplice culto del signore del cielo, King-tien. Gengis-Khân, fra i tartari, non era idolatra e non adorava nessun simulacro. I musulmani, di cui sono piene la Grecia, l'Asia Minore, la Siria, la Palestina, l'India e l'Africa, chiamano i cristiani «idolatri», «giaurri», perché credono che i cristiani osservino il culto delle immagini. Fecero a pezzi molte statue che trovarono a Costantinopoli, in Santa Sofia, nella chiesa dei Santi Apostoli e in altre che convertirono in moschee. L'apparenza li ingannò, come sempre inganna gli uomini, e fece loro credere che dei templi dedicati a santi che un giorno erano stati uomini, e le immagini di quei santi riverite in ginocchio, e i miracoli compiuti in quei templi fossero prove inconfutabili della più completa idolatria. Ma non è affatto così. In effetti i cristiani non adorano che un solo Dio e nei beati onorano soltanto la virtù stessa di Dio, che agisce nei suoi santi. Gli iconoclasti e i protestanti lanciarono la stessa accusa d'idolatria alla Chiesa, e si dette loro la stessa risposta.

Dato che gli uomini hanno avuto molto raramente idee precise, e ancor meno le hanno espresse con parole precise e non equivoche, noi chiamammo «idolatri» i gentili, e soprattutto i politeisti. Sono stati scritti volumi immensi e avanzate varie opinioni sull'origine di questo culto reso a Dio e a parecchi dei sotto figure sensibili: questa gran massa di libri e tante opinioni non provano che l'ignoranza.

Non si sa chi inventò gli abiti e le calzature, e vorremmo sapere chi fu il primo a inventare gli idoli? Che importanza ha quel passo di Sanchoniaton, che viveva prima della guerra di Troia? Che ci insegna quando dice che il caos, lo spirito, ovvero «il soffio», amando i suoi principi, ne trasse il limo, rese l'aria luminosa; e che il vento Colp e sua moglie Bau generarono Eon, che Eon generò a sua volta Genos; che Cronos, loro discendente, aveva due occhi dietro e due davanti, che divenne dio e che donò l'Egitto a suo figlio Thoth? Ecco uno dei più rispettabili monumenti dell'antichità.

Orfeo, anteriore a Sanchoniaton, non ci dirà molto di più con la sua Teogonia, conservataci da Damascio. Egli rappresenta il principio del mondo sotto la figura di un dragone con due teste: una di toro, l'altra di leone, un viso in mezzo, che chiama «volto-dio»; e, sulle spalle, ali dorate.

Ma da queste idee bizzarre potrete trarre due grandi verità: la prima, che le immagini sensibili e i geroglifici appartengono alla più remota antichità; la seconda, che tutti gli antichi filosofi riconobbero un primo principio.

Quanto al politeismo, il buon senso vi dirà che, da quando ci furono uomini, ossia animali deboli, capaci di ragione e di follia, soggetti a tutti gli accidenti, alla malattia e alla morte, questi uomini avvertirono la loro debolezza e il loro stato di dipendenza: riconobbero facilmente che esiste qualcosa di più potente di loro; sentirono una forza nella terra che fornisce loro gli alimenti, una nell'aria che spesso li distrugge, una nel fuoco che consuma e nell'acqua che sommerge. Che di più naturale, per uomini ignoranti, dell'immaginare esseri che presiedevano a tali elementi? del riverire la forza invisibile che faceva risplendere ai nostri occhi il sole e le stelle? E, appena ci si volle fare un'idea di quelle potenze superiori all'uomo, che di più naturale del figurarsele in maniera sensibile? Era forse possibile pensare altrimenti? La religione ebraica, che precedette la nostra e che fu data da Dio stesso, era tutta piena di quelle immagini sotto le quali viene rappresentato Dio. Egli si degna di parlare in un roveto il linguaggio umano; appare su una montagna; gli spiriti celesti che invia si presentano tutti sotto forma umana; infine, il santuario è affollato di cherubini, che hanno corpi d'uomini e ali e teste d'animali. Fu questo che dette origine all'errore di Plutarco, di Tacito, d'Appiano e di tanti altri, che rimproverarono agli ebrei di adorare una testa di somaro. Dio, nonostante il suo divieto di dipingere o scolpire qualsiasi immagine, si degnò dunque di conformarsi ai sensi per mezzo di immagini.

Isaia, nel capitolo VI, vede il Signore seduto su un trono, e il lembo della sua veste che riempie il tempio. Il Signore stende la mano e tocca la bocca di Geremia, nel capitolo I del libro di questo profeta. Ezechiele, nel capitolo III, vede un trono di zaffiro e Dio gli appare come un uomo seduto su quel trono. Queste immagini non alterano affatto la purezza della religione ebraica, che non fece mai uso di quadri, di statue, di idoli, per rappresentare Dio agli occhi del popolo.

I letterati cinesi, i parsi, gli antichi egiziani non ebbero idoli; ma ben presto Iside e Osiride furono raffigurati; ben presto Bel, a Babilonia, fu un gran colosso e, nella penisola indiana, Brâhmâ fu un mostro bizzarro. I greci, più degli altri, moltiplicarono i nomi degli dei, le statue e i templi, ma attribuendo sempre il supremo potere al loro Zeus, chiamato dai latini Giove, signore degli dei e degli uomini. I romani imitarono i greci. Sede di tutti gli dei fu sempre, per questi popoli, il cielo, pur senza che essi sapessero cosa intendevano per cielo e per il loro Olimpo; non era molto probabile che questi esseri superiori abitassero nelle nuvole, che non sono che acqua. In un primo tempo ne collocarono sette in sette pianeti, fra i quali era compreso il sole; ma, più tardi, la dimora di tutti gli dei fu l'immensa distesa del cielo.

I romani ebbero i loro dodici grandi dei, sei maschi e sei femmine, che chiamarono Dii majorum gentium: Giove, Nettuno, Apollo, Vulcano, Marte, Mercurio, Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Venere, Diana. Plutone fu allora dimenticato: Vesta prese il suo posto.

Venivano poi gli dei minorum gentium: gli dei indigeni, gli eroi, come Bacco, Ercole, Esculapio; gli dei infernali, Plutone e Proserpina; quelli del mare, come Tetide, Anfitrite, le Nereidi, Glauco, le Driadi, le Naiadi; gli dei degli orti, quelli dei pastori. Ce n'erano per ogni professione, per ogni azione della vita, per i bambini, le ragazze nubili, le sposate, le puerpere; ci fu anche il dio Peto. Infine si divinizzarono gli imperatori. Per la verità, né questi imperatori, né il dio Peto, né la dea Pertunda, né Priapo, né Rumilia, la dea delle mammelle, né Stercuzio, il dio dei cessi, furono mai considerati come i signori del cielo e della terra. Gli imperatori ebbero qualche volta dei templi, i piccoli dei penati non ne ebbero mai, ma tutti ebbero la loro figura, il loro idolo.

Erano piccoli fantocci con cui si ornavano le stanze, lo spasso delle vecchiette e dei bambini, ma non erano autorizzati da nessun culto pubblico. Si lasciava agire a suo piacimento la superstizione di ognuno. Si trovano ancora questi piccoli idoli nelle rovine delle antiche città.

Se nessuno sa quando gli uomini cominciarono a fabbricare idoli, si sa che essi risalgono alla più remota antichità: Tare, padre di Abramo, ne fabbricava a Ur, in Caldea; Rachele rubò e portò via con sé gli idoli di suo suocero Labano. Non possiamo risalire più lontano.

Ma che concetto avevano gli antichi popoli di tutti questi simulacri? Quale virtù, quale potenza si attribuiva loro? Credevano forse che gli dei scendessero dal cielo per venire a nascondersi in quelle statue, o che comunicassero ad esse una parte dello spirito divino, o che non comunicassero niente? Anche su questo punto si è scritto molto e inutilmente: è chiaro che ogni uomo giudicava secondo il grado della sua ragione, o della sua credulità, o del suo fanatismo. È evidente che i preti attribuivano la maggior divinità possibile alle loro statue, per ricevere più offerte. Sappiamo che i filosofi riprovavano queste superstizioni, che i guerrieri ne ridevano, che i magistrati le tolleravano, e che il popolo, sempre ottuso, non sapeva quel che faceva. È, in poche parole, la storia di tutti i popoli cui Dio non si è fatto conoscere.

Ci si può fare la stessa idea del culto che tutto l'Egitto tributò a un bue, e molte città a un cane, a una scimmia, a un gatto, a delle cipolle. Molto probabilmente furono in un primo tempo solo dei simboli. Poi, un certo bue Api, un certo cane chiamato Anubi, vennero adorati; si mangiò sempre del bue, e si mangiarono delle cipolle; ma è difficile sapere che cosa pensassero delle cipolle sacre e dei buoi le vecchiette egiziane.

Gli idoli parlavano abbastanza spesso. A Roma, in occasione della festa di Cibele, si commemoravano le belle parole che la statua aveva pronunziato il giorno in cui se ne fece la traslazione dal palazzo del re Attalo:

Ipsa peti volui; ne sit mora, mitte volentem:

Dignus Roma locus quo deus omnis eat.

Anche la statua della Fortuna aveva parlato: gli Scipioni, Cicerone, i Cesari, per la verità non ci credevano affatto, ma la vecchia, cui Encolpo dette uno scudo perché si comperasse delle oche e degli dei, poteva benissimo crederlo.

Gli idoli pronunciavano anche oracoli, e i sacerdoti nascosti nel cavo delle statue, parlavano in nome della Divinità.

Come mai, fra tanti dei e tante teogonie diverse e culti particolari non ci furono mai guerre di religione fra i popoli chiamati «idolatri»? Quella pace fu un bene che nacque da un male, dall'errore stesso, perché ogni popolo, riconoscendo molti dei inferiori, reputò conveniente che i suoi vicini avessero i loro. Se eccettuate Cambise, cui si rimproverava d'avere ucciso il bue Api, non si trova nella storia profana nessun conquistatore che abbia maltrattato gli dei del popolo vinto. I gentili non avevano nessuna religione esclusiva, e i sacerdoti non pensavano che a far moltiplicare le offerte e i sacrifici.

Le prime offerte furono di frutta; ma ben presto occorsero degli animali per la tavola dei sacerdoti; li sgozzavano essi stessi; diventarono sanguinari e crudeli; infine introdussero l'orrenda usanza di sacrificare vittime umane, e soprattutto bambini e fanciulle. Mai i cinesi, né i parsi, né gli indiani si resero colpevoli di tali abominii. Ma in Egitto, a Ieropoli, a detta di Porfirio, si immolarono uomini.

Nella Tauride si sacrificavano gli stranieri; per fortuna, i sacerdoti della Tauride non dovevano avere molto lavoro. I primi greci, i ciprioti, i fenici, i tiri, i cartaginesi praticarono quest'abominevole superstizione. Gli stessi romani caddero in tale delitto di religione, e Plutarco ci fa sapere che furori sacrificati due greci e due galli, per espiare i peccati d'amore di tre vestali. Procopio, contemporaneo del re dei franchi Teodeberto, dice che quando i franchi entrarono con quel principe in Italia, immolarono degli uomini. Per i galli e i germani tali orribili sacrifici erano pratica comune. Non si può quasi leggere la storia senza concepire orrore per il genere umano.

È vero che, presso gli ebrei, Jefte sacrificò sua figlia, e che Saul fu sul punto d'immolare suo figlio; è vero che coloro che eran votati al Signore per anatema non potevano essere riscattati come si riscattavano gli animali, e bisognava che morissero. Samuele, sacerdote ebreo, tagliò a pezzi con una sacra mannaia il re Agag, prigioniero di guerra cui Saul aveva perdonato; e Saul fu anzi riprovato per aver osservato il diritto delle genti con quel re. Solo Dio, signore degli uomini, può togliere loro la vita quando vuole, e per mezzo di chi vuole; e non spetta agli uomini mettersi al posto del Signore della vita e della morte e usurpare i diritti dell'Essere supremo.

Per consolare il genere umano di quest'orribile quadro, di questi pii sacrilegi, è importante sapere che, presso quasi tutte le nazioni chiamate «idolatre», c'erano la teologia sacra e l'errore popolare, il culto segreto e le cerimonie pubbliche, la religione dei saggi e quella del volgo. Nei misteri si apprendeva agli iniziati l'esistenza di un solo Dio: non c'è che da gettare gli occhi sull'inno attribuito all'antico Orfeo, che si cantava nei misteri di Cerere Eleusina, così celebre in Europa e in Asia: «Contempla la natura divina, illumina il tuo spirito, governa il tuo cuore; cammina nelle vie della giustizia: che il Dio del cielo e della terra sia sempre presente ai tuoi occhi egli è unico, esiste solo per se stesso: tutti gli esseri ricevono da lui la loro esistenza; egli li sostiene tutti; non è mai stato visto dai mortali, e vede ogni cosa.»

Si legga anche questo passo del filosofo Massimo di Madaura, nella sua Lettera a sant'Agostino: «Quale uomo è così rozzo e ottuso da dubitare dell'esistenza di un Dio supremo, eterno, infinito, che niente ha generato di simile a lui, e che é il padre comune di tutte le cose?»

Sappiamo, in base a mille testimonianze, che i saggi aborrivano non solo l'idolatria, ma anche il politeismo.

Epitteto, quel modello di rassegnazione e di pazienza, quell'uomo così grande in una condizione così bassa, non parla mai che di un solo Dio. Ecco una delle sue massime: «Dio mi ha creato, Dio è dentro di me; io lo porto dappertutto. Potrei insozzarlo con pensieri osceni, con azioni ingiuste, con desideri infami? Il mio dovere è di ringraziare Iddio di tutto, lodarlo di tutto e non cessare di benedirlo se non cessando di vivere.» Tutte le idee di Epitteto si basano su questo principio.

Marco Aurelio, tanto grande, forse, sul trono dell'impero romano, quanto Epitteto nella sua condizione di schiavo, parla spesso, in verità, degli dei, sia per conformarsi al linguaggio comune, sia per indicare esseri intermedi fra l'Essere supremo e gli uomini. Ma in questi passi mostra di non riconoscere che un solo Dio, eterno, infinito. «La nostra anima,» dice, «è un'emanazione della Divinità. I miei figli, il mio corpo, il mio spirito mi vengono da Dio.»

Gli stoici, i platonici ammettevano una natura divina e universale; gli epicurei la negavano. I pontefici, nei misteri, parlavano di un solo Dio. Dov'erano dunque gli idolatri?

Del resto, uno dei grandi errori del Dictionnaire del Moréri è l'aver detto che dal tempo di Teodosio il Giovane non restarono più idolatri fuorché nei remoti paesi dell'Asia e dell'Africa. C'erano in Italia molti popoli ancora pagani perfino nel VII secolo. Il Nord della Germania, al di là del Weser, non era ancora cristiano, al tempi di Carlo Magno. La Polonia e tutto il Settentrione rimasero a lungo, dopo di lui, nella cosiddetta idolatria. Metà dell'Africa, tutti i regni al di là del Gange, il Giappone, la plebe della Cina, cento orde di tartari hanno conservato il loro antico culto. Non restano in Europa che alcuni lapponi, alcuni samoiedi e alcuni tartari, i quali hanno perseverato nella religione dei loro avi.

Concludiamo con l'osservare che, nel tempo che da noi vien chiamato medioevo, chiamavamo «Pagania» il paese dei maomettani; trattavamo da «idolatri», da «adoratori di immagini» un popolo che ha in orrore proprio le immagini. Riconosciamo ancora una volta che i turchi sono più che scusabili se, quando vedono i nostri altari carichi di immagini e di statue, ci credono idolatri.



INFERNO



Da quando gli uomini vissero in società, dovettero accorgersi che molti colpevoli sfuggivano al rigore delle leggi. Essi punivano i crimini pubblici: fu necessario stabilire un freno per quelli privati; solo la religione poteva essere tale freno. I persiani, i caldei, gli egiziani, i greci immaginarono così delle punizioni dopo la vita; e, fra tutti gli antichi popoli che conosciamo, gli ebrei furono gli unici che ammisero solo castighi temporali. È ridicolo credere o fingere di credere, sulla base di passi molto oscuri, che l'inferno fosse ammesso dalle antiche leggi degli ebrei, dal loro Levitico, dal loro Decalogo, quando l'autore di queste leggi non dice una sola parola che possa avere il minimo rapporto con i castighi della vita futura. Si avrebbe il diritto di dire al redattore del Pentateuco: «Siete un uomo incoerente, senza probità e senza ragione, assolutamente indegno del nome di legislatore che vi arrogate. Come! Voi conoscete un dogma tanto repressivo e tanto necessario al popolo come quello dell'inferno, e non lo proclamate a chiare lettere? E mentre tale dogma è ammesso da tutti i popoli che vi circondano, vi limitate a lasciarlo indovinare da alcuni commentatori che verranno quattromila anni dopo di voi e che si metteranno a spaccare in quattro qualche vostra parola per trovarvi ciò che non avete detto? O siete un ignorante che non sa che tale credenza era universale in Egitto, in Caldea, in Persia, o siete un uomo assai sprovveduto se, conoscendo quel dogma, non ne avete fatto la base della vostra religione.»

Gli autori delle leggi ebraiche potrebbero tutt'al più rispondere: «Confessiamo d'essere estremamente ignoranti; d'aver imparato a scrivere molto tardi; confessiamo che il nostro popolo era un'orda selvaggia e barbara che errò per quasi mezzo secolo in deserti impraticabili; che usurpò infine, un piccolo paese con le rapine più odiose e le crudeltà più esecrabili che la storia ricordi. Non avevamo nessun commercio con le nazioni civili: come pretendete che noi, i più terrestri degli uomini, potessimo inventare un sistema del tutto spirituale? Noi ci serviamo della parola "anima" solo per designare la vita: non concepimmo il nostro Dio e gli angeli suoi ministri che come esseri corporei: la distinzione dell'anima e del corpo, l'idea di una vita dopo la morte non possono essere che il frutto di una lunga meditazione e di una sottilissima filosofia. Domandate agli ottentotti e ai negri, che abitano un paese cento volte più grande del nostro, se conoscono la vita futura. Abbiamo ritenuto sufficiente persuadere il nostro popolo che Dio punisce i malfattori fino alla quarta generazione, sia con la lebbra, sia con morti improvvise, sia con la perdita di quel po' di beni che potevano possedere.»

A questa apologia si potrebbe replicare: «Avete inventato un sistema il cui ridicolo salta agli occhi; perché il malfattore che godeva buona salute e la cui famiglia prosperava, doveva necessariamente beffarsi di voi.»

Certo, l'apologeta della legge giudaica potrebbe rispondere: «Vi sbagliate: perché per un criminale che ragionava rettamente, ce n'erano cento che non ragionavano affatto. Chi, dopo aver commesso un delitto non si sentiva punito né nel proprio corpo, né in quello di suo figlio, temeva per il nipote. Inoltre, se non soffriva oggi di qualche ulcera puzzolente, cui andavamo spesso soggetti, ne avrebbe sofferto nel corso di qualche anno: in una famiglia piombano sempre delle sventure, e noi facevamo facilmente credere che esse fossero inviate da una mano divina, vendicatrice delle colpe segrete.»

Sarebbe facile replicare a tale risposta: «La vostra giustificazione non vale niente, perché accade tutti i giorni che delle onestissime persone perdano la salute o i beni; e se non c'è famiglia cui non sia capitata qualche sventura, se tali sventure sono castighi di Dio, tutte le vostre famiglie erano dunque famiglie di farabutti.»

Il sacerdote ebreo potrebbe replicare ancora; direbbe che vi sono sventure inerenti alla natura umana, ed altre che vengono espressamente inviate da Dio. Ma si farebbe vedere a questo raziocinatore quanto sia ridicolo pensare che la febbre e la grandine siano una volta una punizione divina e un'altra un fenomeno naturale.

Infine, presso gli ebrei, i farisei e gli esseni accolsero la credenza di un inferno a loro modo: questo dogma era già passato dai greci e dai romani, e fu adottato dai cristiani.

Molti Padri della Chiesa non credettero all'eternità delle pene: sembrava loro assurdo bruciare per tutta l'eternità un poveraccio che avesse rubato una capra. Ha un bel dire Virgilio nel suo sesto canto dell'Eneide:

...Sedet aeternumque sedebit

Infelix Theseus.

Egli pretende invano che Teseo sia seduto per sempre su una sedia e che questa posizione sia il suo supplizio. Altri hanno creduto che Teseo fosse un eroe e che non se ne stesse seduto all'inferno, ma dimorasse nei Campi Elisi.

Non molto tempo fa un bravo e onesto ministro ugonotto predicò e scrisse che i dannati sarebbero stati un giorno graziati, che era necessaria una proporzione tra il peccato e la pena, e che la colpa di un momento non può meritare un castigo senza fine. I preti, suoi confratelli, deposero questo giudice indulgente. Uno di loro gli disse: «Amico mio, non credo più di voi all'eternità dell'inferno; ma è bene che la vostra domestica, il vostro sarto e anche il vostro procuratore ci credano.»



INONDAZIONE



Ci fu un tempo in cui il globo fu interamente inondato? La cosa è fisicamente impossibile.

Può essere che il mare abbia via via sommerso una dopo l'altra tutte le terre; però questo può essere avvenuto soltanto con una lenta gradazione, nel corso di un numero prodigioso di secoli. Il mare, in cinquant'anni, si è ritirato da Aigues-Mortes, da Frèjus, da Ravenna, che erano dei grandi porti, lasciando circa due leghe di terreno a secco. Con tale progressione, è evidente che gli ci vorrebbero due milioni e duecentocinquantamila anni per fare il giro del nostro globo. Va sottolineato che questo spazio di tempo si avvicina di molto a quello che occorre all'asse della terra per sollevarsi e coincidere con l'equatore: movimento assai verosimile, che da cinquant'anni s'è cominciato a prospettare, e che non può effettuarsi che nello spazio di due milioni e più di trecentomila anni.

Gli alvei marini, gli strati di conchiglie che sono stati scoperti da ogni parte, a sessanta, a ottanta, perfino a cento leghe dal mare, sono una prova incontestabile che esso ha deposto a poco a poco queste produzioni marine su terreni che una volta erano le rive dell'oceano. Ma che l'acqua abbia ricoperto per intero tutto il globo nel medesimo tempo, è una chimera assurda in fisica, dimostrata impossibile dalle leggi della gravitazione, dalle leggi dei fluidi, dall'insufficienza della quantità di acqua. Non pretendiamo certo condurre il minimo attacco contro la grande verità del diluvio universale raccontato nel Pentateuco; al contrario, è un miracolo, e dunque bisogna crederci; è un miracolo, e dunque non può essere stato messo in atto dalle forze fisiche.

Tutto è miracolo nella storia del diluvio: un miracolo che quaranta giorni di pioggia abbiano sommerso le quattro parti del mondo, e che l'acqua si sia elevata di quindici cubiti al di sopra di tutte le più alte montagne; un miracolo che ci siano state cateratte, porte, aperture nel cielo; un miracolo che tutti gli animali si siano recati nell'arca da tutte le parti del mondo; un miracolo che Noè abbia trovato di che nutrirli per dieci mesi; un miracolo che tutti gli animali e le relative provviste abbian potuto prendere posto nell'arca; un miracolo che la maggior parte non siano morti; un miracolo che abbian trovato di che nutrirsi, sbarcando dall'arca; un miracolo ancora, però di un'altra specie, che un tale chiamato Le Pelletier abbia creduto di spiegare come tutti gli animali sian potuti entrare nell'arca di Noè e si siano potuti nutrire in modo naturale.

Ora, essendo la storia del diluvio la cosa più miracolosa di cui si sia mai sentito parlare, sarebbe insensato spiegarla: sono misteri che si credono per fede; e la fede consiste nel credere a quello che la ragione non comprende: il che è ancora un altro miracolo.

Così la storia del diluvio universale è come quella della torre di Babele, dell'asina di Balaam, della caduta di Gerico al suono delle trombe, delle acque tramutate in sangue, del passaggio del mar Rosso e di tutti i miracoli che Dio si degnò di compiere in favore degli eletti del suo popolo; sono profondità che la mente umana non può sondare.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 22:01
 
Quota

I - L


INQUISIZIONE



L'Inquisizione è, come si sa, un'invenzione mirabile e autenticamente cristiana per rendere più potenti il papa e i monaci e per rendere ipocrita un intero regno.

Si considera di solito san Domenico il primo cui si deve questa santa istituzione. In effetti, abbiamo ancora una patente rilasciata da questo grande santo, e concepita in questi precisi termini: «Io, frate Domenico, riconcilio con la chiesa il nominato Ruggero, latore della presente, a condizione che egli si faccia frustare da un prete per tre domeniche consecutive, dall'entrata della città fino alla porta della chiesa; che mangi di magro tutta la vita; che digiuni per tre quaresime all'anno; che non beva mai vino; che porti il san-benito con le croci; che reciti il breviario tutti i giorni, dieci Pater al giorno, e venti all'ora di mezzanotte; che osservi d'ora in poi la continenza, e che si presenti tutti i mesi al curato della sua parrocchia ecc. Il tutto sotto pena d'essere trattato come eretico, spergiuro e impenitente.»

Sebbene Domenico sia stato il vero fondatore dell'Inquisizione, nondimeno Luigi da Paramo, uno dei più rispettabili scrittori e dei più brillanti luminari del Sant'Uffizio, asserisce, nel titolo secondo del suo secondo libro, che il primo istitutore del Sant'Uffizio fu Dio, e che egli esercitò il potere dei frati predicatori contro Adamo. Dapprima Adamo fu citato in tribunale: «Adam, ubi es?»; e infatti, aggiunge il Paramo, il difetto di citazione avrebbe reso nulla la procedura di Dio.

Gli abiti di pelle che Dio fece ad Adamo e a Eva furono il modello del san-benito che il Sant'Uffizio fa indossare agli eretici. È vero che con questo argomento si prova che Dio fu il primo sarto; ma non è meno evidente che fu anche il primo inquisitore.

Adamo fu privato di tutti i beni immobili che possedeva nel paradiso terrestre: è per questo che il Sant'Uffizio confisca i beni di tutti coloro che ha condannato.

Luigi da Paramo nota che gli abitanti di Sodoma furono bruciati come eretici, perché la sodomia è un'eresia formale. Da qui egli passa alla storia ebraica, dove trova dappertutto il Sant'Uffizio.

Gesù Cristo è il primo inquisitore della nuova legge; i papi furono inquisitori per diritto divino, e finalmente comunicarono questo loro potere a san Domenico.

Fa, poi, l'enumerazione di tutti coloro che l'Inquisizione ha messo a morte, e ne novera molto più di centomila.

Il suo libro fu stampato nel 1589, a Madrid, con l'approvazione dei teologi, gli elogi del vescovo, e il privilegio del re. Noi, oggi, non riusciamo a concepire orrori così pazzeschi e insieme così abominevoli; ma allora niente sembrava più naturale ed edificante. Tutti gli uomini assomigliano a Luigi da Paramo, quando sono fanatici.

Questo Paramo era un uomo semplice, esattissimo nelle date, che non ometteva nessun fatto interessante, e che computava con scrupolo il numero delle vittime umane immolate in tutti i paesi dal Sant'Uffizio.

Egli racconta col più grande candore come venne istituita l'Inquisizione in Portogallo, ed è perfettamente d'accordo con altri quattro storici, che hanno scritto le stesse cose. Ecco cosa riferiscono unanimi.

Già da gran tempo, ai primi del XV secolo, papa Bonifacio IX aveva delegato dei frati domenicani che andavano in Portogallo, di città in città, a bruciare gli eretici, i musulmani e gli ebrei; ma erano frati itineranti, e gli stessi re si lamentarono talvolta delle loro vessazioni. Papa Clemente VII volle dar loro un insediamento fisso in Portogallo, come già l'avevano in Aragona e in Castiglia. Ci furono delle difficoltà fra la corte di Roma e quella di Lisbona; gli animi si inasprirono, l'Inquisizione ne soffriva, non potendo ancora funzionare a suo agio.

Nel 1539 comparve a Lisbona un legato del papa, venuto, diceva, per stabilire la Santa Inquisizione su fondamenta incrollabili. Egli reca a re Giovanni III lettere di papa Paolo III. Aveva anche altre lettere di Roma per i principali personaggi della corte; le sue patenti di legato erano debitamente sigillate e firmate; egli mostrò di detenere i più ampi poteri di nominare un grande inquisitore e tutti i giudici del Sant'Uffizio. Si trattava di un truffatore, di nome Saavedra, che sapeva contraffare tutte le scritture, fabbricare e applicare falsi sigilli e falsi bolli. Aveva imparato questo mestiere a Roma e si era perfezionato a Siviglia, da dove arrivava con altri due furfanti. Il suo seguito era magnifico: aveva al suo servizio più di centoventi domestici. Per sovvenire a quest'enorme spesa, lui e i suoi due confidenti si erano fatti prestare a Siviglia somme ingenti a nome della camera apostolica di Roma. Tutto era concertato col più abbagliante artificio.

Sulle prime il re del Portogallo restò stupito che il papa gli inviasse un legato a latere senza averlo prevenuto. Il legato rispose fieramente che in una cosa di tale urgenza, come l'istituzione stabile dell'Inquisizione, Sua Santità non poteva tollerare indugi, e che il re doveva sentirsi abbastanza onorato che il primo corriere che gliene portava notizia fosse un legato del Santo Padre. Il re non osò replicare. Il legato, il giorno stesso, nominò un grande inquisitore, mandò dappertutto a riscuotere decime e, prima che la corte potesse avere risposta da Roma, aveva già fatto bruciare duecento persone e raccolto più di duecentomila scudi.

Frattanto, il marchese di Villanova, un nobile spagnolo da cui il legato si era fatto prestare a Siviglia una somma assai ragguardevole su dei biglietti falsi, ebbe l'ottima idea di pagarsi con le sue mani, invece di andare a compromettersi con quel truffatore a Lisbona. Il legato stava allora facendo il suo giro sui confini della Spagna. L'altro lo raggiunge con cinquanta uomini armati, lo cattura e lo conduce a Madrid.

La truffa fu presto scoperta a Lisbona; il consiglio di Madrid condannò il legato Saavedra alla frusta e a dieci anni di galera; ma l'incredibile fu che in seguito papa Paolo IV confermò tutto quello che aveva dichiarato quell'uomo infame: con la pienezza dei suoi poteri divini rettificò tutte le piccole irregolarità di procedura e rese sacro quel che era stato puramente umano.

Qu'importe de quel bras Dieu daigne se servir?

Ecco come l'Inquisizione si stabilì a Lisbona, e tutto il regno ammirò la Provvidenza.

Del resto, sono abbastanza conosciute tutte le procedure di quel tribunale; si sa bene quanto siano contrarie alla falsa equità e alla cieca ragione di tutti gli altri tribunali del mondo. Si è imprigionati dietro la semplice denuncia delle persone più scellerate; un figlio può denunciare il padre, una donna il marito; non si è mai messi a confronto con i propri accusatori, i beni vengono confiscati a favore dei giudici: così almeno si è comportata l'Inquisizione fino ai giorni, nostri. V'è in ciò qualcosa di divino, perché è incomprensibile che gli uomini abbiano sopportato con tanta pazienza questo giogo.

Finalmente il conte d'Aranda fu benedetto dall'Europa intera per avere spuntato gli artigli e limato i denti del mostro. Ma esso respira ancora.



J







JEFTE, O DEI SACRIFICI UMANI



Risulta evidente, dal testo del libro dei Giudici, che Jefte promise di sacrificare la prima persona che uscisse dalla sua casa a congratularsi con lui per la sua vittoria contro gli ammoniti. Gli venne incontro la sua unica figlia: egli si strappò le vesti e la immolò, dopo averle permesso d'andare a piangere sulle montagne la disgrazia di morire vergine. Le fanciulle ebree celebrarono a lungo questo evento, piangendo la figlia di Jefte per quattro giorni.

In qualsiasi tempo sia stata scritta questa storia, se sia stata imitata dalla storia greca di Agamennone o d'Idomeneo, o ne sia stata il modello; ch'essa sia anteriore o posteriore ad analoghe storie assire non è questo che voglio esaminare. Io mi attengo al testo: Jefte votò sua figlia in olocausto e adempì al suo voto.

Era espressamente comandato dalla legge ebraica di immolare gli uomini votati al Signore: «Ogni uomo votato non sarà riscattato, ma verrà messo a morte senza remissione». La Vulgata traduce: «Non redimetur, sed morietur» (Levitico XXVII, 29). È in virtù di tale legge che Samuele fece a pezzi il re Agag, cui Saul aveva perdonato; e proprio per aver risparmiato Agag, Saul fu riprovato dal Signore e perdette il suo regno. Ecco, dunque, i sacrifici di sangue umano chiaramente stabiliti: nessun punto della storia è meglio appurato. Di una nazione si può giudicare soltanto rivolgendosi ai suoi archivi e in base a quel che riferisce di sé.



L







LEGGI (DELLE)



I

Al tempo di Vespasiano e di Tito, mentre i romani sventravano i giudei, un israelita molto ricco, che non voleva essere sventrato, fuggì portandosi via tutto l'oro che aveva guadagnato con il suo mestiere d'usuraio, e condusse verso Esion Gheber tutta la sua famiglia, composta della vecchia moglie, di un figlio e di una figlia. Aveva al suo seguito due eunuchi, uno dei quali gli serviva da cuoco, e l'altro era zappatore e vignaiolo. Un buon esseno, che sapeva a memoria il Pentateuco, gli faceva da elemosiniere. Costoro s'imbarcarono nel porto di Esion Gheber, attraversarono il mare chiamato Rosso e che non è per niente tale, ed entrarono nel golfo Persico, per andare a cercare la terra di Ofir, senza sapere dove fosse. Ed ecco abbattersi una terribile tempesta che spinse la famiglia ebraica verso le coste delle Indie; il vascello fece naufragio presso una delle isole Maldive, oggi chiamata Padrabranca, che era a quel tempo deserta.

Il vecchio riccone e la vecchia annegarono; il figlio, la figlia, i due eunuchi e l'elemosiniere si salvarono: trassero come poterono qualche provvista dal vascello, costruirono delle capannucce nell'isola, e qui vissero abbastanza comodamente. Sapete come l'isola di Padrabranca sia situata a cinque gradi dall'equatore, e come vi si trovino le più grosse noci di cocco e i migliori ananas del mondo; era dolce viverci al tempo in cui altrove si sgozzava il resto della nazione diletta, ma l'esseno piangeva pensando che forse non restavano più altri ebrei sulla terra, e che il seme di Abramo si sarebbe estinto.

«Sta in voi risuscitarlo,» disse il giovane ebreo: «sposate mia sorella» «Lo farei volentieri,» disse l'elemosiniere, «ma la legge vi si oppone. Sono esseno, ho fatto voto di non sposarmi; la legge esige che si adempiano i propri voti; s'estingua pure la razza ebrea, ma certo io non sposerò vostra sorella, per quanto graziosa sia.»

«I miei due eunuchi non possono darle dei figli,» riprese l'ebreo; «perciò gliene darò io, se vi sta bene, e sarete voi a benedire il matrimonio.»

«Preferirei mille volte essere sventrato dai soldati romani,» disse l'elemosiniere, «che autorizzarvi a commettere un incesto; fosse almeno vostra sorella da parte di padre, passi ancora, la legge lo permette; ma è vostra sorella da parte di madre, e ciò è abominevole.»

«Capisco,» disse il giovane, «che sarebbe un delitto a Gerusalemme, dove potrei trovare altre ragazze; ma nell'isola di Padrabranca, dove non vedo altro che noci di cocco, ananas e ostriche, credo che la cosa sia più che permessa.»

L'ebreo, nonostante le proteste dell'esseno sposò dunque la sorella, e ne ebbe una figlia: fu l'unico frutto di un matrimonio che l'uno reputava legittimo e l'altro abominevole.

In capo a quattordici anni, la madre morì; il padre disse all'elemosiniere: «Vi siete finalmente sbarazzato dei vostri vecchi pregiudizi? Volete sposare mia figlia?» «Dio mi guardi!» disse l'esseno. «Ebbene, allora la sposerò io,» disse il padre, «e avvenga quel che può; ma io non voglio che il seme d'Abramo sia annientato.» L'esseno, spaventato da questo orribile proposito, non volle più restare con un uomo che trasgrediva tanto la legge, e fuggì. Il novello sposo aveva un bel gridargli: «Restate, amico mio; osservo la legge naturale, servo la patria, non abbandonate i vostri amici.» L'altro lo lasciava gridare, ossessionato dalla legge, e fuggì a nuoto nell'isola vicina.

Era la grande isola d'Attolo molto popolosa e molto civile; non appena vi approdò, lo fecero schiavo. Imparò a balbettare la lingua attolica; si lamentava amaramente del modo inospitale con cui l'avevano ricevuto; gli dissero che quella era la legge, e che, da quando l'isola era stata sul punto d'essere sorpresa dagli abitanti di Adà, si era saggiamente decretato che tutti gli stranieri che fossero approdati in Attolia venissero fatti schiavi. «Non può essere una legge,» disse l'esseno «perché non è nel Pentateuco.» Gli risposero che però era nel Digesto del paese, e così restò schiavo: per sua fortuna, aveva un ottimo e ricchissimo padrone, che lo trattò bene, e al quale si affezionò molto.

Un giorno degli assassini vennero per uccidere il padrone e rubare i suoi tesori; chiesero agli schiavi se il padrone era in casa, e se aveva molto denaro. «Vi giuriamo,» dissero gli schiavi, «che non ha un soldo, e che non è in casa.» Ma l'esseno disse: «La legge non permette di mentire; vi giuro che è in casa, e che ha un sacco di soldi.» E così il padrone fu ucciso e derubato. Gli schiavi accusarono l'esseno davanti ai giudici di aver tradito il padrone; l'esseno disse che non voleva mentire, e che non avrebbe mentito per niente al mondo; e fu impiccato.

Mi raccontavano questa storia, e molte altre, nell'ultimo viaggio che feci dall'India in Francia. Arrivato, andai a Versailles per certi miei affari; vidi passare una bella donna seguita da molte altre bellezze. «Chi è quella bella donna?» chiesi al mio avvocato in parlamento, che era venuto con me: perché avevo un processo in parlamento a Parigi per gli abiti che m'ero fatto fare nelle Indie, e volevo avere sempre a fianco il mio avvocato. «È la figlia del re,» disse; «è incantevole e di ottimo cuore; peccato che in nessun caso possa diventare regina di Francia.» «Come!» gli dissi, «se le toccasse la disgrazia di perdere tutti i suoi parenti e i principi del sangue (Dio non voglia!), essa non potrebbe ereditare il regno del padre!» «No,» disse l'avvocato, «la legge salica vi si oppone formalmente.» «E chi ha fatto questa legge salica?» chiesi all'avvocato. «Non ne so niente: ma si pretende che presso un antico popolo, detto dei sali, che non sapevano né leggere né scrivere, esistesse una legge scritta la quale diceva che in terra salica una ragazza non può ereditare nemmeno un podere; e questa legge è stata adottata in terra non salica.» «E io,» dissi, «la abrogo; mi avete assicurato che questa principessa è dolce e generosa; dunque avrebbe un diritto incontestabile alla corona, se sventura volesse che non restasse altri che lei di sangue reale: mia madre ha ereditato da suo padre; e voglio che una principessa erediti dal suo.»

L'indomani la mia causa fu giudicata in una camera del parlamento, e la perdetti per un voto; il mio avvocato mi disse che l'avrei vinta per un voto in un'altra camera. «Questa poi è comica,» gli dissi. «Dunque, ad ogni camera una legge.» «Sì,» disse, «ci sono venticinque commenti sul diritto consuetudinario di Parigi; vale a dire che si è provato venticinque volte che il diritto consuetudinario di Parigi è equivoco; e, se ci fossero venticinque camere di consiglio, ci sarebbero venticinque giurisprudenze diverse. Abbiamo,» proseguì, «a venticinque leghe da Parigi una provincia chiamata Normandia, dove sareste stato giudicato in tutt'altro modo.» Questo mi fece venir voglia di vedere la Normandia. Vi andai con uno dei miei fratelli. Incontrammo, nella prima locanda, un giovane che si disperava; gli chiesi quale fosse mai la sua sventura, mi rispose che era quella d'avere un fratello maggiore. «Ma che sventura è avere un fratello maggiore?» gli dissi; «mio fratello è maggiore di me, e viviamo benissimo insieme.» «Ahimè, signore» mi disse, «qui la legge dà tutto ai maggiori e non lascia niente ai minori,» «Avete ragione,» dissi, «d'essere in collera; dalle mie parti si divide in parti uguali, e non per questo, a volte, i fratelli si amano di più.»

Queste piccole avventure mi indussero a fare alcune belle e profonde riflessioni sulle leggi, e vidi che anche per queste è come per i nostri vestiti: ho dovuto portare un dolman a Costantinopoli e un giustacuore a Parigi.

Se tutte le leggi umane sono convenzioni, dicevo, non resta altro che far bene i propri affari. I borghesi di Delhi e di Agra dicono di aver fatto un pessimo affare con Tamerlano; i borghesi di Londra si congratulano di aver fatto un ottimo affare con re Guglielmo d'Orange. Un cittadino di Londra mi diceva un giorno: «È la necessità a fare le leggi, e la forza a farle osservare.» Gli domandai se talvolta non facesse le leggi anche la forza, e se Guglielmo il Bastardo e il Conquistatore non avesse dato ordini nel paese senza fare con loro alcun contratto. «Sì,» disse, «allora eravamo tanti buoi; Guglielmo ci mise un giogo, e ci fece marciare a forza di pungolo; più tardi ci mutammo in uomini, ma le corna ci sono rimaste, e con quelle colpiamo chiunque voglia farci lavorare per sé e non per noi.»

Assorto in tutte queste riflessioni, mi compiacevo di pensare che c'è una legge naturale, indipendente da tutte le convenzioni umane: il frutto del mio lavoro dev'essere mio; devo onorare il padre e la madre; non ho alcun diritto sulla vita del mio prossimo, e il mio prossimo non ne ha sulla mia ecc. Ma quando pensai che da Shodorlahomor fino a Mentzel colonnello degli ussari, ognuno può assassinare lealmente e depredare il suo prossimo con una patente in tasca ne restai molto afflitto.

Mi dissero che anche tra i ladri ci sono certe leggi, e che ce ne sono perfino in guerra. Domandai che cosa fossero queste leggi di guerra. «Sono,» mi dissero, «quella d'impiccare un valoroso ufficiale che abbia resistito in una cattiva postazione, senza cannone, contro un esercito regio; quella di far impiccare un prigioniero, se ne hanno impiccato uno dei vostri; di mettere a ferro e a fuoco i villaggi che non vi abbiano portato tutte le loro provviste nel giorno prescritto, secondo gli ordini del grazioso sovrano del vicinato.» «Bene,» dissi, «ecco Lo spirito delle leggi.»

Dopo essere stato istruito per bene, scoprii che esistono sagge leggi per le quali un pastore è condannato a nove anni di galera per aver dato ai suoi montoni un po' di sale proveniente dall'estero. Il mio vicino è stato rovinato da un processo per due querce che gli appartenevano, e che aveva fatto tagliare nel suo bosco, perché non aveva potuto osservare una formalità di cui non poteva essere a conoscenza. Sua moglie è morta in miseria, suo figlio tira avanti ancor più miseramente. Riconosco che queste leggi sono giuste, per quanto la loro esecuzione sia piuttosto dura: ma non sono certo soddisfatto delle leggi che autorizzano centomila uomini ad andare legalmente a sgozzare centomila vicini. Mi è parso che la maggior parte degli uomini abbia ricevuto dalla natura abbastanza buon senso per fare le leggi, ma che non tutti abbiano abbastanza giudizio per farne di buone.

Radunate da un capo all'altro della terra i semplici e tranquilli agricoltori: converranno tutti facilmente che dev'essere lecito vendere al vicino l'eccedenza del proprio grano, e che la legge contraria è inumana e assurda; che le monete, rappresentative delle derrate, non devono essere alterate più che non lo siano i frutti della terra; che un padre di famiglia dev'essere padrone in casa sua; che la religione deve raccogliere gli uomini per unirli, e non per farne dei fanatici e dei persecutori; che quelli che lavorano non devono privarsi del frutto del proprio lavoro per dotarne la superstizione e l'ozio: insomma, potranno fare in un'ora trenta leggi di questa specie, tutte utili al genere umano.

Ma lasciate che arrivi Tamerlano e soggioghi l'India: allora non vedrete altro che leggi arbitrarie. L'una opprimerà una provincia per arricchire un pubblicano di Tamerlano; Per un'altra sarà un crimine di lesa maestà l'aver detto male dell'amante del primo cameriere di un rajah; una terza porterà via all'agricoltura metà del raccolto, e gli contesterà il resto; infine ci saranno leggi per le quali un usciere tartaro verrà a prendervi i vostri figli in culla, farà del più robusto un soldato e del più debole un eunuco, e lascerà il padre e la madre senza soccorso e senza consolazione.

Ora, è meglio essere il cane di Tamerlano o un suo suddito? È chiaro che la condizione del suo cane è di gran lunga preferibile.

II

I montoni vivono del tutto pacificamente in società; si crede che la loro natura sia molto mite, perché nessuno vede la prodigiosa quantità di animaletti che divorano. C'è da credere anzi che essi li mangino innocentemente, senza saperlo, come quando noi mangiamo del formaggio di Sassenage. La repubblica dei montoni è l'immagine fedele dell'età dell'oro.

Un pollaio è chiaramente lo Stato monarchico più perfetto. Non c'è nessun re che possa essere paragonato a un gallo. Il gallo, se cammina fiero in mezzo al suo popolo, non lo fa per vanità. Se il nemico si avvicina, esso non ordina ai suoi sudditi di andare a farsi ammazzare per lui, in virtù della sua scienza e onnipotenza; ci va lui stesso, schiera dietro di sé le sue galline e combatte fino alla morte. Se la vittoria è sua, canta lui stesso il Te Deum. Nella vita civile, nessuno è tanto galante, onesto, disinteressato. Ha tutte le virtù. Se ha nel suo becco regale un chicco di grano o un vermiciattolo, lo dona alla prima delle sue suddite che gli capita davanti. Insomma, Salomone nel suo serraglio non somigliava nemmeno da lontano a un gallo del suo pollaio.

Se è vero che le api sono governate da una regina con cui tutti i sudditi fanno l'amore, il loro è un governo ancora più perfetto.

Il mondo delle formiche passa per un'eccellente democrazia. Essa è al di sopra di tutti gli altri Stati perché tutti vi sono eguali e il singolo lavora per la felicità di tutti.

La repubblica dei castori è ancora superiore a quella delle formiche, almeno a giudicare dalle loro costruzioni.

Le scimmie somigliano più a saltimbanchi che a un popolo ben ordinato, e non sembra che siano riunite sotto leggi fisse e fondamentali, come le specie precedenti.

Noi assomigliamo più alle scimmie che ad ogni altro animale, per il dono dell'imitazione, per la superficialità delle nostre opinioni, e per la nostra incostanza, che non ci ha mai permesso di avere leggi uniformi e durature.

Quando la natura formò la nostra specie e ci diede alcuni istinti - l'amor proprio per la nostra conservazione, la benevolenza per quella degli altri, l'amor, che è comune a tutte le specie e il dono inesplicabile di combinare più idee di tutti gli altri animali riuniti assieme - dopo averci assegnata la nostra parte, ci disse: «Fate come potrete.»

In nessun paese del mondo c'è un buon codice. La ragione è evidente: le leggi sono state fatte via via, secondo i tempi, i luoghi, i bisogni ecc.

Quando i bisogni cambiano, le leggi, che restano immutate, diventano ridicole. Così la legge che proibiva di mangiare carne di maiale e di bere vino, era assai ragionevole in Arabia, dove il maiale e il vino sono perniciosi; a Costantinopoli è assurda.

La legge che assegna tutto il feudo al primogenito è ottima in tempi di anarchia e di saccheggio. Allora, il primogenito è il capitano del castello che prima o poi i briganti assaliranno; i cadetti saranno i suoi ufficiali, e i contadini i suoi soldati. Tutto quello che c'è da temere è che il cadetto assassini o imprigioni il signore salico, suo fratello maggiore, per diventare a sua volta il padrone della bicocca, ma questo avviene raramente perché la natura ha combinato in tale modo i nostri istinti e le nostre passioni che proviamo più orrore di assassinare il nostro fratello maggiore che non desiderio di prendere il suo posto. Ora tale legge, conveniente per i possessori di castelli al tempo di Chilperico, è detestabile quando si tratti di spartire le rendite in una città.

A vergogna degli uomini, si sa che le leggi del gioco sono le sole che dappertutto siano giuste, chiare, inviolabili e osservate. Perché l'indiano che ha dettato le regole del gioco degli scacchi è obbedito di buon grado in tutto il mondo, e invece le decretali dei papi, per esempio, sono ai nostri giorni oggetto di orrore e di disprezzo? Perché l'inventore degli scacchi combinò ogni cosa con esattezza per la soddisfazione dei giocatori, mentre i papi, nelle loro decretali, non mirarono che al loro interesse. L'indiano volle, nello stesso tempo, esercitare l'ingegno degli uomini e procurare loro un divertimento; i papi vollero invece abbrutire lo spirito umano. Così, da cinquemila anni, le regole fondamentali del gioco degli scacchi sono rimaste immutate e sono comuni a tutti gli uomini della terra; mentre le decretali sono osservate soltanto a Spoleto, a Orvieto, a Loreto, dove il più meschino giureconsulto le detesta e le disprezza in segreto.



Leggi civili ed ecclesiastiche

Tra le carte di un giureconsulto si sono trovate queste note, che forse meritano d'esser prese in esame.

Che nessuna legge ecclesiastica abbia vigore se non quando riceva l'esplicita sanzione del governo. Appunto con questo mezzo Atene e Roma non ebbero mai lotte religiose. Queste discordie sono proprie delle nazioni barbare, o imbarbarite.

Che solo al magistrato sia dato di permettere o vietare il lavoro nei giorni festivi, perché non sta ai sacerdoti proibire agli uomini di coltivare il proprio campo.

Che tutto ciò che riguarda i matrimoni dipenda unicamente dal magistrato, e i sacerdoti si limitino all'augusta funzione di benedirli.

Che il prestito a interesse sia oggetto solo della legge civile, perché questa sola presiede al commercio.

Che tutti gli ecclesiastici siano sottomessi in tutti i casi al governo, perché sono tutti sudditi dello Stato.

Che non si cada mai nella ridicola vergogna di pagare a un sacerdote straniero la prima annata del reddito di una terra che dei cittadini han donato a un sacerdote loro cittadino.

Che nessun sacerdote possa mai privare un cittadino della minima prerogativa, sotto pretesto che quel cittadino è un peccatore, perché il prete, anch'egli peccatore, deve pregare per i peccatori e non giudicarli.

Che i magistrati, i lavoratori e i preti paghino egualmente le imposte dello Stato, perché tutti appartengono egualmente allo Stato.

Che ci sia un solo peso, una sola misura, un solo diritto.

Che i supplizi dei criminali siano utili. Un uomo impiccato non è utile a nessuno, mentre un uomo condannato ai lavori forzati serve ancora la patria ed è una lezione vivente.

Che ogni legge sia chiara, uniforme e precisa: interpretarla porta quasi sempre a corromperla.

Che niente sia infame se non il vizio.

Che le imposte siano sempre proporzionali.

Che la legge non sia mai in contraddizione con la consuetudine: perché, se la consuetudine è buona, la legge non vale.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
OFFLINE
Email Scheda Utente
Post: 16.648
Post: 4.116
Età: 17
Sesso: Maschile
Utente Gold
Papa
04/06/2007 22:03
 
Quota

- L


LETTERE, UOMINI DI LETTERE O LETTERATI



Nei tempi barbari, quando i franchi, i germani, i bretoni, i longobardi, i mozarabi spagnoli non sapevano né leggere né scrivere, furono istituite scuole, università, composte quasi tutte di ecclesiastici, i quali, non conoscendo che il loro gergo, lo insegnarono a coloro che vollero impararlo; le accademie vennero molto tempo dopo; esse hanno disprezzato le sciocchezze delle scuole, ma non sempre hanno osato levarsi contro di esse, perché ci sono sciocchezze che si rispettano, se sono collegate a cose rispettabili.

Gli uomini di lettere che hanno reso i maggiori servigi al piccolo numero d'esseri pensanti sparsi per il mondo sono i letterati isolati, i veri dotti chiusi nel loro studio, che non hanno né argomentato sui banchi delle università, né detto le cose a metà nelle accademie; e costoro sono stati quasi tutti perseguitati. La nostra miserabile specie è fatta in modo tale che quelli che camminano sulle vie battute gettano sempre pietre contro quelli che insegnano vie nuove.

Montesquieu dice che gli sciti cavavano gli occhi ai loro schiavi perché, nel fare il burro, non si distraessero: così fa l'Inquisizione, e nei paesi dove questo mostro regna, quasi tutti sono ciechi. Da oltre cent'anni, in Inghilterra si hanno due occhi; i francesi cominciano adesso ad aprirne uno; ma talvolta si trovano degli uomini altolocati che non vogliono nemmeno permettere che si sia monocoli.

Questi poveri diavoli sono come il dottor Balanzone della commedia italiana, che non vuole essere servito che dal balordo Arlecchino, e teme di avere un valletto troppo furbo.

Scrivete odi in lode di monsignor Superbus Fadus, e madrigali per la sua amante; dedicate al suo portiere un libro di geografia, sarete ben ricevuto; illuminate gli uomini, e sarete schiacciato.

Descartes è obbligato a lasciare la sua patria, Gassendi è calunniato; Arnauld trascina i suoi giorni in esilio; ogni filosofo è trattato come i profeti presso gli ebrei.

Chi crederebbe che, nel XVIII secolo, un filosofo sia stato trascinato davanti ai tribunali secolari, e trattato da empio dai tribunali ecclesiastici per aver detto che gli uomini non potrebbero esercitare le arti se non avessero le mani? Non dispero di sapere ben presto che è stato condannato alle galere il primo che avrà avuto l'insolenza di dire che un uomo non penserebbe, se fosse senza testa: «Infatti,» gli dirà un cancelliere, «l'anima è puro spirito, la testa non è che materia; Dio può collocare l'anima nel calcagno altrettanto bene che nel cervello; e dunque vi denunzio come empio.»

La più grande sventura di un uomo di lettere non è forse d'essere oggetto della gelosia dei suoi confratelli, vittima degli intrighi, disprezzato dai potenti del mondo: è di essere giudicato dagli stupidi. Gli stupidi arrivano lontano, qualche volta, soprattutto quando il fanatismo si sposa alla stupidità, e la stupidità allo spirito di vendetta. Un'altra grande sventura per un uomo di lettere è, di solito, quella di non essere appoggiato da nessuno e da niente. Un borghese compera una piccola carica, ed eccolo sostenuto dai suoi confratelli; se è colpito da un'ingiustizia, trova subito chi lo difende. L'uomo di lettere non trova aiuti: assomiglia ai pesci volanti. Se si innalza un poco, gli uccelli lo divorano; se si immerge, lo divorano i pesci.

Ogni uomo pubblico paga il proprio tributo alla malignità, ma ne è ripagato con denaro e onori. L'uomo di lettere paga lo stesso tributo, senza ricevere niente; è sceso nell'arena per suo diletto, si è condannato da solo alle belve.



LIBERTÀ (DELLA)

A

Ecco una batteria di cannoni che ci assorda: avete la libertà di udirla o di non udirla?

B

Senza dubbio, non posso fare a meno di udirla.

A

Volete che quel cannone tronchi la vostra testa, quella di vostra moglie e di vostra figlia, che passeggiano al vostro fianco?

B

Che discorso mi fate? Io non posso, finché mi funziona il cervello, volere una cosa simile: ciò m'è impossibile.

A

Bene, voi udite di necessità questo cannone, e di necessità non volete morire per una cannonata, voi e la vostra famiglia, mentre passeggiate. Voi non avete né il potere di non udire né il potere di voler restare qui.

B

Questo è chiaro.

A

Di conseguenza, avete fatto una trentina di passi per mettervi al riparo dal cannone e avete avuto il potere di camminare con me in questo breve spostamento?

B

Anche questo è chiarissimo.

A

Al contrario, se foste stato paralitico non avreste potuto evitare di restare esposto a quella batteria; non avreste avuto il potere di essere dove adesso siete; avreste necessariamente sentito e ricevuto un colpo di cannone, e sareste necessariamente morto?

B

Niente di più vero.

A

E in che consiste dunque la vostra libertà se non nel potere che la vostra persona ha esercitato, di fare quel che la vostra volontà esigeva per assoluta necessità?

B

Voi mi mettete in imbarazzo: la libertà non sarebbe altro che il potere di fare ciò che voglio?

A

Rifletteteci, e vedete se la libertà può essere intesa in altro modo.

B

In questo caso, il mio cane da caccia è libero quanto me; egli ha necessariamente la volontà di correre quando vede una lepre, e il potere di correre se non ha male alle zampe. Io non ho dunque niente al di sopra del mio cane: voi mi riducete allo stato delle bestie.

A

Ecco qua i miseri sofismi dei poveri sofisti che vi hanno istruito. Eccovi sconvolto di sapervi libero come il vostro cane. Ebbene, non assomigliate al vostro cane in mille cose? La fame, la sete, la veglia, il sonno, i cinque sensi, non li avete tutti e due tali e quali? Vorreste sentire gli odori altrimenti che con il naso? Perché volete avere una libertà diversa da quella che ha lui?

B

Ma io ho un'anima che ragiona molto, e il mio cane ragiona a malapena. Ha poco più che qualche idea elementare, mentre io ho mille idee metafisiche.

A

Ebbene, voi siete mille volte più libero di lui; ossia avete mille volte più di lui il potere di pensare, ma non siete libero in modo diverso da lui.

B

Cosa? Non sono libero di volere quel che voglio?

A

Che intendete con ciò?

B

Quel che intendono tutti. Non diciamo forse tutti i giorni: «le volontà sono libere»?

A

Un proverbio non è un argomento: spiegatevi meglio.

B

Intendo dire che sono libero di volere come mi piacerà.

A

Col vostro permesso, questo non ha senso. Non vi rendete conto che è ridicolo dire «Io voglio volere»? Voi volete necessariamente, in conseguenza delle idee che vi sono balzate alla mente. Volete sposarvi, sì o no?

B

E se vi dicessi che non voglio né l'una cosa né l'altra?

A

Rispondereste come quel tale che diceva: «Gli uni credono che il cardinal Mazzarino sia morto, gli altri che sia ancora vivo, e io non credo né l'una cosa né l'altra».

B

Va bene. Voglio sposarmi.

A

Questa è una risposta. Perché volete sposarvi?

B

Perché amo una ragazza bella, dolce, bene educata, abbastanza ricca, che canta benissimo, i cui genitori sono gente civile, e perché mi lusingo d'essere riamato da lei e molto ben visto dalla sua famiglia.

A

Giuste ragioni. Vedete che non potete volere senza ragione. Io vi dichiaro che siete libero di sposarvi: ossia, che avete il potere di firmare il contratto nuziale.

B

Come? Non posso volere senza ragione? Che ne sarebbe allora di quest'altro proverbio: «Sit pro ratione voluntas», la mia volontà è la mia ragione, voglio perché voglio?

A

Questo è assurdo, mio caro amico, ci sarebbe in voi un effetto senza causa.

B

Come? Quando gioco a pari o dispari, ho forse una ragione di scegliere pari piuttosto che dispari?

A

Sì, senza dubbio.

B

E qual è questa ragione, se non vi spiace?

A

È il fatto che alla vostra mente si è presentata l'idea del pari prima dell'idea opposta. Sarebbe buffo se ci fossero casi in cui voi volete perché c'è una causa di volere, e casi in cui invece volete senza causa. Quando vi volete sposare, ne sentite indubbiamente la ragione dominante; quando giocate a pari o dispari, non la sentite: e tuttavia bisogna bene che ce ne sia una.

B

Ma, ancora una volta, io dunque non sono libero?

A

La vostra volontà non è libera, ma le vostre azioni lo sono. Voi siete libero di agire solo se avete il potere di agire.

B

Ma tutti i libri che ho letto sulla libertà d'indifferenza?...

A

Sono sciocchezze: la libertà d'indifferenza non esiste; è un modo di dire privo di senso, inventato da gente abbastanza scriteriata.



LIBERTÀ DI PENSIERO



Verso l'anno 1707, quando gli inglesi vinsero la battaglia di Saragozza, posero sotto la loro protezione il Portogallo, e diedero per qualche tempo un re alla Spagna; milord Boldmind, ufficiale generale, che era rimasto ferito, si trovava alle acque di Barèges. Vi incontrò il conte Medroso, il quale, caduto da cavallo dietro le salmerie, a una lega e mezzo dal campo di battaglia, era venuto anche lui a passare le acque. Costui era familiare con l'Inquisizione; milord Boldmind non era familiare che nella conversazione; un giorno, dopo aver bevuto, ebbe con Medroso questo scambio d'idee:

BOLDMIND

Voi dunque, siete sergente dei domenicani? Fate davvero un gran brutto mestiere!

MEDROSO

È vero; ma preferisco essere il loro servo che la loro vittima, e la sventura di bruciare il mio prossimo a quella di venir bruciato io.

BOLDMIND

Che orribile alternativa! Eravate cento volte più felici sotto il giogo dei mori, che vi lasciavano liberamente marcire in tutte le vostre superstizioni, e che, pur essendo i vostri padroni, non si arrogavano il diritto inaudito di tenere incatenate le anime.

MEDROSO

Che volete? Non ci è permesso né di scrivere, né di parlare, né di pensare. Se parliamo, è facile interpretare le nostre parole e ancor più i nostri scritti. Infine, poiché non ci possono condannare in un autodafè per i nostri pensieri segreti, siamo minacciati d'essere bruciati in eterno per ordine di Dio stesso, se non la pensiamo come i domenicani. Essi hanno persuaso il governo che, se usassimo il senso comune, tutto lo stato andrebbe a fuoco, e la nazione diventerebbe la più sfortunata della terra.

BOLDMIND

Trovate che siamo tanto sventurati, noi inglesi, che copriamo i mari di vascelli, e veniamo a vincere battaglie per voi, qua, nella punta estrema dell'Europa? Vi pare che gli olandesi, i quali vi hanno portato via quasi tutte le terre da voi scoperte in India, e oggi sono vostri protettori, siano maledetti da Dio per aver concesso piena libertà di stampa e per fare commercio dei pensieri degli uomini? L'impero romano è stato forse meno potente perché Cicerone scriveva in libertà?

MEDROSO

Chi è questo Cicerone? Non ne ho mai sentito parlare; qui non si tratta di Cicerone, ma del nostro Santo Padre e di sant'Antonio da Padova; e io ho sempre sentito dire che la religione romana è perduta, se gli uomini si mettono a pensare.

BOLDMIND

Non sta a voi crederlo, perché voi siete sicuro che la vostra religione è divina, e che le porte dell'inferno non possono prevalere contro di lei. Se è così, niente potrà mai distruggerla.

MEDROSO

No, ma può venir ridotta a ben poca cosa; per aver pensato, la Svezia, la Danimarca, tutta la vostra isola, mezza Germania gemono nella tremenda sventura di non essere più sudditi del papa. Si dice perfino che, se gli uomini continueranno a seguire i loro falsi lumi, si riduranno ben presto alla semplice adorazione di Dio e alla virtù. Se le porte dell'inferno dovessero prevalere sino a quel punto, che ne sarebbe del Sant'Uffizio?

BOLDMIND

Non è forse vero che, se i primi cristiani non avessero avuto la libertà di pensare, non ci sarebbe stato il cristianesimo?

MEDROSO

Che volete dire? Non vi capisco.

BOLDMIND

Lo credo. Voglio dire che se Tiberio e i primi imperatori avessero avuto dei domenicani che avessero impedito ai primi cristiani di usare penne e inchiostro; se non fosse stato, per lungo tempo, permesso, nell'impero romano, di pensare liberamente, sarebbe stato impossibile ai cristiani stabilire i loro dogmi. Se dunque il cristianesimo si affermò solo in grazia della libertà di pensiero, per quale contraddizione, per quale ingiustizia, vorrebbe oggi annientare quella libertà su cui sola si è fondato?

Quando vi propongono qualche affare pecuniario, non lo esaminate a lungo prima di concluderlo? Quale maggior interesse può esserci al mondo di quello della nostra felicità o della nostra infelicità eterna? Ci sono cento religioni sulla terra, che tutte vi dannano se credete ai vostri dogmi, che, esse, credono assurdi ed empi: esaminate, dunque, questi dogmi.

MEDROSO

Come posso esaminarli? Non sono un domenicano, io.

BOLDMIND

Siete un uomo, e tanto basta.

MEDROSO

Ahimè, voi siete molto più uomo di me.

BOLDMIND

Dipende solo da voi imparare a pensare: siete nato con un intelletto: siete come un uccello nella gabbia dell'Inquisizione; il Sant'Uffizio v'ha spezzato le ali, ma esse possono ricrescere. Chi non sa la geometria, può impararla; chiunque può istruirsi; è vergognoso abbandonare la propria anima nelle mani di gente cui non affidereste il vostro denaro: osate pensare col vostro cervello!

MEDROSO

Si dice che, se tutti pensassero col proprio cervello, regnerebbe una ben strana confusione.

BOLDMIND

Tutto il contrario. Quando si assiste a uno spettacolo, ognuno esprime liberamente il suo parere, e l'ordine non viene affatto turbato: ma se il protettore insolente di un pessimo poeta volesse costringere tutte le persone di buongusto ad applaudire ciò che loro trovano brutto, allora i fischi si farebbero sentire, e i due partiti avversi potrebbero tirarsi addosso patate, come avvenne una volta a Londra. Sono i tiranni delle menti a causare una parte delle sventure del mondo. Noi, in Inghilterra, viviamo felici solo da quando ciascuno gode liberamente del diritto di dire la propria opinione.

MEDROSO

Anche noi viviamo tranquilli a Lisbona, dove nessuno è libero di dire la sua.

BOLDMIND

Vivete tranquilli, ma non siete felici. La vostra è la tranquillità dei galeotti, che remano in cadenza e in silenzio.

MEDROSO

Dunque credete che la mia anima sia in galera?

BOLDMIND

Sì, e vorrei liberarla.

MEDROSO

E se mi trovassi bene in galera?

BOLDMIND

In tal caso meritereste di restarci.



Limiti dello spirito umano

Essi sono dappertutto, mio povero dottore. Vuoi sapere perché il tuo braccio e il tuo piede obbediscono alla tua volontà, e il tuo fegato, invece, non t'obbedisce? Cerchi di sapere come si formi il pensiero nel tuo debole intelletto, o il bambino nell'utero di quella donna? Ti lascio tempo per rispondermi. E che cos'è la materia? I tuoi pari hanno scritto su questo argomento diecimila volumi; e hanno trovato solo certe qualità di questa sostanza: i bambini le conoscono come te. Ma questa sostanza cos'è, in fondo? E cos'è quel che tu hai chiamato «spirito», dal vocabolo latino che significa «respiro», non potendo far di meglio perché non ne hai nessuna idea?

Guarda questo chicco di grano che getto in terra, e dimmi come mai germina per produrre uno stelo carico d'una spiga. Spiegami come mai il medesimo terreno produce su quella pianta una mela, e sull'albero vicino una castagna. Potrei scriverti un volume in folio di problemi, cui dovresti rispondere solo con queste quattro parole: «non ne so niente». E tuttavia hai raggiunto i più alti gradi, indossi toghe e berretti foderati di pelliccia, e ti chiamano maestro. E quell'altra faccia tosta che ha comprato una carica, crede d'aver conquistato il diritto di giudicare e condannare ciò che non capisce! Il motto di Montaigne era: «Che cosa so?» e il tuo è: «Che cosa non so?»



LUSSO



Da duemila anni si declama contro il lusso, in versi e in prosa, e lo si è sempre amato.

Che cosa non si è detto dei primi romani? Quando quei briganti devastarono e saccheggiarono le messi dei vicini, quando per accrescere il loro misero villaggio distrussero i miseri villaggi dei volsci e dei sanniti, erano uomini disinteressati e virtuosi: non avevano ancora potuto rubare né oro , né argento, né gemme, perché nelle borgate che depredarono non ce n'era. I loro boschi e le loro paludi non producevano né pernici, né fagiani, e si loda la loro temperanza.

Quando, da un paese all'altro, ebbero saccheggiato tutto, depredato tutto, dal fondo del golfo Adriatico all'Eufrate, ed ebbero la bella idea di godersi il frutto delle loro rapine per sette o otto secoli; quando coltivarono tutte le arti, gustarono tutti i piaceri, e li fecero gustare perfino ai vinti, allora cessarono, si dice, d'essere saggi e dabbene.

Tutte queste declamazioni si riducono a provare che un ladro non deve mai né mangiare il pranzo che ha portato via a qualcuno né indossare l'abito che ha rubato, né ornarsi dell'anello che ha rapinato. Bisognava, si dice, buttar tutto nel fiume, per vivere da galantuomini; dite piuttosto che non si doveva rubare. Condannate i briganti quando depredano, ma non trattateli da insensati quando godono i frutti dei loro misfatti; in buona fede, quando molti marinai inglesi si arricchirono alla presa di Pondichéry e dell'Avana, ebbero torto a prendersi poi un po' di piacere a Londra in premio delle pene sopportate nel fondo dell'Asia e dell'America?

Questi declamatori vorrebbero forse che si seppellissero le ricchezze ammassate con la fortuna delle armi, con l'agricoltura, con il commercio e con l'industria? Citano Sparta: perché non citano anche la repubblica di San Marino? Che bene fece Sparta alla Grecia? Ebbe mai dei Demostene, dei Sofocle, degli Apelle e dei Fidia? Il lusso di Atene creò grandi uomini di tutti i generi; Sparta ebbe solo qualche capitano, e ancora in minor numero che altre città. Ma alla buon'ora, che una repubblica così piccola come Sparta conservi la sua povertà. S'arriva alla morte tanto mancando di tutto quanto godendo di ciò che può rendere gradevole la vita. Il selvaggio del Canada vive e arriva alla vecchiaia come il cittadino d'Inghilterra che ha cinquemila ghinee di rendita. Ma chi paragonerà mai il paese degli irochesi all'Inghilterra?

Che la repubblica di Ragusa e il cantone di Zug facciano pure leggi suntuarie: hanno ragione, il povero non deve spendere al di là delle sue forze; ma ho letto da qualche parte

Sappiate innanzitutto che il lusso arricchisce

un grande stato, pur se perde uno piccolo.

Se per lusso intendete l'eccesso, si sa che l'eccesso è pernicioso in tutto: nell'astinenza come nella ghiottoneria, nell'economia come nella liberalità. Non so come accada che nei miei villaggi, dove la terra è ingrata, le imposte grevi, e il divieto d'esportare il grano che si è seminato addirittura intollerabile, non si trovi tuttavia un colono che non abbia il suo bravo vestito di panno e non sia ben calzato e ben nutrito. Se quel colono ara i campi col suo abito buono, con la biancheria candida, con i capelli arricciati e incipriati, ecco certamente il lusso più eccessivo, più impertinente; ma un borghese di Parigi o di Londra che si presenti a teatro vestito come quel contadino, ecco è la taccagneria più grossolana e ridicola.

Est modus in rebus, sunt certi denique fines

quos ultra citraque nequit consistere rectum.

Quando furono inventate le forbici, che non risalgono certo alla più remota antichità, che cosa non si disse contro i primi che si spuntarono le unghie e si tagliarono una parte dei capelli che gli cadevano sul naso? Furono indubbiamente trattati da damerini e da prodighi, che comperavano a caro prezzo uno strumento di vanità per guastare l'opera del Creatore. Quale enorme peccato accorciare le unghie che Iddio ci fa nascere sulla punta delle dita! Era un oltraggio alla divinità. Fu molto peggio quando s'inventarono le camicie e i calzini. Tutti sanno con quale furore i vecchi consiglieri, che non ne avevano mai portati, gridarono contro i giovani magistrati che caddero in preda a quel lusso funesto.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
Risposta Veloce
Nick  
Titolo
Messaggio
Smiles
Copia il codice di controllo qui sotto





Nuova Discussione
Rispondi

Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 03:04. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com