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Dizionario filosofico

Ultimo Aggiornamento: 10/08/2007 08:59
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Dizionario filosofico

A cura di Diego Fusaro


PREFAZIONE DI VOLTAIRE


Esistono già quattro edizioni di questo Dizionario, ma tutte incomplete e informi; non avevamo potuto curarne alcuna. Pubblichiamo infine questa, che si fa preferire a tutte le altre per la correttezza, per l'ordine e per il numero di voci. Le abbiamo tutte tratte dai migliori autori europei né ci siamo fatti scrupolo di copiare talvolta una pagina da un libro conosciuto, quando tale pagina si è dimostrata necessaria alla nostra collezione. Vi sono intere voci di persone tuttora viventi, fra le quali si contano alcuni dotti pastori. Questi pezzi sono da tempo alquanto noti agli eruditi, come le voci APOCALISSE, CRISTIANESIMO, MESSIA, MOSÈ, MIRACOLI ecc. Ma, nella voce MIRACOLI, abbiamo aggiunto un'intera pagina del celebre dottor Middleton, bibliotecario di Cambridge.

Si troveranno anche diversi passaggi del dotto vescovo di Glocester, Warburton. I manoscritti del signor Dumarsais ci sono stati molto utili; ma abbiamo unanimemente respinto tutto ciò che sembrava favorire l'epicureismo. Il dogma della Provvidenza è così sacro, così necessario alla felicità del genere umano, che nessun uomo onesto deve indurre i propri lettori a dubitare di una verità che non può in alcun caso fare del male e che può sempre produrre un gran bene.

Non consideriamo affatto questo dogma della Provvidenza universale come un sistema, bensì come una cosa dimostrata a tutti gli spiriti raziocinanti; al contrario, i diversi sistemi sulla natura dell'anima, sulla grazia, su opinioni metafisiche, che dividono tutte le comunioni religiose, possono essere sottoposti all'analisi: poiché, essendo in discussione da millesettecento anni, è evidente che non portano affatto con sé il carattere di certezza; sono enigmi che ciascuno può divinare secondo la portata della propria intelligenza.

La voce GENESI è di un uomo di grandi capacità, che gode della stima e della fiducia di un gran principe: gli domandiamo scusa per aver tagliato questa voce. I limiti che ci siamo imposti non ci hanno permesso di stamparla per intero: avrebbe riempito quasi la metà di un volume.

Quanto agli argomenti di pura letteratura, si riconosceranno facilmente le fonti cui abbiamo attinto. Abbiamo cercato di unire l'utile al dilettevole, non avendo altro merito né altra parte in quest'opera che la scelta. Le persone di ogni ceto troveranno di che istruirsi divertendosi. Questo libro non esige una lettura conseguente; ma, in qualsiasi punto lo si apra, si trova di che riflettere. I libri più utili sono quelli dei quali una metà è fatta dagli stessi lettori: essi ampliano i pensieri dei quali viene loro presentato il germe; correggono ciò che sembra loro difettoso e rafforzano con le proprie riflessioni ciò che sembra loro debole.

Soltanto da persone illuminate può essere letto questo libro: l'uomo volgare non è fatto per simili conoscenze; la filosofia non sarà mai suo retaggio. Chi afferma che vi sono verità che devono essere nascoste al popolo non può in alcun modo allarmarsi; il popolo non legge affatto; lavora sei giorni la settimana e il settimo va al cabaret. In una parola, le opere di filosofia non son fatte che per i filosofi, e ogni uomo onesto deve cercare di essere filosofo, senza vantarsi di esserlo.

Concludiamo facendo le nostre umilissime scuse alle stimabili persone che ci hanno elargito il favore di alcune nuove voci, per non aver potuto utilizzarle come avremmo desiderato: sono arrivate troppo tardi. Non siamo per questo meno sensibili alla loro bontà e al loro lodevole zelo.

[Modificato da Claudio Cava 04/06/2007 12.01]






“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
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ABATE



«Dove andate, Signor abate?» ecc. Vi rendete conto che abate significa padre? Se voi lo diverrete, renderete un servizio allo Stato; e senza dubbio compirete l'opera più alta che possa compiere un uomo: nascerà da voi un essere che pensa. C'è qualcosa di divino in quest'azione.

Ma se siete il signor abate solo per il fatto che avete la chierica e portate un collarino e una mantellina, e ve ne state lì alla posta di qualche beneficio, il nome d'abate non lo meritate. Gli antichi monaci chiamarono così il superiore che essi eleggevano. L'abate era il loro padre spirituale. Quanti significati diversi assumono, col passare del tempo, gli stessi nomi! L'abate spirituale era un povero a capo di tanti altri poveri; ma i poveri padri spirituali giunsero poi ad avere duecento, quattrocentomila franchi di rendita; e ci sono, oggi, in Germania, dei poveri padri spirituali che posseggono un reggimento di guardie.

Un povero che ha fatto giuramento d'essere povero e che, di conseguenza, diventa sovrano! Già lo si è detto; e va ridetto mille volte: questo è intollerabile. Le leggi protestano contro questo abuso, la religione se ne indigna, e i veri poveri, nudi e affamati, assordano il cielo di lamenti davanti alla porta del signor abate.

Li sento rispondere, i signori abati d'Italia, di Germania, delle Fiandre, della Borgogna: «E perché non dovremmo accumulare anche noi ricchezze ed onori? Perché non dovremmo essere principi? I vescovi lo sono. Una volta erano poveri come noi, e poi si sono arricchiti, si sono innalzati; uno di loro è ora più in alto dei re; lasciate che li imitiamo per quel che ci è possibile.»

Avete ragione, signori; invadete la terra; essa appartiene ai forti e ai furbi che se ne impossessano. Avete approfittato dei tempi dell'ignoranza, della superstizione, della demenza per spogliarci delle nostre eredità e calpestarci; per ingrassarvi con le sostanze degli sventurati: tremate, chissà che non arrivi il giorno della ragione.



ABRAMO



Abramo è uno di quei nomi celebri in Asia minore e nell'Arabia, come Thoth fra gli egiziani, l'antico Zoroastro in Persia, Ercole in Grecia, Orfeo in Tracia, Odino presso i popoli del settentrione e tanti altri noti più per la loro fama che per una storia ben accertata. Parlo solo della storia profana, giacché, per la storia degli ebrei, nostri maestri e nostri nemici, in cui crediamo e che detestiamo, poiché la storia di questo popolo è stata manifestamente scritta dallo stesso Spirito Santo, noi nutriamo i sentimenti che dobbiamo nutrire. Qui ci rivolgiamo soltanto agli arabi; essi si gloriano di discendere da Abramo, attraverso Ismaele; credono che questo patriarca abbia fondato la Mecca e sia morto in questa città. Il fatto è che la stirpe d'Ismaele fu infinitamente più favorita da Dio di quella di Giacobbe. L'una e l'altra, per la verità, non hanno prodotto che dei ladri; ma i ladri arabi sono stati straordinariamente superiori ai ladri ebrei: i discendenti di Giacobbe conquistarono solo un minuscolo territorio, che poi perdettero; mentre i discendenti di Ismaele hanno conquistato una parte dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa, hanno fondato un impero più vasto di quello dei romani e hanno cacciato gli ebrei dalle loro caverne che chiamavano Terra promessa.

A voler giudicare le cose sulla sola base degli esempi delle nostre storie moderne, sembrerebbe piuttosto difficile che Abramo sia stato il padre di due popoli così diversi; c'è stato detto che era nato in Caldea, figlio di un povero vasaio che si guadagnava da vivere facendo dei piccoli idoli di terracotta. Non è molto verosimile che il figlio di un vasaio sia andato a fondare la Mecca trecento leghe più in là, sotto i tropici, affrontando deserti impraticabili. Se fu un conquistatore, si volse senza dubbio verso il bel paese dell'Assiria; e se non fu che un pover'uomo, come ci viene dipinto, non può aver fondato regni così lontani dalla sua terra.

Il Genesi narra che aveva settantacinque anni quando lasciò il paese di Aram, dopo la morte di suo padre Terah, il vasaio; ma sempre il Genesi narra anche che Terah, avendo generato Abramo all'età di settant'anni, visse fino a duecentocinque anni e che Abramo se ne andò via da Haran solo dopo la morte di suo padre. È chiaro, dunque, da quel che dice il Genesi stesso, che Abramo aveva centotrentacinque anni quando lasciò la Mesopotamia. Egli dunque lasciò un paese idolatra per andare in un altro paese idolatra chiamato Sichem, in Palestina. Perché proprio lì? Perché abbandonò le fertili rive dell'Eufrate per una regione così lontana, così sterile e pietrosa come quella di Sichem? La lingua caldea doveva essere assai diversa da quella di Sichem, che non era un paese di commerci. Sichem dista più di cento leghe dalla Caldea; per arrivarci bisogna attraversare dei deserti; ma Dio voleva che Abramo facesse questo viaggio, voleva mostrargli la terra che avrebbero dovuto occupare i suoi discendenti, molti secoli dopo di lui. L'intelligenza umana stenta a comprendere le ragioni di un tale viaggio.

Appena Abramo giunge nel piccolo paese montagnoso di Sichem, la carestia lo costringe a uscirne. Allora va in Egitto con sua moglie, a cercar di che vivere. Menfi dista duecento leghe da Sichem; è naturale che si vada a cercar grano tanto lontano, e in un paese di cui non si conosce affatto la lingua? Incredibili viaggi, intrapresi all'età di quasi centoquarant'anni.

Conduce a Menfi la moglie Sara, tanto più giovane di lui, quasi una bimba; non aveva che sessantacinque anni. E poiché era molto bella, egli si risolse a trar partito dalla sua bellezza: «Fingi d'esser mia sorella,» le disse, «affinché mi si faccia del bene in grazia tua.» Avrebbe dovuto dirle, ci pare: «Fingi d'essere mia figlia.» E così il re si innamorò della giovane Sara, e regalò al sedicente fratello tante pecore, buoi, asini, asine, cammelli, servi e serve, il che prova che l'Egitto d'allora era un regno molto potente e civile, e di conseguenza molto antico, in cui si ricompensavano munificamente i fratelli che venivano ad offrire le sorelle ai re di Menfi. La giovane Sara aveva novant'anni, secondo la Scrittura, quando Dio le promise che Abramo, che ne aveva allora centosessanta, le avrebbe regalato un bambino entro lo stesso anno.

Abramo, che adorava viaggiare, se ne andò nell'orribile deserto di Cades con la moglie incinta, sempre giovane e sempre leggiadra. Un re di quel deserto non mancò di innamorarsi di Sara, né più né meno di quanto se ne era innamorato il re d'Egitto. E il padre dei credenti ripeté la menzogna detta in Egitto; fece passare la moglie per sua sorella, e ricavò dall'affare altre pecore, buoi, servi e serve. Si può ben dire che quest'Abramo divenne ricchissimo grazie alla famiglia della moglie. I commentatori hanno messo insieme un numero incredibile di volumi per giustificare la condotta di Abramo, e per conciliare la cronologia; rinviamo dunque il lettore a questi commenti, tutti composti da spiriti sottili e raffinati, eccellenti metafisici, gente libera da pregiudizi e niente affatto pedante.

Del resto questo nome (Bram-Abram) era celebre in India e in Persia: molti dotti pretendono perfino ch'egli fosse lo stesso legislatore che i greci chiamarono Zoroastro. Altri asseriscono che fosse il Brahma degli indiani: il che però non è dimostrato.

Quello che sembra invece più che ragionevole a molti dotti è che quest'Abramo fosse caldeo o persiano: gli ebrei, in seguito, si vantarono di discendere da lui, come i franchi da Ettore e i bretoni da Tubal. È certo che la nazione ebraica fu una comunità nomade molto recente; che si insediò vicino alla Fenicia solo molto tardi; che era circondata da popoli antichi: ne adottò la lingua, e prese da loro perfino il nome d'Israele, che è caldeo, come attesta proprio un ebreo, Flavio Giuseppe. Sappiamo che prese dai babilonesi perfino il nome degli angeli; infine, che chiamò Dio, come avevano fatto i fenici, con i nomi di Elohim o Eloah, Adonài, Jehovah o Jao.

È probabile che gli ebrei abbiano appreso il nome di Abraham o Ibrahim dai babilonesi, perché l'antica religione di tutte le terre, dall'Eufrate fino all'Oxo, era chiamata Kish-Ibrahim, Milat- Ibrahim. Lo confermano tutte le ricerche fatte sul posto dallo studioso Hyde.

Gli ebrei fecero dunque con la storia e le antiche favole quel che i loro rigattieri fanno con gli abiti vecchi: li rivoltano e li vendono come nuovi al prezzo più alto possibile.

Ed è un singolare esempio della stupidità umana il fatto d'aver considerato per tanto tempo gli ebrei come il popolo che aveva insegnato tutto agli altri, mentre il loro stesso storico Giuseppe confessa il contrario.

È difficile scrutare nelle tenebre dell'antichità; ma è evidente che tutti i regni dell'Asia erano fiorentissimi prima che quell'orda di arabi chiamati ebrei possedesse un pezzetto di terra, avesse una città, delle leggi e una religione costituita. Quando perciò sappiamo di un antico rito, di una antica credenza stabilita in Egitto o nell'Asia, e insieme presso gli ebrei, è ben più che naturale pensare che quel piccolo popolo nuovo, incolto, rozzo, da sempre e per sempre ignorante in materia di arti belle, abbia copiato, quanto più poté, la nazione più antica, fiorente e industriosa.

È in conformità con questo principio che vanno giudicate la Giudea, la Biscaglia, la Cornovaglia, Bergamo, il paese d'Arlecchino ecc.: senza dubbio la trionfante Roma non imitò niente dalla Biscaglia, dalla Cornovaglia, né da Bergamo; e bisogna essere un grande ignorante o avere una gran faccia tosta per sostenere che gli ebrei insegnarono qualcosa al greci.

(Articolo tratto dal signor Fréret)



ADAMO



La pia signora Bourignon era sicura che Adamo fosse ermafrodito, come i primi uomini del divino Platone. Dio le aveva rivelato questo grande segreto. Ma io, che non ho avuto simili rivelazioni, non ne parlerò affatto. I rabbini ebrei hanno letto le opere di Adamo; sanno il nome del suo precettore e della sua seconda moglie; ma, poiché non ho letto questi libri del nostro primo padre, non ne farò parola. Certe dottissime teste vuote restano sbigottite quando, leggendo i Veda degli antichi brahmani, apprendono che il primo uomo fu creato in India ecc.; che si chiamava Adimo, che significa il generatore; e che sua moglie si chiamava Procriti, che significa la vita. Costoro asseriscono che la setta dei brahmani è incontestabilmente più antica di quella degli ebrei; che solo molto più tardi gli ebrei poterono scrivere in lingua cananea, perché fu solo molto più tardi che si stabilirono nel piccolo paese di Canaan; dicono che gli indiani furono sempre inventori e gli ebrei sempre imitatori; gli indiani sempre ricchi di ingegno e gli ebrei sempre rozzi; dicono che è ben difficile che Adamo, il quale era rosso e aveva i capelli, sia il padre dei negri, che son neri come l'inchiostro e sulla testa hanno della lana nera. Ma quante non ne dicono costoro? Io, per me, non dico niente: lascio queste ricerche al reverendo padre Berruyer, della compagnia di Gesù; egli è l'uomo più innocente che io abbia mai conosciuto. Hanno bruciato il suo libro come opera di un miscredente che vuol mettere in ridicolo la Bibbia; ma io posso assicurare che quel che ha scritto è assolutamente privo di malizia.

(Tratto da una lettera del cavaliere di R.)



AMICIZIA



È un tacito contratto fra due persone sensibili e virtuose. Dico «sensibili», perché un monaco, un solitario, possono non essere affatto insensibili, e tuttavia vivere senza conoscere l'amicizia. Dico «virtuose», perché i malvagi non possono avere che dei complici; i dissoluti, dei compagni di bagordi; le persone interessate, dei soci; i politici si circondano di partigiani faziosi; la massa degli sfaccendati ha delle conoscenze; i principi hanno attorno a loro dei cortigiani: solo gli uomini virtuosi hanno amici. Cetego era il complice di Catilina; e Mecenate, il cortigiano di Ottaviano; ma Cicerone era amico di Attico.

Cosa comporta questo contratto fra due anime sensibili e virtuose? Gli obblighi sono più o meno forti o deboli, a seconda del grado di sensibilità dei contraenti e il numero dei servizi resi ecc.

La passione dell'amicizia è stata più forte presso i greci e gli arabi che non da noi. I racconti che questi popoli hanno immaginato sull'amicizia sono ammirevoli; noi non ne abbiamo di simili, noi siamo un po' aridi in tutto.

L'amicizia, presso i greci, era oggetto di religione e di legislazione. I tebani avevano la legione degli amanti: magnifica legione! Certuni l'hanno scambiata per una legione di sodomiti; s'ingannano: hanno scambiato l'accidente per la sostanza. L'amicizia, presso i greci, era prescritta dalla legge e dalla religione; la pederastia era purtroppo tollerata dal costume; ma non dobbiamo imputare alla legge abusi vergognosi. Ne parleremo ancora.

AMORE



Amor omnibus idem. Qui bisogna ricorrere a ciò che è fisico; è la stoffa della natura, su cui l'immaginazione ha ricamato. Vuoi avere un'idea dell'amore? guarda i passeri del tuo giardino, osserva i colombi; contempla il toro che viene portato alla tua giovenca; guarda quel fiero cavallo che due stallieri conducono alla cavalla che lo attende placida, e solleva la coda per riceverlo; guarda come i suoi occhi scintillano; ascolta i suoi nitriti, osserva quei salti, quegli scambietti, quelle orecchie drizzate, quella bocca che s'apre con piccoli tremiti, quelle froge che si gonfiano, quel soffio ardente che ne esce, la criniera che si drizza e si agita, quel movimento imperioso con cui si lancia sull'oggetto che la natura gli ha destinato. Ma non esserne geloso e pensa ai vantaggi della specie umana; essi compensano, in amore, tutto quel che la natura ha largito agli animali: forza, bellezza, leggerezza, rapidità.

Ci sono anche animali che non conoscono il piacere. I pesci a scaglie son privati di questa dolcezza: la femmina depone sul fondo milioni di uova, e il maschio che le trova passa su di loro e le feconda col proprio seme, senza preoccuparsi di sapere a quale femmina appartengono.

La maggior parte degli animali che si accoppiano gustano il piacere con un solo senso; e appena quest'appetito è soddisfatto, tutto finisce. Nessun animale, all'infuori dell'uomo, conosce gli amplessi; tutto il tuo corpo è sensibile; soprattutto le tue labbra godono con una voluttà che niente stanca, e questo piacere appartiene solo alla nostra specie; infine tu puoi abbandonarti in qualsiasi momento all'amore, mentre gli animali hanno un tempo determinato.

Se rifletti su questi privilegi, ti verrà da dire col conte di Rochester: «L'amore in un paese di atei farebbe adorare la Divinità.»

Poiché gli uomini han ricevuto il dono di perfezionare tutto quel che la natura concede loro, hanno perfezionato anche l'amore. La pulizia, la cura di sé, rendendo più delicata la pelle, aumenta il piacere del tatto, mentre la cura della propria salute rende gli organi della voluttà più sensibili.

Tutti gli altri sentimenti entrano in quello dell'amore, come i metalli che si amalgamano con l'oro: l'amicizia, la stima, vengono in suo aiuto: le doti del corpo e della mente sono nuove catene.

Nam facit ipsa suis interdum foemina factis,

Morigerisque modis, et mundo corpore cultu,

Ut facile insuescat secum vir degere vitam.

(Lucrezio, De rerum natura, libro IV)

L'amor proprio, soprattutto, rafforza questi legami. Ci si congratula della propria scelta e mille illusioni adornano quest'opera, di cui la natura ha posto le fondamenta.

Ecco ciò che ti distingue dagli animali; ma se tu godi tanti piaceri che essi ignorano, quanti dolori, anche, di cui le bestie non hanno la minima idea! Quel che v'è d'orribile, per te, è che la natura, nei tre quarti della terra, ha avvelenato i piaceri dell'amore e le fonti della vita con una malattia spaventevole, alla quale soltanto l'uomo è soggetto, e che solo in lui infetta gli organi della generazione.

E non è che tale peste, come altre malattie, sia la conseguenza dei nostri eccessi. Non fu la dissolutezza a introdurla nel mondo. Le Frini, le Laidi, le Flore, le Messaline non ne furono affatto colpite; essa è nata nelle isole ove gli uomini vivevano nell'innocenza, e di là si è diffusa nel vecchio mondo.

Se mai si è potuta accusare la natura di disprezzare la sua opera, di contraddire i suoi disegni, di agire contro i suoi fini, è in tale occasione. È proprio questo il migliore dei mondi possibili? Ma come! se Cesare, Antonio, Ottaviano non furono colpiti da questa malattia, non era possibile che essa non facesse morire Francesco I? «No,» ci dicono, «le cose erano così preordinate per il meglio.» Voglio crederlo, ma è ben duro.







“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
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AMORE COSIDDETTO SOCRATICO



Com'è possibile che un vizio, distruttore del genere umano se fosse praticato da tutti, che un attentato, infame contro la natura, sia tuttavia così naturale? Sembra l'estremo grado della corruzione cosciente, eppure è condizione comune di quanti non hanno ancora il tempo d'essere corrotti. È penetrato in cuori inesperti che non hanno conosciuto ancora né l'ambizione, né la frode, né la sete di ricchezza; è la cieca gioventù che, per un istinto ancora confuso, precipita in questo disordine all'uscir dall'infanzia.

L'inclinazione dei due sessi l'uno per l'altro si manifesta molto presto; ma checché si sia detto delle donne africane o dell'Asia meridionale, tale inclinazione è generalmente più forte nell'uomo che nella donna; è una legge che la natura ha stabilito per tutti gli animali. È sempre il maschio che assale la femmina.

I giovani maschi della nostra specie, allevati insieme, sentendo quest'impulso che la natura comincia a manifestare in loro e non trovando l'oggetto naturale di tale istinto, ripiegano su quello che più gli somiglia. Spesso un giovinetto, per la freschezza della carnagione, lo splendore del colorito, la dolcezza degli occhi, somiglia per due o tre anni a una bella ragazza; se lo si ama, è perché la natura s'inganna; si rende omaggio al bel sesso, affezionandosi a chi ne ha le bellezze; e, quando l'età ha fatto svanire tale somiglianza, l'equivoco cessa.

Citraque juventam

Aetatis breve ver et primos carpere fiores.

(Ovidio, Metamorfosi, X, 84-85)

È abbastanza noto che questo equivoco della natura è molto più comune nei climi dolci che fra i ghiacci del settentrione, perché il sangue vi è più acceso e l'occasione più frequente: così quel che nel giovane Alcibiade sembra una pura debolezza, in un marinaio olandese o in un vivandiere moscovita è una disgustosa depravazione.

Non posso sopportare che si pretenda che i greci abbiano autorizzato questa licenza. Si cita il legislatore Solone, perché disse in due brutti versi:

Amerai un bel ragazzo

finché non gli cresca la barba.

Ma, in buonafede, Solone era legislatore quando scrisse questi due ridicoli versi? A quel tempo era giovane, e quando il dissoluto diventò saggio, non mise certo una simile infamia tra le leggi della sua repubblica; è come se accusassimo Teodoro di Beza di aver predicato la pederastia nella sua chiesa perché, nella sua giovinezza, scrisse versi per il giovane Candido, e disse:

Amplector hunc et illam.

Si travisano le parole di Plutarco, che nelle sue chiacchiere, nel Dialogo sull'amore, fa dire a un interlocutore che le donne non sono degne del vero amore; mentre un altro interlocutore sostiene la parte delle donne, come è giusto.

È certo, per quanto può esserlo la nostra conoscenza dell'antichità, che l'amore socratico non era affatto un amore infame: a trarre in inganno è stata la parola «amore»: i cosiddetti «amanti di un giovinetto» erano precisamente quello che sono fra noi i paggi dei nostri principi, quello che erano i damigelli d'onore: giovani addetti all'educazione di un giovinetto di nobile famiglia, compagni dei suoi studi e dei suoi esercizi militari: istituzione guerriera e sacra di cui si abusò, come accadde delle feste notturne e delle orge.

La legione degli amanti, istituita da Laio, era una legione invincibile di giovani guerrieri impegnati da un giuramento a dare la vita gli uni per gli altri: la disciplina antica non ebbe mai nulla di più bello.

Sesto Empirico e altri hanno un bel dire che la pederastia era raccomandata dalle leggi della Persia. Citino il testo della legge; mostrino il codice dei persiani; e anche se lo mostrassero, non lo crederei lo stesso: direi che non è vero, perché non è possibile. No, non è nella natura umana fare una legge che contraddice e oltraggia la natura, una legge che annienterebbe il genere umano, se fosse osservata alla lettera. Quanti hanno scambiato certe usanze vergognose e tollerate in un paese per le leggi di quel paese! Sesto Empirico, il quale dubitava di ogni cosa, avrebbe dovuto dubitare di tale giurisprudenza. Se vivesse ai tempi nostri e vedesse due o tre giovani gesuiti abusare di qualche loro allievo, avrebbe il diritto di dire che questo è permesso dalle Costituzioni di Ignazio di Loyola?

A Roma l'amore dei giovinetti era così comune, che nessuno pensava a punire una stupidaggine a cui tutti si lasciavano andare. Ottaviano Augusto, quell'assassino depravato e vile, che osò esiliare Ovidio, trovò bellissimo che Virgilio cantasse Alessi e che Orazio scrivesse piccole odi per Ligurino; ma l'antica legge Scantinia, che proibiva la pederastia, era sempre in vigore: l'imperatore Filippo la ripristinò e cacciò i ragazzi che facevano il mestiere. Insomma, non credo che ci sia stata nessuna nazione bene ordinata che abbia fatto leggi contro il buon costume.

AMOR PROPRIO



Uno straccione dei dintorni di Madrid chiedeva con gran dignità l'elemosina; un passante lo apostrofò: «Non vi vergognate di fare questo mestiere ignobile, mentre potreste lavorare?» «Signore,» rispose il mendicante, «io vi ho chiesto del denaro, non dei consigli»; poi gli voltò le spalle conservando tutta la sua dignità castigliana. Era uno straccione orgoglioso, questo signore, e la sua vanità veniva ferita per un nonnulla. Chiedeva l'elemosina per amor di se stesso e, sempre per amor di se stesso, non tollerava rimproveri.

Un missionario, viaggiando in India, incontrò un fachiro carico di catene, nudo come una scimmia, sdraiato bocconi, che si faceva frustare per i peccati dei suoi compatrioti, i quali gli gettavano qualche soldo. «Che rinuncia a se stesso!» diceva uno degli spettatori. «Rinuncia a me stesso?» ribatté il fachiro. «Sappi che io mi faccio frustare il deretano in questo mondo solo per fare altrettanto con voi nell'altro, quando voi sarete cavalli e io cavaliere.»

Quanti hanno detto che l'amore di sé è la base di tutti i nostri sentimenti e di tutte le nostre azioni hanno dunque avuto pienamente ragione, in India, in Spagna, e in tutta la terra abitabile: e come nessuno scrive per dimostrare agli uomini che hanno una faccia, non c'è bisogno di provar loro che hanno dell'amor proprio. Questo amor proprio è lo strumento della nostra conversazione; assomiglia allo strumento che ci serve a perpetuare la specie: ci è necessario, ci è caro, ci procura piacere, ma bisogna tenerlo nascosto.



ANGELO



Angelo, in greco, «inviato»; non si sarà molto più edotti in proposito quando si saprà che i persiani avevano dei peri, gli ebrei dei malakim, i greci i loro daimonoi.

Ma quel che forse ci istruirà di più sarà il sapere che una delle prime idee degli uomini fu sempre quella di porre, tra la Divinità e noi, degli esseri intermedi; sono questi dèmoni, questi geni che l'antichità inventò; l'uomo fece sempre gli dei a propria immagine. Come i principi comunicavano i loro ordini per mezzo di messaggeri, si pensò che anche la Divinità mandasse i suoi corrieri: Mercurio, Iride, erano dei corrieri, dei messi.

Gli ebrei, il solo popolo guidato dalla Divinità stessa, non diedero sulle prime nessun nome agli angeli che Dio si degnava di mandare loro; adoperarono i nomi che davano loro i caldei quando la nazione giudaica fu schiava in Babilonia; Michele e Gabriele sono nominati per la prima volta da Daniele, schiavo di quei popoli. L'ebreo Tobia, che viveva a Ninive, conobbe l'angelo Raffaele che viaggiò con suo figlio per aiutarlo a recuperare il denaro che gli doveva l'ebreo Gabaele.

Nelle leggi degli ebrei, ossia nel Levitico e nel Deuteronomio, non c'è il minimo accenno all'esistenza degli angeli, né tanto meno al loro culto; così i sadducei non credevano agli angeli.

Ma nelle storie degli ebrei se ne parla molto. Quegli angeli erano corporei; avevano ali sulla schiena, come i gentili avevano immaginato che Mercurio le avesse ai piedi; qualche volta nascondevano le ali sotto le vesti. E come non avrebbero avuto un corpo, dato che mangiavano e bevevano e gli abitanti di Sodoma tentarono di commettere il peccato di pederastia con gli angeli che andarono da Loth?

L'antica tradizione giudaica, secondo Ben Maimon, ammette dieci gradi o ordini di angeli: 1) i caios acodesh, puri, santi; 2) gli ofamin, rapidi; 3) gli oralim, forti; 4) i chasmalim, fiamme; 5) i serafim, scintille; 6) i malakim, angeli, messi, deputati; 7) gli elohim, iddii o giudici; 8) i ben elohim, figli degli iddii; 9) i cherubim, immagini; 10) gli ychim, gli animati.

La storia della caduta degli angeli non si trova nei libri di Mosè; la prima testimonianza che ne abbiamo è quella del profeta Isaia, il quale, apostrofando il re di Babilonia, esclamò: «Cosa è diventato l'esattore dei tributi? I pini e i cedri si rallegrano della sua caduta; come sei caduto dal cielo, o Hellel, stella del mattino?» Questo Hellel venne tradotto con la parola latina Lucifer; in seguito, si dette, in senso allegorico, il nome di Lucifero al principe degli angeli che fecero la guerra in cielo; e finalmente questo nome, che significa «fosforo» e «aurora», diventò il nome del diavolo.

La religione cristiana è fondata sulla caduta degli angeli. Quelli che si ribellarono furono precipitati dalle sfere celesti, dove risiedevano, nell'inferno, al centro della terra, e si mutarono in diavoli. Un diavolo tentò Eva sotto la figura del serpente, e dannò il genere umano. Gesù venne a riscattare il genere umano e a trionfare sul diavolo, che ancora ci tenta. Tuttavia questa tradizione fondamentale si trova solo nel libro apocrifo di Enoch, e per giunta in una forma del tutto diversa da quella della tradizione accettata.

Sant'Agostino, nella sua lettera CIX, non ha nessuna difficoltà ad attribuire ai buoni e ai cattivi angeli dei corpi sciolti ed agili. Papa Gregorio II ridusse a nove cori, a nove gerarchie o ordini i dieci cori degli angeli riconosciuti dagli ebrei; sono i serafini, i cherubini, i troni, le dominazioni, le virtù, le potenze, gli arcangeli e infine gli angeli che danno il nome alle altre otto gerarchie.

Gli ebrei avevano nel tempio due cherubini, ciascuno con due teste, una di bue e l'altra di aquila, e con sei ali. Oggi, quando li dipingiamo diamo loro l'immagine d'una testa volante, con due alucce sotto le orecchie; dipingiamo gli angeli e gli arcangeli in figura di giovinetti, con due ali sul dorso. Quanto ai troni e alle dominazioni, nessuno s'è ancora azzardato a dipingerli.

San Tommaso, alla questione CVIII, art. 2, dice che i troni sono tanto vicini a Dio quanto lo sono i cherubini e i serafini, perché è su di loro che Dio è assiso. Scoto ha contato mille milioni di angeli. Una volta passata in Grecia e a Roma l'antica mitologia dei buoni e dei cattivi geni, abbiamo consacrato questa credenza, ammettendo per ciascun uomo un angelo buono e uno cattivo, l'uno per assisterlo, l'altro per nuocergli, dalla nascita alla morte; ma ancora non si sa se questi buoni e cattivi angeli volino continuamente da questo a quel posto di guardia, o si diano il cambio con altri angeli.

Nessuno sa con precisione dove si trovano gli angeli, se nell'aria, nel vuoto, o nei pianeti: Dio non ha voluto che ne fossimo edotti.



ANIMA



Come sarebbe bello vedere la propria anima. «Conosci te stesso» è un ottimo precetto, ma sta soltanto a Dio il metterlo in pratica: chi altri se non Lui può conoscere la propria essenza?

Noi chiamiamo anima quello che anima. Non ne sappiamo di più, dati i limiti della nostra intelligenza. I tre quarti del genere umano sono chiusi nei propri limiti e non si preoccupano dell'essere pensante; l'altro quarto, invece, cerca; nessuno ha trovato, né troverà.

Povero filosofo, tu vedi una pianta che vegeta e dici «vegetazione», o anche «anima vegetativa». Noti che i corpi hanno e comunicano moto e dici «forza»; vedi il tuo cane da caccia imparare, guidato da te, il suo mestiere, e gridi «istinto», «anima sensitiva»; hai delle idee composte, e dici «spirito».

Ma, di grazia, che vuoi dire con queste parole? Sì, questo fiore vegeta, ma c'è un essere reale che si chiama «vegetazione»? Questo corpo ne spinge un altro, ma possiede in sé un essere distinto che si chiama «forza»? Questo cane ti porta una pernice, ma c'è un essere che si chiama «istinto»? Non rideresti di un loico (fosse pur stato il maestro di Alessandro) che ti dicesse: «Tutti gli animali vivono, e dunque c'è in essi un essere, un'energia sostanziale che è la vita?»

Se un tulipano potesse parlare e ti dicesse: «La mia vegetazione ed io siamo due esseri evidentemente congiunti insieme,» non daresti dell'imbecille a quel tulipano?

Vediamo anzitutto quel che sai, e di che cosa sei certo: che cammini coi piedi, digerisci con lo stomaco, senti con tutto il corpo e pensi con la testa. Vediamo se la tua sola ragione ha potuto illuminarti abbastanza da farti concludere, senza un intervento soprannaturale, che hai un'anima.

I primi filosofi, caldei o egiziani che fossero, dissero: «Bisogna che ci sia in noi qualcosa che produce i nostri pensieri; questo quid deve essere molto sottile: un soffio, un fuoco, un etere, una quintessenza, un lieve simulacro, un'entelechia, un numero, un'armonia.» Infine, secondo il divino Platone, si tratterebbe di un composto dell'«identico» e del «diverso». «Sono degli atomi che pensano in noi,» disse Epicuro, seguendo Democrito. Ma, amico mio, come può, un atomo, pensare? Confessa che non ne sai niente.

L'opinione cui senza dubbio dobbiamo attenerci è che l'anima è un ente immateriale; ma è certo che non riusciremo a concepire cosa sia questo ente immateriale. «No,» rispondono i sapienti, «ma sappiamo che la sua natura è quella di pensare.» «E come lo sapete?» «Lo sappiamo perché essa pensa.» O sapienti, temo che siate ignoranti quanto Epicuro! La natura di una pietra è quella di cadere, perché essa cade; ma io vi chiedo che cos'è che la fa cadere.

«Noi sappiamo,» proseguono costoro. «che una pietra non ha anima.» Bravi, la penso come voi. «Sappiamo che una negazione e un'affermazione non sono divisibili, non sono parte della materia.» Sono anch'io del vostro parere. Ma la materia (che d'altronde ci è ignota) possiede qualità che non sono materiali, che non sono divisibili: per esempio, la gravitazione verso un centro, che Dio le ha dato. Ora questa gravitazione non ha parti, non è divisibile. La forza motrice dei corpi non è un ente composto di parti. La vegetazione dei corpi organici, la loro vita, i loro istinti non sono neanch'essi enti a parte, enti divisibili: non potete tagliare in due la vegetazione di una rosa, la vita di un cavallo, l'istinto di un cane, come del resto non potete certo dividere in due una sensazione, una negazione, un'affermazione. Il vostro bell'argomento, tratto dall'indivisibilità del pensiero, non prova assolutamente niente.

Cos'è dunque che chiamate la vostra anima? Quale idea ne avete? La sola cosa che possiate ammettere in voi, senza rivelazione, è un potere, a voi ignoto, di sentire, di pensare.

E adesso ditemi, in buona fede: questo potere di sentire e di pensare è lo stesso che vi fa digerire e camminare? Voi rispondete di no perché il vostro intelletto avrebbe un bel dire al vostro stomaco: «Digerisci!» Quello, se è malato, non farà niente; e invano il vostro ente immateriale comanderà ai vostri piedi di camminare: se hanno la gotta, non muoveranno un passo.

I greci si resero conto che spesso il pensiero non ha niente a che fare con l'azione dei nostri organi; essi ammisero per questi organi un'anima animale, e, per i pensieri, un'anima più fine, più sottile, un $íï(tm)ò$.

Ma ecco che quest'anima del pensiero esercita, in mille occasioni, una giurisdizione su quella animale. L'anima pensante ordina alle mani di prendere, ed esse prendono. Essa però non dice al cuore di battere, al sangue di scorrere, al chilo di formarsi; tutto questo avviene senza di lei: ecco due anime negli impicci e ben poco padrone a casa loro.

Ora, quella prima anima animale sicuramente non esiste: essa non è altro che il moto dei nostri organi. Ma bada, uomo! Grazie alla tua debole ragione, non hai maggiori prove che l'altra anima esista. Puoi saperlo solo grazie alla fede. Sei nato, vivi, agisci, pensi, vegli, dormi senza sapere come. Dio t'ha dato la facoltà di pensare, come t'ha dato tutto il resto; e se non fosse venuto lui ad insegnarti, nel momento fissato dalla sua provvidenza, che tu hai un'anima immateriale e immortale, non ne avresti nessuna prova.

Vediamo adesso i bei sistemi che la tua filosofia ha fabbricato su queste anime.

Uno dice che l'anima dell'uomo è parte della sostanza; un altro, che essa è una parte del gran Tutto; un terzo, che è creata ab aeterno; un quarto, che è fatta e non creata; altri assicurano che Dio forma le anime via via che ce n'è bisogno, e che esse arrivano nel momento della copulazione. «Esse abitano negli animalucoli seminali,» grida l'uno. «No,» sostiene un altro, «vanno ad abitare nelle trombe di Falloppio.» «Avete torto tutti e due,» interviene un terzo, «l'anima attende sei settimane che il feto sia formato, e allora prende possesso della ghiandola pineale; ma se trova un falso germe, se ne torna via, in attesa di un'occasione migliore.» L'ultima opinione è che la sua dimora sia nel corpo calloso: tale è il posto che le assegna La Peyronie; bisogna essere proprio il primo chirurgo del re di Francia per disporre così della dimora dell'anima. Comunque, quel corpo calloso non ha fatto la stessa fortuna di quel chirurgo.

San Tommaso, nella questione LXXV e seguenti, dice che l'anima è una forma subsistante per se, che è tutta in tutto, che la sua essenza differisce dalla sua potenza; che vi sono tre anime vegetative, ossia la nutritiva, l'accrescitiva, la generativa; che la memoria delle cose spirituali è spirituale, e quella delle cose corporee è corporea; che l'anima ragionevole è una forma «immateriale quanto alle operazioni, materiale quanto all'essere». San Tommaso scrisse duemila pagine di tanta potenza e chiarezza: per questo fu detto l'Angelo della Scuola.

Non meno numerosi sono i sistemi sul modo in cui quest'anima sentirà, quando avrà lasciato il suo corpo mediante il quale sentiva: come udrà senza orecchi, odorerà senza naso, e toccherà senza mani; quale corpo riprenderà: quello che aveva a due anni o a ottanta; come sussisterà l'io, l'identità della stessa persona; come l'anima di un uomo rinscemito a quindici anni e morto scemo a settanta, riprenderà il filo delle idee ch'essa aveva al tempo della pubertà; grazie a quale gioco di prestigio un'anima cui sia stata amputata una gamba in Europa e abbia perduto un braccio in America, ritroverà gamba e braccio, i quali, trasformati in ortaggi, saranno nel frattempo passati nel sangue di qualche altro animale. Non la finiremmo più se volessimo render conto di tutte le stravaganze che questa povera anima umana ha inventato intorno a se stessa.

Quello che è assai strano è che nelle leggi del popolo di Dio non è detta una parola sulla spiritualità e l'immortalità dell'anima; niente nel Decalogo, niente nel Levitico, niente nel Deuteronomio.

È certissimo, è indubbio, che in nessun luogo Mosè allude, con gli ebrei, a ricompense o a castighi in una vita futura; che non parla mai dell'immortalità delle loro anime; che non fa mai sperare loro il cielo, non minaccia mai l'inferno: tutto è temporale.

Prima di morire, dice loro nel suo Deuteronomio:

«Se dopo aver avuto figli e figli dei vostri figli, voi prevaricherete, sarete sterminati dal paese, e ridotti a un piccolo numero tra le nazioni.

«Io sono un Dio geloso, che punisce l'iniquità dei padri fino alla terza e alla quarta generazione.

«Onorate il padre e la madre, e vi sarà permesso di vivere a lungo.

«Voi avrete di che mangiare, senza mancarne mai.

«Se servirete dei stranieri, sarete distrutti.

«Se mi obbedirete, avrete la pioggia in primavera; e in autunno, frumento, olio, vino e fieno per il vostro bestiame, perché mangiate e siate sazi.

«Ponete queste parole nel vostro cuore, nell'anima, nelle mani, tra gli occhi; scrivetele sulle vostre porte, e i vostri giorni saran moltiplicati.

«Fate quel che vi ordino, senza aggiungere né omettere niente.

«Se sorge un profeta che predica prodigi; se la sua predizione si avvera, e avverrà quel che ha predetto; se vi dice: "Andiamo, serviamo dei stranieri", mettetelo subito a morte, e tutto il popolo lo colpisca dopo di voi.

«Quando il Signore avrà dato in vostro potere le nazioni, sgozzate tutti senza risparmiare un sol uomo: non abbiate pietà di nessuno.

«Non mangiate uccelli impuri: l'aquila, il grifone, l'issione ecc.

«Non mangiate animali che ruminino e la cui unghia non sia spartita, come il cammello, la lepre, il porcospino ecc.

«Se osservate tutti i comandamenti, sarete benedetti nelle città e nelle campagne; i frutti delle vostre viscere, della vostra terra, del vostro bestiame saranno benedetti...

«Se non osservate tutti i comandamenti e tutte le cerimonie, sarete maledetti nelle città e nelle campagne... Soffrirete la carestia, la povertà; morirete di miseria, di freddo, di indigenza, di febbre; avrete la rogna, la lebbra, la fistola... Avrete ulcere nelle ginocchia e nella parte grassa delle gambe.

«Lo straniero vi presterà denaro a usura, e voi non potrete prestargli a usura... perché non avrete servito il Signore.

«E mangerete il frutto del vostro ventre, e la carne dei vostri figli e delle vostre figlie ecc.»

È evidente che in tutte queste promesse e in tutte queste minacce non c'è niente che non sia temporale, e che non si trova parola sull'immortalità dell'anima o la vita futura.

Molti illustri commentatori hanno creduto che Mosè fosse perfettamente al corrente di questi due grandi dogmi, e lo provano con le parole di Giacobbe, il quale, credendo che suo figlio fosse stato divorato dalle fiere, diceva nel suo dolore: «Scenderò con mio figlio nella fossa, in infernum, nell'inferno»; ossia, morirò, poiché mio figlio è morto.

Lo provano anche con passi di Isaia e di Ezechiele, ma gli ebrei cui si rivolgeva Mosè non potevano aver letto né Ezechiele né Isaia, i quali vennero solo molti secoli dopo.

È assolutamente inutile disputare sulle segrete convinzioni di Mosè. Il fatto è che, nelle leggi pubbliche, egli non ha mai parlato di una vita futura, che egli limita tutti i castighi e le ricompense al tempo presente. Se conosceva la vita futura, perché non palesò esplicitamente questo grande dogma? E se non la conosceva, qual era lo scopo della sua missione? È un quesito che si pongono molti grandi personaggi, i quali rispondono che il Signore di Mosè e di tutti gli uomini si riservava il diritto di spiegare a suo tempo, agli ebrei, una dottrina che non sarebbero stati in grado di comprendere fintanto che fossero restati nel deserto.

Se Mosè avesse annunziato il dogma dell'immortalità dell'anima, una grande scuola ebraica non l'avrebbe sempre combattuto; quella grande scuola dei sadducei non sarebbe mai stata ammessa nello Stato; i sadducei non avrebbero occupato le più alte cariche; non sarebbero stati tratti, dal loro seno, grandi sacerdoti.

Sembra che solo dopo la fondazione di Alessandria gli ebrei si siano divisi in tre grandi sette: i farisei, i sadducei e gli esseni. Lo storico Giuseppe, che era fariseo, ci fa sapere, nel libro XIII delle sue Antichità, che i farisei credevano nella metempsicosi; i sadducei credevano che l'anima morisse con il corpo; e gli esseni, dice sempre Giuseppe, la consideravano immortale: le anime, secondo loro, scendevano in forma aerea nei corpi, dalla più alta regione dell'aria; esse vi sono riportate da una violenta attrazione e, dopo la morte, quelle che sono appartenute ai buoni dimorano al di là dell'oceano, in un paese dove non c'è né caldo né freddo, né vento né pioggia. Le anime dei malvagi vanno invece in un paese dal clima completamente opposto. Tale era la teologia degli ebrei.

Colui che, solo, doveva istruire tutti gli uomini, condannò tutte e tre quelle sette; ma senza di lui noi non avremmo mai potuto saper niente della nostra anima, poiché i filosofi non ne ebbero mai un'idea precisa, e Mosè, il solo vero legislatore del mondo prima del nostro, Mosè, che parlava faccia a faccia con Dio, lasciò gli uomini in una profonda ignoranza su questo punto capitale. Dunque, solo da millesettecento anni si è certi dell'esistenza dell'anima e della sua immortalità.

Cicerone non aveva che dubbi; suo nipote e sua nipote poterono conoscere la verità dai primi galilei che vennero a Roma.

Ma prima di quel tempo e dopo, in tutto il resto della terra dove gli apostoli non giunsero, ognuno doveva dire alla propria anima: «Chi sei? Da dove vieni? Che fai? Dove vai? Tu sei un non so che, che pensa e sente, e quand'anche tu continuassi a sentire e a pensare per cento milioni di anni, non ne sapresti di più su te stessa, con i tuoi lumi, senza l'aiuto di un Dio.»

O uomo, quel Dio ti ha dato l'intelletto perché tu possa condurti bene, non per penetrare nell'essenza delle cose che ha creato.

È così che ha pensato Locke e, prima di Locke, Gassendi, e prima di Gassendi, un gran numero di saggi; ma noi abbiamo dei baccellieri che sanno tutto ciò che quei grandi uomini ignoravano.

Alcuni crudeli nemici della ragione hanno osato dar contro a queste verità riconosciute da tutti i saggi. Essi hanno spinto la malafede e l'impudenza fino a imputare agli autori di quest'opera la tesi che l'anima è materiale. Ma voi, persecutori dell'innocenza, sapete benissimo che abbiamo detto proprio il contrario.

Sapete bene che in fondo a pagina ..., ci sono queste precise parole contro Epicuro, Democrito e Lucrezio: «Amico mio, come può un atomo, pensare? Confessa che non ne sai niente.» Voi siete, evidentemente, dei calunniatori.

Nessuno sa cos'è l'essere chiamato «spirito», cui anche voi date questo nome materiale, che significa «soffio». Tutti i primi padri della Chiesa credettero che l'anima fosse corporea. È impossibile, a noi esseri limitati, sapere se la nostra intelligenza è una sostanza o una facoltà: noi non possiamo conoscere a fondo né l'essere esteso, né l'essere pensante, né il meccanismo del pensiero.

Noi vi gridiamo, con i rispettabili Gassendi e Locke, che, con tutta la nostra intelligenza, nulla sappiamo dei segreti del Creatore. Siete dunque degli dei, voi che sapete tutto? Vi ripetiamo che possiamo conoscere la natura e la destinazione dell'anima soltanto per mezzo della Rivelazione. Come? Questa non vi basta? È allora evidente che siete nemici di questa rivelazione che noi invochiamo, dato che perseguitate coloro che tutto si attendono da essa e non credono che in essa.

Noi - diciamo - ci rimettiamo alla parola di Dio e voi, nemici della ragione e di Dio, voi che bestemmiate l'una e l'altro, trattate l'umile dubbio e l'umile sottomissione del filosofo come il lupo tratta l'agnello nelle favole di Esopo; voi gli dite: «Tu hai detto male di me, l'anno passato, e io adesso mi bevo il tuo sangue.» Eccola, la vostra condotta. Avete perseguitato la saggezza perché avete creduto che il saggio vi disprezzasse. Avete capito ciò che vi meritavate, e vi siete voluti vendicare. Ma la filosofia non si vendica; se la ride, imperturbabile, dei vostri vani sforzi; essa illumina serena gli uomini, che volete abbrutire per renderli simili a voi.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
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ANTITRINITARI



Per far conoscere le loro idee, basterà dire che essi sostengono che nulla è più contrario alla retta ragione di quanto viene insegnato fra i cristiani intorno alla trinità delle persone in una sola essenza divina, delle quali la seconda è generata dalla prima, e la terza procede dalle altre due.

Che questa dottrina inintelligibile non si trova in alcun passo della Scrittura.

Che non è possibile produrne nessun passo che l'autorizzi, e al quale non si possa, senza minimamente scostarsi dallo spirito del testo, dare un significato più chiaro, più naturale, più conforme alle nozioni comuni e alle verità prime e immutabili.

Che il sostenere, come fanno i loro avversari, che nell'essenza divina ci sono più persone distinte, e che l'Eterno non è il solo e vero Dio, ma che bisogna aggiungergli il Figlio e lo Spirito Santo, significa introdurre nella Chiesa di Gesù Cristo l'errore più grossolano e pericoloso, perché così si favorisce apertamente il politeismo.

Che implica contraddizione dire che non c'è che un solo Dio, e tuttavia ci sono tre persone, ciascuna delle quali è veramente Dio.

Che questa distinzione, uno in essenza e trino nelle persone, non c'è mai stata nella Scrittura.

Che essa è manifestamente falsa, perché è certo che non ci sono meno essenze che persone, né meno persone che essenze.

Che le tre persone della Trinità sono o tre sostanze differenti, o accidenti dell'essenza divina, o questa essenza stessa senza distinzione.

Che nel primo caso si ammetterebbero tre dei.

Che nel secondo, facciamo un Dio composto di accidenti, adoriamo degli accidenti, e trasformiamo questi accidenti in persona.

Che nel terzo si divide inutilmente e senza fondamento un soggetto indivisibile e si distingue in tre quel che in sé non è distinto.

Che se diciamo che le tre persone non sono né sostanze diverse nell'essenza divina, né accidenti di tale essenza, faticheremo parecchio a persuaderci che esse siano qualcosa.

Che non bisogna credere che i trinitari più rigidi e decisi abbiano essi stessi qualche idea chiara del modo in cui le tre ipostasi sussistono in Dio, senza dividere la sua sostanza, e per conseguenza senza moltiplicarla.

Che lo stesso sant'Agostino, dopo aver avanzato su questo tema mille ragionamenti tanto falsi quanto tenebrosi, fu obbligato a confessare che, su di esso, nulla si poteva dire d'intelligibile.

Gli antitrinitari riferiscono, poi, anche un passo, in realtà è assai curioso, di quel Padre della Chiesa: «Quando ci si domanda che cosa sono i tre, il linguaggio degli uomini è insufficiente, e mancano i termini per esprimerlo: tuttavia si è detto tre persone non per dire qualcosa, ma perché bisogna parlare e non restare muti. «Dictum est tamen tres personae, non ut aliquid diceretur, sed ne taceretur» (De Trinit., libro V, cap. IX).

Che i teologi moderni non han chiarito meglio questo problema.

Che quando si domanda loro cosa intendono con questa parola «persona», essi non la spiegano se non dicendo che si tratta di una certa distinzione incomprensibile che fa sì che si distingua, in una natura unica per numero, un Padre, un Figlio e uno Spirito Santo.

Che la spiegazione che danno dei termini «generare» e «procedere» non è più soddisfacente, poiché si riduce a dire che questi termini designano certe relazioni incomprensibili fra le tre persone della Trinità.

Che da ciò si può concludere che lo stato della questione fra gli ortodossi e loro consiste nel sapere che ci sono in Dio tre distinzioni, di cui non si ha alcuna idea, e fra le quali ci sono certe relazioni su cui parimenti non si hanno idee.

Da tutto questo concludono che sarebbe più saggio attenersi all'autorità degli apostoli, i quali non nominarono mai la Trinità, e bandire per sempre dalla religione tutti i termini che non si trovano nella Scrittura, come Trinità, Persona, Essenza, Ipostasi, Unione ipostatica e personale, Incarnazione, Generazione, Processione, e tanti altri simili che, essendo assolutamente vuoti di senso, poiché non corrispondono a nessun essere reale rappresentabile, non possono suscitare nella nostra mente che delle nozioni vaghe, oscure e incomplete.

(Tratto in gran parte dalla voce «Unitaire» dell'Encyclopédie)

Aggiungiamo a quest'articolo quel che dice don Calmet nella sua dissertazione su quel passo dell'epistola di Giovanni l'evangelista: «Tre sono le verità che rendono testimonianza in terra: lo Spirito, l'acqua e il sangue; e questi tre sono uno.» Don Calmet riconosce che questi due passi non si trovano in nessuna Bibbia antica; e infatti sarebbe molto strano che san Giovanni avesse parlato della Trinità in una lettera e non ne avesse detto nemmeno una parola nel suo Vangelo. Non si trova traccia di questo dogma né nei vangeli canonici né in quelli apocrifi.

Tutte queste ragioni, e molte altre, potrebbero scusare gli antitrinitari, se i concili non avessero già deciso contro di loro. Ma siccome gli eretici non fanno nessun conto dei concili, non si sa più come fare per confonderli.



ANTROPOFAGI



Abbiamo parlato dell'amore. È duro passare dalla gente che si bacia a quella che si mangia. Ma è fin troppo vero che ci sono stati degli antropofagi; ne abbiamo trovati in America; forse ce ne sono ancora, e nell'antichità i ciclopi non erano i soli a cibarsi talvolta di carne umana. Giovenale riferisce che presso gli egiziani, quel popolo così saggio, così rinomato per le sue leggi, quel popolo così pio che adorava i coccodrilli e le cipolle, i tintiriti mangiarono uno dei loro nemici caduto nelle loro mani; e non fa questo racconto per sentito dire: fu un delitto commesso quasi sotto i suoi occhi; egli era allora in Egitto e a poca distanza da Tintiro. Giovenale cita, in quest'occasione, i guasconi e i saguntini, che si nutrirono un tempo delle carni dei loro compatrioti.

Nel 1725 quattro selvaggi del Mississippi vennero condotti a Fontainebleau, e io ebbi l'onore di intrattenerli; c'era fra loro una donna di laggiù, alla quale chiesi se avesse mai mangiato uomini: mi rispose con grande ingenuità che ne aveva mangiati. Le sembrai un po' scandalizzato, e lei si scusò dicendo che è meglio mangiare il proprio nemico morto che lasciarlo divorare dagli animali, e che i vincitori meritavano di avere la preferenza. Noi ammazziamo in battaglia, campale o meno, i nostri vicini e per la più misera ricompensa lavoriamo per fornire il pasto a corvi e vermi. Questo è l'orrore, questo il delitto; che importa, quando si è uccisi, se si viene mangiati da un soldato o da un corvo o da un cane?

Noi rispettiamo più i morti che i vivi. Dovremmo rispettare gli uni e gli altri. Le nazioni cosiddette civili hanno avuto ragione a non mettere allo spiedo i loro nemici vinti, perché, se fosse permesso mangiare i propri vicini, non tarderemmo a mangiare i nostri compatrioti; il che sarebbe un grosso inconveniente per le virtù sociali. Ma le nazioni civili non sempre sono state tali; tutti i popoli furono a lungo selvaggi; e nell'infinito numero di rivoluzioni che questo globo ha subito, il genere umano fu ora numeroso, ora assai scarso. È successo degli uomini quello che succede oggi degli elefanti, delle tigri e dei leoni, la cui specie è molto diminuita. Nei tempi in cui una contrada era poco popolata d'uomini, essi avevano poche arti, erano cacciatori. L'abitudine di nutrirsi di quel che avevano ucciso li portò facilmente a trattare i nemici al pari dei loro cervi o dei loro cinghiali. Fu la superstizione a far immolare vittime umane, e la necessità a farle mangiare.

Qual è il delitto più grande: riunirsi piamente per piantare un coltello nel cuore di una giovinetta ornata di bende, in onore della Divinità, o mangiare un soldataccio ucciso per caso?

Tuttavia abbiamo molti più esempi di giovinette e giovani sacrificati che non di giovinette e giovani mangiati: quasi tutti i popoli conosciuti ne sacrificarono. Ne immolarono anche gli ebrei: questo si chiamava l'«anatema»: era un vero e proprio sacrificio, e nel ventinovesimo capitolo del Levitico è prescritto di non risparmiare le anime viventi che siano state consacrate; ma in nessun luogo è prescritto di mangiarle, lo si minaccia soltanto; e Mosè, come abbiamo visto, dice agli ebrei che, se non osserveranno le sue cerimonie, non solamente avranno la rogna, ma le madri mangeranno i propri figli. È vero che ai tempi d'Ezechiele i giudei dovevano avere l'usanza di mangiare carne umana, perché egli predice, nel capitolo XXXIX, che Dio farà loro mangiare non solo i cavalli dei loro nemici, ma anche i cavalieri e i loro guerrieri. Questo è certo. E, d'altra parte, perché gli ebrei non avrebbero dovuto essere antropofagi? Sarebbe stata la sola cosa che mancava al popolo di Dio per essere il più abominevole popolo della terra.

Ho letto in alcuni aneddoti della storia d'Inghilterra dei tempi di Crornwell che una candelaia di Dublino vendeva ottime candele fatte con il grasso degli inglesi. Qualche tempo dopo uno dei suoi clienti si lamentò con lei perché le sue candele non erano più così buone. «Ahimè!» rispose quella, «il fatto è che questo mese ci sono venuti a mancare gli inglesi.» Io mi domando chi era più colpevole: se quelli che sgozzavano gli inglesi o questa donna che con il loro grasso faceva candele.



API



Il bue Api era adorato a Menfi come dio, come simbolo o come bue? C'è da credere che i fanatici vedessero in lui un dio, i saggi un semplice simbolo e che il popolo ignorante adorasse il bue. Fece bene Cambise, quando, conquistato l'Egitto, l'uccise di sua mano? E perché no? Fece così vedere agli imbecilli che si poteva mettere il loro dio allo spiedo, senza che la natura si scatenasse a vendicare tale sacrilegio. Gli egiziani sono stati molto celebrati. Io non conosco popolo più spregevole; deve esserci sempre stato nel loro carattere e nel loro governo un vizio radicale che ne ha fatti sempre dei vili schiavi. Ammetto che in tempi a noi quasi ignoti essi abbiano conquistato la terra; ma, nei tempi storici, essi furono soggiogati da tutti coloro che se ne vollero prendere la briga: dagli assiri, dai persi, dai greci, dai romani, dagli arabi, dai mamelucchi, dai turchi, da quasi tutti insomma, meno che dai nostri crociati, giacché questi erano più malaccorti di quanto gli egiziani fossero vili. Fu la milizia dei mamelucchi a battere i francesi. In questa nazione non ci sono forse che due cose passabili: la prima, che coloro che adoravano un bue non vollero mai obbligare quelli che adoravano una scimmia a cambiare religione; la seconda, che hanno sempre covato le uova di gallina nei forni.

Si vantano le loro piramidi, ma sono monumenti di un popolo di schiavi. Certo fu necessario farvi lavorare l'intera nazione: altrimenti non si sarebbe mai riusciti ad innalzare quelle rozze moli. E a che servivano, poi? A conservarvi in una celletta la mummia di qualche principe o governatore o intendente, che la sua anima avrebbe fatto rivivere dopo mille anni. Ma, se speravano in questa resurrezione dei corpi, perché togliergli il cervello prima d'imbalsamarli? Dovevan risuscitare senza cervello, gli egiziani?



APOCALISSE



Giustino martire, che scriveva verso l'anno 170 della nostra era, è il primo che abbia parlato dell'Apocalisse; egli l'attribuisce all'apostolo Giovanni, l'evangelista: nel suo dialogo con Trifone, questo ebreo gli domanda se non crede che Gerusalemme debba, un giorno, essere ricostruita.

Giustino risponde che lo crede, insieme a tutti i cristiani che pensano rettamente. «Ci fu tra noi, un certo personaggio chiamato Giovanni, uno dei dodici apostoli di Gesù; egli predisse che i fedeli passeranno mille anni in Gerusalemme.» Questa, del regno di mille anni, fu un'opinione a lungo accreditata fra i cristiani. Tale periodo di tempo era in gran credito anche fra i gentili. Le anime degli egiziani riprendevano i loro corpi dopo mille anni; le anime del purgatorio, in Virgilio, venivano tormentate per lo stesso spazio di tempo, et mille per annos. La nuova Gerusalemme millenaria doveva avere dodici porte, in memoria dei dodici apostoli; la sua forma doveva essere quadrata; la sua lunghezza, la sua larghezza e la sua altezza dovevano essere di dodicimila stadi, ossia di cinquecento leghe, di modo che le case dovevano avere anch'esse un'altezza di cinquecento leghe. Sarebbe stato piuttosto scomodo abitare all'ultimo piano; ma, che volete, così dice l'Apocalisse nel capitolo XXI.

Se Giustino fu il primo ad attribuire l'Apocalisse a san Giovanni, taluni hanno rifiutato la sua testimonianza, perché in quello stesso dialogo con l'ebreo Trifone, Giustino dice che secondo il racconto degli apostoli, Gesù Cristo scendendo nel Giordano, ne fece ribollire le acque e le infiammò: il che però non si ritrova in nessuno scritto degli apostoli.

Lo stesso san Giustino cita fiduciosamente gli oracoli delle Sibille; in più, pretende di aver visto i resti delle celle dove, nel faro d'Egitto, furono rinchiusi i settantadue interpreti, ai tempi di Erode. La testimonianza di uno che ebbe la sventura di vedere quelle celle sembra indicare che l'autore dovette esservi rinchiuso.

Sant'Ireneo, che viene dopo, e che credeva anche lui nel regno di mille anni, dice di aver saputo da un vegliardo che l'autore dell'Apocalisse era san Giovanni. Ma a sant'Ireneo fu rimproverato di aver scritto che non ci devono essere più di quattro Vangeli, perché non ci sono solo che quattro parti del mondo e quattro punti cardinali, e perché Ezechiele non vide che quattro animali. Egli chiama questo ragionamento una «dimostrazione». Bisogna ammettere che il modo con cui Ireneo dimostra equivale a quello con cui Giustino ha veduto.

Clemente d'Alessandria, nei suoi Electa, parla soltanto di un'Apocalisse di san Pietro, di cui si faceva grandissimo conto. Tertulliano, uno dei più accesi sostenitori del regno di mille anni, non solo assicura che san Giovanni predisse questa resurrezione e questo regno di mille anni della città di Gerusalemme, ma pretende che questa Gerusalemme cominciava già a formarsi nell'aria; che tutti i cristiani della Palestina, e anche i pagani, l'avevan vista quaranta giorni di fila, ad ogni finir della notte; disgraziatamente la città dileguava, appena spuntava il giorno.

Origene, nella sua prefazione al Vangelo di san Giovanni, e nelle sue Omelie, cita gli oracoli dell'Apocalisse; e cita egualmente gli oracoli delle Sibille. Ma san Dionigi di Alessandria, che scriveva verso la metà del III secolo, dice, in uno dei suoi frammenti conservati da Eusebio, che quasi tutti i dottori respingevano l'Apocalisse come un libro del tutto privo di senso; che questo libro non è stato affatto scritto da san Giovanni ma da un tal Cerinto, il quale si era servito di un gran nome per dare maggior peso alle sue fantasie.

Il concilio di Laodicea, tenuto nel 360, non comprese affatto l'Apocalisse fra i libri canonici. È ben curioso che Laodicea, una delle chiese cui l'Apocalisse si rivolgeva, respingesse un tesoro ad essa destinato; e che il vescovo di Efeso, presente al concilio, respingesse anche lui questo libro di san Giovanni, sepolto in Efeso.

Era visibile a tutti che san Giovanni si rivoltava di continuo nella sua fossa, facendo di continuo sollevare e abbassare la terra. Pure, gli stessi personaggi che erano sicuri che san Giovanni non fosse morto, erano altrettanto sicuri che egli non aveva scritto l'Apocalisse. Ma quelli che credevano nel regno di mille anni furono inflessibili nella loro opinione. Sulpicio Severo, nella sua Storia sacra, libro IX, tratta da empi e insensati coloro che non riconoscevano l'Apocalisse. E infine, dopo molti dubbi, dopo opposizioni perpetuatesi di concilio in concilio, l'opinione di Sulpicio Severo prevalse. Chiarita la questione, la Chiesa decise che l'Apocalisse è incontestabilmente di san Giovanni: decisione inappellabile.

Ogni confessione cristiana s'è attribuita le profezie contenute in questo libro: gli inglesi vi hanno trovato le rivoluzioni della Gran Bretagna; i luterani, i disordini della Germania; i riformati di Francia, il regno di Carlo IX e la reggenza di Caterina de' Medici: e tutti hanno egualmente ragione. Bossuet e Newton commentarono entrambi l'Apocalisse; ma, tutto sommato, le eloquenti declamazioni dell'uno e le sublimi scoperte dell'altro han fatto loro più onore che non quei commentari.



ARIO



Ecco un problema incomprensibile che ha messo alla prova, per più di sedici anni, la curiosità, la sottigliezza sofistica, l'acredine, lo spirito d'intrigo, la bramosia del dominio, il furore di persecuzione, il fanatismo cieco e sanguinario, la barbara credulità, e che ha provocato più orrori che non l'ambizione dei principi, la quale ne ha pur provocati tantissimi. Gesù è il Verbo? E se è il Verbo, è emanato da Dio nel tempo o prima del tempo? E se è emanato da Dio, è coeterno e consustanziale con lui, o è di una sostanza simile? È distinto da lui o no? È creato o generato? Può generare a sua volta? Ha la paternità o la virtù produttiva senza paternità? E lo Spirito Santo, è creato o generato, o prodotto o procedente dal Padre o procedente dal Figlio, o procedente da tutti e due? Può generare, può produrre? E la sua ipostasi è consustanziale con l'ipostasi del Padre e del Figlio? E in qual modo, avendo precisamente la stessa natura e la stessa essenza del Padre e del Figlio, può non fare le stesse cose di quelle due persone, che sono lui stesso?

Io non ci capisco assolutamente niente; nessuno ci ha mai capito niente: e questa è la ragione per la quale ci si è scannati.

Si sofisticò, si disquisì, ci si odiò, ci si scomunicò fra cristiani per qualcuno di questi dogmi inaccessibili all'intelletto umano, prima dei tempi d'Ario e d'Atanasio. I greci d'Egitto erano gente assai abile, capace di spaccare un capello in quattro; ma questa volta lo spaccarono soltanto in tre. Alessandro, vescovo di Alessandria, ritenne di dover predicare che, essendo Dio necessariamente individuale, semplice, una monade in tutto il rigore della parola, questa monade è trina.

Il prete Arios o Arius, che noi chiamiamo Ario, restò scandalizzato dalla monade di Alessandro; egli spiega la cosa in modo diverso; ragiona, in parte, come il prete Sabellio, che aveva ragionato a sua volta come il frigio Prassea, grande loico. Alessandro riunisce in fretta un piccolo concilio di gente della sua opinione, e scomunica il prete Ario. Eusebio, vescovo di Nicomedia, prende le difese di Ario: ecco così tutta la Chiesa in fiamme.

L'imperatore Costantino era uno scellerato, lo ammetto, un parricida che aveva soffocato la moglie in un bagno, sgozzato il figlio, assassinato il suocero, il cognato e il nipote, non lo nego; un uomo gonfio d'orgoglio e immerso nei piaceri, lo concedo; un odioso tiranno, come i suoi figli, transeat; ma non era privo di buon senso. Non si arriva all'impero, non si sottomettono tutti i rivali se non si sa ragionare.

Quando vide accendersi quella guerra civile di cervelli scolastici egli inviò, alle due parti belligeranti, il celebre vescovo Osio con lettere dissuasorie: «Siete dei gran pazzi,» dice loro senza ambagi nella sua lettera, «a litigare per cose che non capite. È indegno della gravità dei vostri ministeri fare tanto chiasso per una questione così poco importante.»

Per «questione così poco importante» Costantino non intendeva alludere al tema della Divinità, ma al modo incomprensibile con cui ci si sforzava di spiegarne la natura. Il patriarca arabo che scrisse la Storia della Chiesa d'Alessandria fa parlare così Osio, mentre presenta la lettera dell'imperatore:

«Fratelli miei, il cristianesimo comincia appena a godere della pace, e voi volete travolgerlo in una eterna discordia. L'imperatore ha fin troppa ragione di dirvi che voi litigate per una questione "così poco importante". Certo, se l'oggetto della disputa fosse essenziale, Gesù Cristo, che tutti riconosciamo per nostro legislatore, ne avrebbe parlato: Dio non avrebbe mandato suo figlio sulla terra per non farci conoscere il nostro catechismo. Tutto quel che non ci ha detto in modo esplicito è opera degli uomini, e l'errore è il retaggio. Gesù vi ha comandato di amarvi, e voi cominciate col disobbedirgli odiandovi, e suscitando la discordia nell'impero. È solo l'orgoglio che genera le dispute, e Gesù, vostro signore, vi ha comandato d'essere umili. Nessuno di voi può sapere se Gesù fu creato o generato. E che v'importa della sua natura, purché la vostra sia d'essere giusti e ragionevoli? Che cos'ha di comune una vana scienza di parole con la morale che deve guidare le vostre azioni? Voi sovraccaricate la dottrina di misteri: voi che siete stati creati per confermare la religione con la virtù. Volete che la religione cristiana sia soltanto un ammasso di sofismi? È per questo che il Cristo è venuto sulla terra? Finitela di disputare: adorate, edificate, umiliatevi, nutrite i poveri, placate le discordie nelle famiglie, invece di scandalizzare tutto l'impero con le vostre discordie.»

Osio parlava a dei cocciuti. Si riunì il concilio di Nicea, e nell'impero romano ci fu una guerra civile di trecento anni. Quella guerra ne provocò altre, e di secolo in secolo, fino ai giorni nostri, ci si è perseguitati a vicenda.








“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
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ATEO, ATEISMO



I

In passato, chiunque possedesse un segreto in un'arte correva il rischio d'esser considerato uno stregone; ogni nuova setta era accusata di sgozzare i bambini nei suoi misteri; e qualsiasi filosofo non osservasse alla lettera il gergo delle scuole era accusato d'ateismo dai fanatici e dai cialtroni e condannato dagli sciocchi.

Anassagora osa pretendere che a guidare il sole non è Apollo dall'alto di una quadriglia? Lo chiamano ateo, ed è costretto a fuggire.

Aristotele viene accusato d'ateismo da un sacerdote e, non potendo far condannare il suo accusatore, si ritira a Calcide. Ma la morte di Socrate è quanto la storia della Grecia ha di più odioso.

Aristofane (quell'uomo che i commentatori ammirano perché era greco, senza pensare che era greco anche Socrate), Aristofane fu il primo che abituò gli ateniesi a considerare Socrate un ateo.

Da noi questo poeta comico, che non è né comico né poeta, non sarebbe stato ammesso a rappresentar farse nemmeno alla fiera di Saint-Laurent; mi sembra molto più volgare e spregevole di quanto non lo dipinga Plutarco. Ecco ciò che il saggio Plutarco dice di questo buffone: «Il linguaggio di Aristofane è quello di un miserabile ciarlatano: tutto battute oscene e ributtanti; non è nemmeno divertente per il volgo, ed è insopportabile per l'uomo di giudizio e d'onore; la sua arroganza è intollerabile, e la sua malignità detestata dalla gente perbene.»

Questo è dunque, sia detto di passata, il guitto che madame Dacier, ammiratrice di Socrate, non si vergogna di ammirare; è questo l'uomo che preparò di lontano il veleno con cui giudici infami fecero morire l'uomo più virtuoso della Grecia.

I conciapelli, i calzolai e le sarte di Atene applaudirono una farsa in cui si rappresentava Socrate che, sollevato in aria dentro un paniere, annunciava che non c'era nessun dio e si vantava d'aver rubato un mantello insegnando filosofia. Un popolo intero, il cui cattivo governo autorizzava licenze tanto infami, si meritava proprio quel che gli è accaduto, di finire schiavo dei romani, e di esserlo oggi dei turchi.

Saltiamo tutto il tempo che intercorre tra la repubblica romana e noi. I romani, assai più saggi dei greci, non hanno mai perseguitato nessun filosofo per le sue idee. Non fu così presso i popoli barbari succeduti all'impero romano. Non appena l'imperatore Federico II si mise a disputare con i papi, lo si accusò di essere ateo, e per di più autore, insieme al suo cancelliere Pier delle Vigne, del libro I tre impostori.

Il nostro gran cancelliere dell'Hospital si dichiara contro le persecuzioni, ed ecco che subito lo accusano di ateismo. «Homo doctus, sed verus atheos.» Un gesuita tanto al disotto di Aristofane quanto Aristofane è al disotto di Omero, un disgraziato il cui nome è diventato ridicolo persino tra i fanatici, in breve il gesuita Garasse, scopre ovunque degli «ateisti»: così chiama tutti coloro contro i quali si scatena. Garasse chiama «ateista» Teodoro di Beza; è lui che ha indotto in errore la gente su Vanini.

La misera fine di Vanini non ci muove a sdegno e pietà come quella di Socrate, perché Vanini non era che un pedante forestiero privo di meriti; ma non era affatto un ateo, come si è voluto far credere; anzi, era esattamente il contrario. Era un povero prete napoletano, predicatore e teologo di professione, portato a disputare all'eccesso sulle quiddità e sugli universali, «et utrum chimera bombinans in vacuo possit comedere secundas intentiones», ma nel quale non c'era nessuna tendenza all'ateismo. Il suo concetto di Dio si ispirava alla teologia più sana e accreditata: «Dio è principio e fine di se stesso, padre dell'una e dell'altra cosa, e niente affatto bisognoso né dell'una né dell'altra; eterno senza essere nel tempo, presente dappertutto, senza essere in nessun luogo. Non c'è per lui né passato né futuro; è dappertutto e fuori di tutto, tutto governa, tutto ha creato, immutabile e indivisibile; il suo potere è la sua volontà ecc.»

Vanini ambiva a rinnovare quella bella intuizione di Platone, accolta poi da Averroé, che Dio avrebbe creato una catena di esseri, dal più piccolo al più grande, il cui ultimo anello sarebbe congiunto al suo trono eterno; idea, in verità più sublime che vera, ma tanto lontana dall'ateismo quanto l'essere dal nulla.

Egli si mise a viaggiare per far fortuna e disputare; ma disgraziatamente il disputare è la via opposta a quella del fare fortuna; ci si fa tanti nemici mortali quanti sono i sapienti o i pedanti contro i quali si disputa. Ecco la fonte delle disgrazie di Vanini: il suo ardore e la sua rudezza nel disputare gli attirarono l'odio di alcuni teologi; ed essendo venuto a lite con un certo Francon o Franconi, costui, amico dei suoi nemici, non mancò di accusarlo d'essere ateo e di insegnare l'ateismo.

Questo Francon o Franconi, con l'appoggio di qualche testimone, ebbe la barbarie di sostenere, in giudizio, l'accusa. Vanini, sul banco degli imputati, interrogato su quel che pensasse dell'esistenza di Dio, rispose che adorava, con la Chiesa, un Dio in tre persone. Raccolta da terra una pagliuzza, disse: «Basta questa festuca a provare che esiste un creatore.» E pronunciò un bellissimo discorso sulla vegetazione e sul moto e sulla necessità di un Essere supremo, senza il quale non ci sarebbe né moto né vegetazione.

Il presidente Grammont, che si trovava allora a Tolosa, riferisce questo discorso nella sua Storia di Francia, oggi così dimenticata; e questo stesso Grammont, per un preconcetto inconcepibile, osa dire che Vanini disse tutto ciò «per vanità o per paura, piuttosto che per intima convinzione».

Su che cosa si può fondare questo giudizio temerario e atroce del presidente Grammont? E evidente che, dopo la sua risposta, Vanini doveva venir assolto dall'accusa di ateismo. Ma che accadde, invece? Questo disgraziato prete straniero si occupava anche di medicina: si trovò un grosso rospo vivo, che conservava in casa sua in un vaso pieno d'acqua; e così non si mancò di accusarlo di stregoneria. Si sostenne che quel rospo era il dio che adorava; si attribuì un significato empio a molti passaggi dei suoi libri - la qual cosa è assai facile e comune - scambiando le obiezioni per affermazioni e interpretando malignamente qualche frase ambigua, avvelenando qualche espressione innocente. Infine, la fazione che lo perseguitava strappò ai giudici la sentenza che condannò l'infelice a morte.

Per giustificare questa morte bisognava accusare il disgraziato dei più orrendi crimini. Il minimo e minimissimo Mersenne spinse la demenza fino a far stampare che Vanini «era partito da Napoli con dodici dei suoi apostoli, per andare a convertire tutte le nazioni all'ateismo». Che miseria! E come avrebbe potuto avere, un povero prete, dodici persone alle sue dipendenze? Come avrebbe potuto convincere dodici napoletani a viaggiare insieme a lui con grande spesa per recarsi a diffondere dappertutto quell'abominevole e rivoltante dottrina, a rischio della vita? Un re sarebbe abbastanza potente da pagare dodici predicatori d'ateismo? Nessuno, prima del padre Mersenne, aveva mai detto una simile assurdità. Ma, dopo di lui, la si è ripetuta, se ne appestarono i giornali, i dizionari storici; e la gente, che ama le cose incredibili, ha creduto ad occhi chiusi a questa favola.

Lo stesso Bayle, nelle sue Oeuvres diverses, parla di Vanini come di un ateo: si serve di questo esempio per sostenere il suo paradosso «che una società d'atei può sussistere». Egli assicura che Vanini era un uomo di ottimi costumi, e che fu il martire della propria opinione filosofica. Ma si inganna su entrambi i punti; il prete Vanini ci confessa nei suoi Dialoghi, fatti a imitazione di Erasmo, di aver avuto un'amante di nome Isabella. Egli era libero nella sua condotta, come nei suoi scritti, ma non era ateo.

Un secolo dopo la sua morte, il dotto La Croze e colui che prese il nome di Filalete, tentarono di giustificarlo; ma siccome nessuno si interessa della memoria di un disgraziato napoletano, pessimo scrittore, quasi nessuno ha letto quelle apologie.

Il gesuita Hardouin, più dotto di Garasse, e non meno temerario, accusa di ateismo, nel suo libro Athei detecti, uomini come Descartes, Arnauld, Pascal, Nicole, Malebranche: fortunatamente, costoro non subirono la stessa sorte di Vanini.

Passo al problema morale agitato da Bayle, e cioè se una società d'atei possa sussistere. Notiamo prima di tutto, a questo punto, in quali enormi contraddizioni gli uomini possano incorrere disputando in proposito: coloro che sono insorti con maggiore veemenza contro l'opinione di Bayle, che hanno negato con le più aspre ingiurie la possibilità di una società d'atei, hanno poi sostenuto con altrettanta decisione che l'ateismo è la religione di governo in Cina.

Certo han preso un bell'abbaglio riguardo al governo cinese; bastava che leggessero gli editti degli imperatori di questo immenso paese, e avrebbero visto che quegli editti sono dei sermoni, e che dovunque si parla dell'Essere supremo, governatore, vendicatore e remuneratore.

Ma al tempo stesso non si sono meno ingannati sull'impossibilità di una società di atei, e non so come Bayle abbia potuto non ricordarsi di un esempio sbalorditivo che avrebbe potuto rendere vittoriosa la sua causa.

Per quale motivo sembra impossibile una società di atei? Perché si reputa impossibile che uomini che non abbiano freni non potrebbero mai vivere insieme; che niente possono le leggi contro i delitti segreti; che è indispensabile un Dio vendicatore che punisca in questo o nell'altro mondo i malvagi sfuggiti alla giustizia umana.

È vero che le leggi di Mosè non parlavano affatto di una vita futura, non minacciavano pene dopo la morte, non insegnavano ai primi ebrei l'immortalità dell'anima; però gli ebrei, lungi dall'essere atei, lungi dal credere di potersi sottrarre alla vendetta divina, erano gli uomini più religiosi della terra. Non solo credevano all'esistenza di un Dio eterno ma lo credevano sempre presente tra loro; tremavano d'essere puniti in loro stessi, nelle loro mogli, nei loro figli, nei loro discendenti, fino alla quarta generazione, e questo freno era potentissimo.

Ma presso i gentili molte sette non avevano alcun freno; gli scettici dubitavano di tutto; gli accademici sospendevano il giudizio su tutto; gli epicurei erano persuasi che la divinità non potesse immischiarsi nelle faccende degli uomini e, in fondo, non ammettevano alcuna divinità. Erano convinti che l'anima non è una sostanza ma una facoltà che nasce e muore con il corpo: di conseguenza, non avevano altro giogo che quello della morale e dell'onore. I senatori e i cavalieri romani erano autentici atei, perché gli dei non esistevano per uomini che non temevano né speravano niente da loro. Il senato romano era dunque realmente un'assemblea di atei al tempo di Cesare e di Cicerone.

Questo grande oratore, nella sua arringa in difesa di Cluenzio, dice a tutto il senato riunito: «Che male gli fa la morte? Noi respingiamo tutte le assurde favole sugli Inferi. Che cosa dunque gli ha tolto la morte? Nient'altro che il sentimento dei dolori.»

E Cesare, l'amico di Catilina, volendo salvare contro lo stesso Cicerone la vita del suo amico, non gli obietta che far morire un criminale non è punirlo, che la morte non è niente, è soltanto la fine dei nostri mali, è un momento più felice che fatale? E Cicerone e tutto il senato non si arrendono forse a queste ragioni? I vincitori e i legislatori dell'universo conosciuto formavano dunque, in modo evidente, una società d'uomini che non temevano niente dagli dei, che erano degli autentici atei.

Bayle esamina poi se l'idolatria sia più pericolosa dell'ateismo; se sia un delitto più grande non credere alla divinità che avere su di essa opinioni indegne: in questo è dello stesso parere di Plutarco: crede che sia meglio non avere nessuna opinione piuttosto che una cattiva opinione; ma, non dispiaccia a Plutarco, è evidente che era infinitamente meglio per i greci temere Cerere, Nettuno e Giove che non temere niente del tutto. È chiaro che la santità dei giuramenti è necessaria, e che bisogna fidarsi maggiormente di chi pensa che un giuramento falso sarà punito, che non di chi pensa di poter fare, impunito, un falso giuramento. È indubitabile che, in una società civile, è infinitamente più utile avere una religione (anche cattiva) che non averne nessuna.

Sembra dunque che Bayle avrebbe dovuto piuttosto esaminare se sia più pericoloso il fanatismo o l'ateismo. Il fanatismo è indubbiamente mille volte più funesto, perché l'ateismo non ispira passioni sanguinarie, ma il fanatismo ne ispira; l'ateismo non si oppone al crimini, ma il fanatismo porta a commetterli. Supponiamo, con l'autore del Commentarium rerum Gallicarum, che il cancelliere dell'Hospital non fece altro che leggi sagge, non consigliò altro che la moderazione e la concordia; i fanatici commisero le stragi della notte di San Bartolomeo. Hobbes passò per ateo: condusse una vita tranquilla e morigerata; i fanatici del suo tempo inondarono di sangue l'Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda. Spinoza non solo era ateo, ma insegnò l'ateismo; non fu certamente lui a prender parte all'assassinio giuridico di Barneveldt; non fu lui a fare a pezzi i due fratelli De Witt e a mangiarseli arrosto.

Gli atei sono per lo più studiosi arditi e fuorviati che ragionano male e che, non riuscendo a comprendere la creazione, l'origine del male, e altre difficoltà, ricorrono all'ipotesi dell'eternità delle cose e della necessità.

Gli ambiziosi, i viziosi, non hanno tempo di ragionare e di abbracciare un cattivo sistema: hanno altro da pensare che far confronti tra Lucrezio e Socrate. Così vanno le cose tra noi.

Non andavano così nel senato di Roma, quasi tutto composto di atei per teoria e pratica, ossia di gente che non credeva né alla provvidenza, né alla vita futura: quel senato era un'assemblea di filosofi, di dissoluti e di ambiziosi, tutti pericolosissimi, che portarono allo sfacelo la repubblica. L'epicureismo continuò a sussistere sotto l'impero: gli atei del senato erano stati dei faziosi, ai tempi di Silla e di Cesare; sotto Augusto e Tiberio, furono degli atei schiavi.

Io non vorrei avere a che fare con un principe ateo che avesse il suo interesse a farmi pestare in un mortaio: sono sicurissimo che sarei pestato. Non vorrei, se fossi un sovrano, avere a che fare con dei cortigiani atei, che avessero interesse ad avvelenarmi: mi sentirei costretto a prendere del contravveleno tutti i giorni. È dunque assolutamente necessario, per i principi e per i popoli, che l'idea di un Essere supremo, creatore, reggitore, remuneratore e vendicatore, sia profondamente radicata negli animi.

Ci sono dei popoli atei, dice Bayle nelle sue Pensées sur les comètes. I cafri, gli ottentotti, i tupinamba e molti altri piccoli popoli non hanno nessun dio; questo può essere; non ne negano né ne affermano l'esistenza; è che non ne hanno mai sentito parlare. Dite loro che ce n'è uno, lo crederanno facilmente; dite loro che tutto accade in virtù della natura delle cose, vi crederanno ugualmente. Dire che sono atei è come accusarli d'essere anticartesiani; non sono né pro né contro Descartes. Sono dei veri bambini; un bambino non è né ateo ne deista: non è niente.

Che conclusione trarremo da tutto questo? Che l'ateismo è un mostro assai pericoloso in coloro che governano; che lo è anche nelle persone colte, anche se la loro vita è innocente, perché dal loro scrittoio essi possono arrivare fino a coloro che vivono in piazza; che, se non è funesto quanto il fanatismo, è però quasi sempre fatale alla virtù. Aggiungiamo soprattutto che oggi ci sono meno atei di quanti ce ne siano mai stati, da quando i filosofi hanno riconosciuto che non c'è alcun essere vegetale senza un germe, nessun germe senza uno scopo, e che il grano non nasce dalla putredine.

Alcuni geometri non filosofi hanno respinto le cause finali, ma i veri filosofi le ammettono; e come ha detto un noto scrittore, un catechista annuncia Dio ai pargoli, e Newton lo dimostra ai saggi.

II

Ma se vi sono degli atei, con chi prendersela se non con quei tiranni mercenari delle anime, che, costringendoci a ribellarci contro le loro nefandezze, forzano gli spiriti deboli a negare il Dio che quei mostri disonorano? Quante volte le sanguisughe di un popolo hanno portato i cittadini oppressi a rivoltarsi contro il loro re?

Certi uomini, ingrassati con i nostri averi, ci gridano: «Mettetevi in testa che un'asina ha parlato; credete che un pesce ha inghiottito un uomo e lo ha vomitato, tre giorni dopo, sano e gagliardo, sulla riva; non dubitate che il Dio dell'universo abbia ordinato a un profeta ebreo di mangiare della merda (Ezechiele) e a un altro profeta di comperare due puttane e di far con loro dei figli di puttana (Osea) (sono le precise parole che vengon fatte pronunziare dal Dio di verità e di purezza); credete a cento cose evidentemente abominevoli o matematicamente impossibili: altrimenti, il Dio di misericordia vi brucerà non solo per milioni di miliardi di secoli nel fuoco infernale, ma per tutta l'eternità, sia che abbiate un corpo, sia che non l'abbiate.»

Queste inconcepibili idiozie rivoltano tanto le menti deboli e temerarie, quanto gli spiriti fermi e saggi. Essi dicono: «I nostri maestri ci dipingono Dio come il più insensato e il più barbaro di tutti gli esseri; dunque, Dio non esiste!» Mentre dovrebbero dire: «Questi nostri maestri attribuiscono a Dio le loro assurdità e i loro furori; dunque, Dio è il contrario di quello che essi annunciano, dunque Dio è tanto saggio e buono quanto costoro lo dicono pazzo e malvagio.» Così parlano i saggi. Ma se un fanatico li ode, li denuncia al braccio secolare, e questo li fa bruciare a fuoco lento, credendo così di vendicare e imitare la maestà divina ch'egli oltraggia.







“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
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BABELE



La vanità ha sempre innalzato i grandi monumenti. Fu per vanità che gli uomini costruirono la bella torre di Babele. «Su, eleviamo una torre la cui cima tocchi il cielo e rendiamo famoso il nostro nome prima d'essere dispersi per tutta la terra.» L'impresa fu compiuta ai tempi di un tal Faleg, che aveva per quinto avo il buon Noè. L'architettura e tutte le arti ad essa connesse avevano fatto, come si vede, grandi progressi in cinque generazioni. San Girolamo, colui che vide i fauni e i satiri, non aveva visto la torre di Babele più di quanto non l'abbia vista io; ma assicura che era alta ventimila piedi. Non è poi tanto. L'antico libro Jacult, scritto da uno dei più dotti ebrei, dimostra che era alta ottantamila piedi giudaici, e tutti sanno che il piede giudaico era pressappoco lungo quanto il piede greco. Questa dimensione è ben più verosimile di quella di Girolamo. Questa torre esiste ancora; ma non è più così alta. Molti viaggiatori, della cui parola non dubitiamo, dicono di averla vista; io, che non l'ho vista, non ne parlerò più che di Adamo, mio avo, col quale non ho avuto l'onore di conversare. Ma potete consultare il Rev. P. Calmet: è un uomo di sottile intelletto e profonda filosofia: lui vi spiegherà la cosa. Io non so perché nel Genesi si dica che Babele significa «confusione». Ba, nelle lingue orientali, significa «padre», e Bel significa «Dio». Babele, dunque, è la città di Dio, la città santa. Gli antichi davano questo nome a tutte le loro capitali. Però è incontestabile che Babele vuol dire «confusione»: sia perché gli architetti furono confusi dopo aver innalzato l'opera loro fino a ottantunmila piedi giudaici, sia perché le lingue si confusero; ed evidentemente è da allora che i tedeschi non intendono più i cinesi; poiché è chiaro, secondo il dotto Bochart, che originariamente il cinese e l'alto-tedesco erano la stessa lingua.



BATTESIMO



Parola greca, che significa «immersione». Gli uomini, che si fan sempre guidare dai sensi, immaginarono facilmente che quel che lavava il corpo, lavasse anche l'anima. Nei sotterranei dei templi d'Egitto c'erano grandi tinozze per i sacerdoti e gli iniziati. Gli indiani, da tempo immemorabile, si purificano nell'acqua del Gange, e tale cerimonia è ancora in uso. Essa passò poi agli ebrei; i quali battezzavano tutti gli stranieri che, pur abbracciando la legge giudaica, non volevano però sottomettersi alla circoncisione. Soprattutto le donne, cui non si faceva tale operazione, e che non la subivano se non in Etiopia, venivano battezzate; era una rigenerazione: essa dava una nuova anima come in Egitto. Leggete, in proposito, Epifanio, Maimonide e la Gemara.

Giovanni battezzò nel Giordano, e battezzò anche Gesù, che non battezzò mai nessuno, ma si degnò di consacrare quest'antica cerimonia. Ogni segno è di per sé indifferente, e Dio attribuisce la sua grazia al segno che gli piace scegliere. Il battesimo fu presto il primo rito e il suggello della religione cristiana. Tuttavia, i primi quindici vescovi di Gerusalemme furono tutti circoncisi; non è invece sicuro che fossero battezzati.

Nei primi secoli del cristianesimo, si abusò di questo sacramento; niente era più comune che aspettare l'agonia per ricevere il battesimo. L'esempio dell'imperatore Costantino ne è una prova abbastanza esplicativa. Ecco come si ragionava: «Il battesimo purificava tutto: posso dunque scannare mia moglie, i miei figli e tutti i miei parenti; dopo di che, mi farò battezzare e andrò in cielo.» Come difatti accade. Questo esempio era pericoloso; a poco a poco la consuetudine di aspettare la morte per immergersi nel bagno sacro, andò in disuso. I greci conservarono sempre il battesimo per immersione. I latini, invece, verso la fine dell'VIII secolo, avendo esteso la loro religione nelle Gallie e in Germania, e vedendo che l'immersione, nei paesi freddi, poteva far morire i bambini, vi sostituirono la semplice aspersione: il che attirò loro, spesso, l'anatema della Chiesa greca.

Fu domandato a san Cipriano, vescovo di Cartagine, se quelli che si erano fatti innaffiare il corpo fossero effettivamente battezzati. Egli rispose, nella sua settantaseiesima lettera, che «molte Chiese non credevano che quegli innaffiati fossero cristiani; lui pensava, invece, che fossero tali, ma che avessero una grazia infinitamente minore di coloro che erano stati immersi tre volte, secondo l'uso».

Un cristiano era iniziato dopo essere stato immerso: prima, era semplicemente catecumeno. Per essere iniziati, bisognava avere dei garanti, dei mallevadori, che si chiamavano con un nome che corrisponde a «padrini», affinché la Chiesa si assicurasse della fedeltà dei nuovi adepti, e i suoi misteri non venissero divulgati. Ecco perché, nei primi secoli, i gentili furono, in generale, assai male informati dei misteri dei cristiani: proprio come questi lo erano dei misteri di Iside e di Eleusi.

Cirillo d'Alessandria, nel suo scritto contro l'imperatore Giuliano, dice: «Io parlerei del battesimo, se non temessi che il mio discorso potrebbe pervenire ai non iniziati.»

Nel II secolo si cominciò a battezzare i bambini; era naturale che i cristiani desiderassero che i loro figli, i quali senza quel sacramento, sarebbero stati dannati, ne fossero muniti. Si concluse infine che bisognava amministrarglielo dopo otto giorni dalla nascita, perché i bambini ebrei venivano circoncisi a quest'età. La Chiesa greca segue ancora tale uso. Tuttavia, nel III secolo, prevalse la consuetudine di non farsi battezzare che in punto di morte.

Coloro che morivano nella prima settimana erano dannati, secondo i più rigidi fra i Padri della Chiesa. Ma Pietro Crisologo, nel V secolo, immaginò il Limbo come una specie di inferno mitigato, e, propriamente, orlo d'inferno, sobborgo d'inferno, dove vanno i bambini morti senza battesimo e dove stavano i patriarchi prima della discesa di Gesù Cristo: per cui prevalse poi l'opinione che Gesù fosse disceso nel Limbo e non nell'inferno.

Si è discusso se nei deserti d'Arabia un cristiano potesse esser battezzato con della sabbia; si è risposto di no; se si potesse battezzare con acqua di rose: e si è stabilito che occorreva dell'acqua pura, ma che ci si poteva servire anche di acqua fangosa.

È chiaro che tutta questa disciplina è dipesa dalla prudenza dei primi pastori che l'hanno stabilita.



Idea degli unitari rigidi sul battesimo

«È evidente, per chiunque voglia ragionare senza pregiudizio, che il battesimo non è un segno di grazia conferita, né un suggello d'alleanza, ma un semplice segno di professione di fede.

«Che il battesimo non è necessario, né di necessità di precetto né di necessità di mezzo.

«Che non fu istituito da Gesù Cristo e che il cristiano può farne a meno, senza che possa risultarne per lui alcun inconveniente.

«Che non si devono battezzare né i bambini, né gli adulti, né, in genere, nessuno.

«Che il battesimo poteva essere in uso alle origini del cristianesimo per coloro che uscivano dal paganesimo, per rendere pubblica la loro professione di fede, ed esserne il segno autentico; ma che, al presente, è assolutamente inutile e del tutto indifferente.»

(Dal Dictionnaire encyclopédique, voce «Unitaire»)



Aggiunta importante

L'imperatore Giuliano, il filosofo, nella sua immortale satira I Cesari, mette queste parole in bocca a Costanzo, figlio di Costantino: «Chiunque si senta colpevole di stupro, di omicidio, di rapina, di sacrilegio e di tutti i più abominevoli delitti, sarà mondo e puro non appena lo avrò lavato con quest'acqua.»

Ed infatti, proprio questa fatale dottrina indusse gli imperatori cristiani e tutti i grandi dell'impero a differire il loro battesimo fino alla morte. Eran sicuri d'aver trovato il segreto per vivere da criminali e morire da virtuosi.

(Tratto dal signor Boulanger)



Altra aggiunta

Che strana idea, tratta dal bucato, che una brocca d'acqua lavi tutti i delitti! Oggi che si battezzano tutti i bambini, perché un'idea non meno assurda li suppose tutti criminali, eccoli tutti salvati, finché non abbiano l'età della ragione e possano diventare peccatori. Sgozzateli dunque al più presto per assicurare loro il paradiso! Questa conclusione è così giusta che ci fu una setta devota che si dava la briga di avvelenare o sgozzare tutti i bambini appena battezzati. Questi devoti ragionavano perfettamente. Dicevano: «Noi facciamo a questi piccoli innocenti il più gran bene possibile; impediamo loro d'essere cattivi e infelici in questa vita, e doniamo loro la vita eterna.»

(Del signor abate Nicaise)



BELLO, BELLEZZA



Chiedete a un rospo cos'è la bellezza, il bello assoluto, to kalòn. Vi risponderà che è la sua femmina, con i suoi due grossi occhi rotondi sporgenti dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo, il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello è per lui una pelle nera, oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato.

Interrogate il diavolo: vi dirà che la bellezza è un paio di corna, quattro artigli e una coda. Consultate infine i filosofi: vi risponderanno con argomenti senza capo né coda; han bisogno di qualcosa conforme all'archetipo del bello in sé, al kalòn.

Assistevo un giorno a una tragedia, seduto accanto a un filosofo. «Quant'è bella!», diceva. «Cosa ci trovate di bello?» domandai. «Il fatto,» rispose, «che l'autore ha raggiunto il suo scopo.» L'indomani egli prese una medicina che gli fece bene. «Essa ha raggiunto il suo scopo,» gli dissi, «ecco una bella medicina!» Capì che non si può dire che una medicina è bella e che per attribuire a qualcosa il carattere della bellezza bisogna che susciti in noi ammirazione e piacere. Convenne che quella tragedia gli aveva ispirato questi due sentimenti e che in ciò stava il kalòn, il bello.

Facemmo un viaggio in Inghilterra: vi si rappresentava la stessa tragedia, perfettamente tradotta, ma qua faceva sbadigliare gli spettatori. «Oh, oh,» disse, «il kalòn non è lo stesso per gli inglesi e per i francesi.» Concluse, dopo molte riflessioni, che il bello è assai relativo, così come quel che è decente in Giappone è indecente a Roma e quel che è di moda a Parigi non lo è a Pechino; e così si risparmiò la pena di comporre un lungo trattato sul bello.



BENE (SOMMO BENE)



Gli antichi han discusso molto sul sommo bene. Tanto valeva chiedersi cos'è il sommo blu, o il sommo intingolo, il sommo camminare, il sommo leggere ecc.

Ciascuno pone il proprio bene dove può, e ne ha quanto può, a suo modo.

Quid dem? quid non dem? Renuis tu quod jubet alter...

Castor gaudet equis; ovo prognatus eodem

Pugnis...

Il massimo bene è quello che vi diletta con tanta forza da mettervi nella totale impossibilità di sentire altro; come il male peggiore è quello che finisce col privarci di qualsiasi sentimento. Ecco i due estremi della natura umana, e questi due momenti sono brevi.

Non esistono né estreme delizie né estremi tormenti che possano durare tutta la vita: il sommo bene e il sommo male sono chimere.

Abbiamo la bella favola di Crantore: la Ricchezza, il Piacere, la Salute e la Virtù si presentano ai giochi olimpici, ciascuna pretendendo il premio. La Ricchezza dice: «Il pomo tocca a me, perché con me si compra qualsiasi bene.» Il Piacere dice: «No, spetta a me, perché si cerca la ricchezza solo per avermi.» La Salute afferma che senza di lei, non può esserci piacere e che la ricchezza è inutile. Finalmente la Virtù dimostra che essa è superiore alle altre tre, perché con l'oro, i piaceri e la salute ci si può ridurre a uno stato ben miserabile, se ci si comporta male. E il pomo fu dato alla Virtù.

La favola è molto ingegnosa, ma non risolve l'assurda questione del sommo bene. La virtù non è un bene, ma un dovere; è di un genere diverso, di ordine superiore. Non ha niente a che fare con le sensazioni dolorose o piacevoli. L'uomo virtuoso, che abbia il mal della pietra o la gotta, che sia senza appoggi, senza amici, privo del necessario, perseguitato, messo in catene da un tiranno voluttuoso e in buona salute, è profondamente infelice; mentre il suo insolente persecutore che accarezza una nuova amante sul suo letto di porpora è felicissimo. Dite che il saggio perseguitato è preferibile al suo insolente persecutore; dite che amate l'uno e detestate l'altro: ma ammettete che il saggio in catene ha le furie nel cuore. Se il saggio non vuole ammetterlo, v'inganna, è un ciarlatano.



BENE (TUTTO È BENE)



Ci fu un gran chiasso nelle scuole, ed anche fra le persone che ragionano, quando Leibniz, parafrasando Platone, costruì il suo edificio del migliore dei mondi possibili, immaginando che tutto vada per il meglio. Egli affermò, nel nord della Germania, che Dio non poteva creare che un solo mondo.

Platone, almeno, aveva lasciato a Dio la libertà di farne cinque, per la ragione che non ci sono che cinque solidi regolari: il tetraedro, il cubo, l'esaedro, il dodecaedro e l'icosaedro. Ma siccome il mondo non ha la forma di nessuno dei cinque solidi di Platone, questi avrebbe dovuto permettere a Dio una sesta maniera.

Lasciamo da parte il divino Platone. Leibniz, che era sicuramente miglior geometra di lui e un più profondo metafisico, rese dunque al genere umano il servizio di mostrargli che dobbiamo essere tutti contenti e che Dio non poteva fare di più per noi, poiché aveva necessariamente scelto, tra tutti i partiti possibili, quello incontestabilmente migliore.

«E il peccato originale, dove lo mettiamo?» gli dissero. «Dove sarà possibile metterlo,» rispondevano Leibniz e i suoi amici. Ma, in pubblico, egli scriveva che il peccato originale rientrava necessariamente nel migliore dei mondi possibili.

Come! essere cacciati da un luogo di delizie, dove si sarebbe potuto vivere per sempre se non si fosse mangiata una mela; generare nella miseria dei figli miserabili che soffriranno di tutto e di tutto faranno soffrire gli altri! Come! Patire tutte le malattie, provare tutti i dispiaceri, morire nel dolore e, come rinfresco, venir bruciati per l'eternità: questa sorte sarebbe proprio la migliore possibile? Per noi non è certo una sorte invidiabile; in che modo può esserlo per Dio?

Leibniz capiva che non c'era niente da rispondere; così scrisse dei grossi libri che son tutta una contraddizione.

Negare che il male esiste, potrà essere detto per scherzo da un Lucullo, che gode ottima salute e che fa un buon pranzo con i suoi amici e la sua amante, nel salone di Apollo; ma basta che metta il capo fuor della finestra e vedrà degli infelici; o che gli venga la febbre, e sarà tale lui stesso.

Io non amo far citazioni; di solito, è una faccenda spinosa: si trascura ciò che precede e segue il passo che si cita e ci si espone a mille contestazioni. Tuttavia bisogna che citi Lattanzio, Padre della Chiesa, che nel capitolo XIII del suo De ira Dei, fa così parlare Epicuro: «O Dio vuole togliere il male da questo mondo, e non lo può; o lo può e non lo vuole; o non lo può né lo vuole; o, infine, lo vuole e lo può. Se lo vuole e non lo può, è impotenza, il che è contrario alla natura di Dio; se lo può e non lo vuole, è malvagità, il che non è meno contrario alla sua natura; se non lo vuole né lo può, è al tempo stesso malvagità e impotenza; se lo vuole e lo può (la sola ipotesi che si addica a Dio), donde viene il male sulla terra?»

L'argomento è arduo, e ad esso Lattanzio risponde nel peggiore dei modi, dicendo che Dio vuole il male, ma che ci ha dotati della saggezza che ci permette di conseguire il bene. Bisogna confessare che, in confronto con l'obiezione, questa è una risposta assai debole. Suppone infatti che Dio non possa darci la saggezza se non creando il male; e poi, che simpatica saggezza è la nostra!

L'origine del male è sempre stato un abisso di cui nessuno ha mai potuto vedere il fondo. È questo che ha ridotto tanti antichi filosofi e legislatori a ricorrere a due principi, uno buono e l'altro cattivo. Tifone era il principio del male presso gli egizi, Arimane lo era presso i persiani. I manichei adottarono, come si sa, questa teologia; ma poiché essi non parlarono mai né col principio buono né con quello cattivo, non bisogna credere loro sulla parola.

Fra le assurdità di cui rigurgita questo mondo, e che possiamo annoverare tra i nostri mali, la minore non è quella di aver supposto due esseri onnipotenti, che si combattono per stabilire quale dei due dovrà mettere una maggiore quantità di sé nel mondo, e fanno un accordo come i due dottori di Molière: concedetemi l'emetico, e io vi concederò il salasso.

Basìlide, seguendo i platonici, pretese, fin dal primo secolo della Chiesa, che Dio diede da fare il nostro mondo agli angeli della schiera più bassa, e che costoro, poco abili, fecero le cose quali le vediamo. Ma questa favola teologica va in fumo davanti alla tremenda obiezione che non è nella natura di un Dio onnipotente e saggio far costruire un mondo da architetti che non sanno affatto il loro mestiere.

Simone, che intuì questa obiezione, tentò di prevenirla dicendo che l'angelo che presiedeva alla fabbrica fu dannato per aver fatto così male il suo lavoro; ma le scottature di quest'angelo non guariscono noi.

L'avventura di Pandora presso i greci non risponde meglio all'obiezione. Il vaso, nel quale si trovavano rinchiusi tutti i mali, e al cui fondo resta la speranza, è invero una graziosa allegoria; ma quella Pandora fu foggiata da Vulcano solo per vendicarsi di Prometeo, che aveva fatto un uomo col fango.

Nemmeno gli indiani se la sono cavata meglio: Dio, creato l'uomo, gli diede una droga che gli avrebbe assicurato la salute per sempre; l'uomo caricò la droga sul suo asino, l'asino ebbe sete, e il serpente gl'insegnò una fontana; poi, mentre l'asino beveva, il serpente gli portò via la droga.

I siriani immaginarono che l'uomo e la donna, creati nel quarto cielo, si azzardarono a mangiare una focaccia, invece dell'ambrosia, che era il loro cibo naturale. L'ambrosia si esalava attraverso i pori; mentre, dopo aver mangiato la focaccia, bisognava andare al cesso. L'uomo e la donna pregarono un angelo d'insegnar loro dove si trovasse detto luogo. «Vedete,» disse l'angelo, «quel piccolissimo pianeta laggiù a circa sessanta milioni di leghe da qui? È il gabinetto dell'universo; andateci subito.» Essi ci andarono, e ci restarono. E da allora il nostro mondo fu quel che è.

Si potrà sempre domandare ai siriani perché Dio permise che l'uomo mangiasse quella focaccia e ne derivasse così per noi una quantità di mali tanto spaventosi.

Da questo quarto di cielo passo immediatamente a Lord Bolingbroke, tanto per non annoiarmi. Quest'uomo, che era senza dubbio un grande ingegno, diede al celebre Pope il piano del suo «Tutto è bene» che si ritrova, infatti, parola per parola, nelle opere postume di Lord Bolingbroke e che Lord Shaftesbury aveva già inserito nelle sue Characteristics. Leggete in Shaftesbury il capitolo sui moralisti: vi troverete queste parole:

«C'è molto da rispondere a queste lamentele sui difetti della natura. Come mai essa è uscita così impotente e difettosa dalle mani di un essere perfetto? Ma io nego ch'essa sia difettosa... La sua bellezza risulta dalle contrarietà, e la concordia universale nasce da un perpetuo conflitto... È necessario che ogni essere sia immolato ad altri: i vegetali agli animali, gli animali alla terra...; e le leggi del potere centrale e della gravitazione, che danno ai corpi celesti il loro peso e il loro moto, non saranno certo alterate per riguardo a un debole animale, che pur essendo protetto da queste stesse leggi, sarà ben presto da esse ridotto in polvere.»

Bolingbroke, Shaftesbury e Pope, loro portavoce, non risolvono il problema meglio degli altri. Il loro «Tutto è bene» vuol dire semplicemente che tutto è retto da leggi immutabili; chi non lo sa? Non ci insegnate niente, quando osservate quel che sanno anche i bambini: che le mosche sono nate per essere divorate dai ragni, i ragni dalle rondini, le rondini dalle avèrle, le avèrle dalle aquile, le aquile per essere uccise dagli uomini, e gli uomini per ammazzarsi a vicenda e per essere mangiati dai vermi e poi, almeno mille su uno, dai diavoli.

Ecco un ordine chiaro e costante tra gli animali di ogni specie: dappertutto c'è ordine. Quando nella mia vescica si forma una pietra, ciò avviene per effetto di una meccanica ammirevole: degli umori calcarei passano a poco a poco nel mio sangue, si infiltrano nei reni, passano per gli ureteri, si depositano nella mia vescica, vi si riuniscono grazie ad un'eccellente attrazione newtoniana; si forma una pietruzza, si ingrossa, io soffro mali milIe volte peggiori della morte, sempre grazie al più bell'assetto del mondo; un chirurgo, che ha perfezionato l'arte inventata da Tubalcaino, viene a piantarmi un ferro acuto e tagliente nel perineo, afferra la mia pietruzza con le sue pinzette; quella si spezza sotto i suoi sforzi per effetto di un meccanismo necessario e, in virtù di questo meccanismo, io muoio fra i tormenti più atroci. E «tutto questo è bene», tutto questo è l'evidente conseguenza di principi fisici inalterabili: sono d'accordo, ma lo sapevo, come del resto lo sapete anche voi.

Se fossimo insensibili, non ci sarebbe niente da dire su questa fisica. Ma non si tratta di questo; noi vi chiediamo se vi sono o no dei mali sensibili, e da dove provengono. «Non esistono mali,» dice Pope nella sua quarta epistola sul suo «Tutto è bene», «o se ci sono dei mali particolari, essi compongono il bene generale.»

Ecco un singolare bene generale, che si compone della pietra, della gotta, di tutti i crimini, di tutte le sofferenze, della morte e della dannazione.

La caduta dell'uomo è l'impiastro che applichiamo a tutte queste malattie particolari dell'anima e del corpo, che voi chiamate salute generale; ma Shaftesbury e Bolingbroke se ne infischiano del peccato originale; Pope, anzi, non ne parla affatto: è chiaro che il loro sistema infirma alle basi la religione cristiana, e non ne spiega un bel niente.

Tuttavia, questo sistema è stato di recente approvato da numerosi teologi, che ammettono volentieri i contrari; alla buon'ora! Non bisogna invidiare a nessuno la consolazione di ragionare come può sul diluvio di mali che ci inonda. È giusto concedere ai malati senza speranza di mangiare quel che vogliono. Si è arrivati perfino a pretendere che questo sistema è consolante: «Dio,» dice Pope, «vede con lo stesso occhio morire l'eroe e il passero, disgregarsi un atomo o mille pianeti, formarsi una bolla di sapone o un mondo.»

Ecco davvero una bella consolazione! non trovate un gran sollievo nella ricetta di Shaftesbury, il quale dice che Dio non si metterà certo ad alterare le sue leggi eterne per un animale così meschino com'è l'uomo? Bisogna ammettere almeno che questo meschino animale ha ogni diritto di disperarsi umilmente e di cercar di comprendere, mentre grida, perché mai quelle leggi eterne non sono fatte per il benessere d'ogni individuo.

Questo sistema del «Tutto è bene» rappresenta l'autore di tutta la natura come un re potente e malefico, che resta impassibile se vede perire quattro o cinquecentomila uomini, e gli altri trascinare la loro vita nella fame e nelle lacrime, purché egli possa venire a capo dei suoi disegni.

Lungi dal consolarci, dunque, la teoria del migliore dei mondi possibili è scoraggiante per i filosofi che la accolgono.

La questione del bene e del male resta, per coloro che cercano in buona fede, un caos inestricabile; è solo un gioco intellettuale per coloro che amano disputare: sono dei forzati che giocano con le loro catene. Quanto al volgo, che non pensa, esso somiglia a quei pesci che da un fiume sono trasferiti in un vivaio; non sospettano d'essere lì per venir mangiati durante la quaresima: così noi, con le nostre sole forze, non sappiamo niente sulle cause del nostro destino. Mettiamo dunque, alla fine di quasi tutti i capitoli di metafisica, le due lettere dei giudici romani, quando una causa rimaneva oscura: N.L., non liquet, la cosa non è chiara.



BESTIE



Che pietà, che insipienza, aver detto che le bestie sono macchine prive di conoscenza e sentimento, che fan sempre le stesse cose allo stesso modo, che non imparano niente, non perfezionano niente ecc.!

Come! Quell'uccello che fa il suo nido a semicerchio quando lo attacca a un muro; che lo fa a quarto di cerchio quando è in un angolo e a cerchio su un albero, quell'uccello fa tutto allo stesso modo? Quel cane da caccia che hai addestrato per tre mesi non ne sa, forse, adesso, più di prima? E quel canarino cui insegni un'aria, te la ripete forse subito? Non impieghi un tempo considerevole a insegnargliela? Non hai osservato che se si sbaglia, poi si corregge?

Forse per il solo fatto che ti parlo, tu pensi ch'io abbia sentimento, memoria, idee? Ebbene, non ti parlo: mi vedi rincasare con aria afflitta, cercare inquieto un foglio, aprire lo scrittoio dove mi ricordo d'averlo chiuso, trovarlo, leggere con gioia. E così concludi che io ho provato il sentimento dell'afflizione e quello del piacere, che ho memoria e conoscenza.

Giudica adesso con lo stesso metro quel cane che ha perduto il padrone, che l'ha cercato per tutte le strade con guaiti dolorosi, che rientra in casa agitato, inquieto, che sale, scende, va di stanza in stanza e trova infine nel suo studio il padrone che ama, e gli testimonia la propria gioia con la dolcezza dei suoi mugolii, saltando, e leccandolo.

Dei barbari agguantano questo cane, che nel senso dell'amicizia supera in modo così straordinario l'uomo, lo inchiodano su una tavola, e lo sezionano vivo per mostrarti le vene mesenteriche. Scopri in lui gli stessi organi della sensibilità che sono in te. Rispondimi, meccanicista: la natura ha dotato quest'animale di tutti gli impulsi del sentimento perché non senta? Ha forse dei nervi perché resti impassibile? Non supporre questa impertinente contraddizione nella natura.

Ma i maestri della scuola domandano che cos'è l'anima delle bestie. Io, questa domanda, non la capisco. Un albero ha la facoltà di ricevere nelle sue fibre la linfa che vi circola, di far sbocciare le gemme delle sue foglie e dei suoi frutti: mi domanderete allora che cos'è l'anima di quest'albero? Esso ha ricevuto questi doni; e l'animale ha ricevuto quelli del sentimento, della memoria, di un certo numero di idee. Chi gli ha dato tutti questi doni? Colui che fa crescere l'erba dei campi e gravitare la terra intorno al sole.

«Le anime delle bestie sono forme sostanziali,» disse Aristotele e, dopo di lui, la scuola araba; e, dopo la scuola araba, la scuola angelica; e, dopo la scuola angelica, la Sorbona; e, dopo la Sorbona, nessun altro.

«Le anime delle bestie sono materiali,» gridano altri filosofi. Costoro non hanno avuto più fortuna degli altri. Invano si è chiesto loro che cos'è un'anima materiale: devono ammettere che è una materia dotata della capacità di sentire. Ma chi le ha dato questa capacità? Un'altra anima materiale: ossia sarebbe la materia a fornire la capacità di sentire a un'altra materia: non escono da questo circolo.

Ascoltate altre bestie che ragionano sulle bestie: «La loro anima è un ente spirituale che muore con il corpo.» Ma quale prova ne avete? Che concetto vi fate di questo ente spirituale che, in effetti, è dotato di sentimento, di memoria, d'un certo numero d'idee e di combinazioni di idee, ma che non potrà mai sapere quel che sa un bambino di sei anni? Su quale fondamento immaginate che questo ente, che non è un corpo, muoia con il corpo? Le bestie più grosse sono coloro che hanno sostenuto che quest'anima non è né corpo né spirito. Ottimo sistema! Noi non possiamo intendere come spirito se non qualcosa di ignoto, che non è corpo: e così il sistema di questi signori si riduce a questo: che l'anima delle bestie è una sostanza che non è corpo e neppure è qualcosa che non sia corpo.

Da dove possono derivare tanti errori così contraddittori? Dall'abitudine, che sempre hanno avuto gli uomini, di esaminare che cosa sia una cosa, prima di sapere se essa esiste. La linguetta, la valvola di un soffietto, viene chiamata «l'anima del soffietto». E che cos'è quest'anima? È un nome che ho dato a questa valvola che, quando faccio funzionare il soffietto, si abbassa, lascia entrare l'aria, si rialza e la spinge attraverso un tubo.

Non c'è, in questo caso, un'anima distinta dalla macchina. Ma chi fa muovere il soffietto degli animali? Ve l'ho già detto: colui che fa muovere gli astri. Il filosofo che disse «Deus est anima brutorum» aveva ragione; ma doveva approfondire l'argomento.





C





CARATTERE



Dal greco, impressione, impronta. È ciò che la natura ha impresso in noi. Possiamo cancellarlo? Che grosso problema. Se io ho il naso storto e due occhi da gatto, potrò nasconderli con una maschera. Ma posso fare altrettanto con il carattere che la natura mi ha dato? Un uomo nato violento, facile ad infuriarsi, si presenta davanti a Francesco I, re di Francia, per protestare contro un sopruso; il volto del re, il contegno rispettoso dei cortigiani, il luogo stesso in cui si trova, fanno una profonda impressione su quest'uomo; macchinalmente abbassa gli occhi, addolcisce la sua rude voce, presenta umilmente la sua richiesta; lo si crederebbe tanto mite quanto (almeno in quel momento) lo sono i cortigiani fra i quali si trova, sconcertato; ma se Francesco I conosce le fisionomie, scoprirà facilmente nei suoi occhi bassi, ma accesi da una cupa fiamma, nei muscoli tesi del viso, nelle labbra serrate, che quell'uomo non è così mite com'è costretto ad apparire. Quell'uomo lo segue a Pavia, vien fatto prigioniero con lui, e con lui condotto in prigione a Madrid; la maestà di Francesco I non fa più su di lui la stessa impressione; egli si familiarizza con l'oggetto del suo rispetto. Un giorno, cavando gli stivali al re, e tirandoli male, fa arrabbiare Francesco I, inasprito dalla sua sventura; il nostro uomo manda al diavolo il re e butta gli stivali dalla finestra.

Sisto V era nato petulante, testardo, altero, impetuoso, vendicativo, arrogante: questo carattere sembra farsi più mite nelle prove del noviziato. Ma appena comincia a godere di qualche credito nel suo ordine, s'infuria contro un guardiano e quasi lo accoppa a forza di pugni; inquisitore a Venezia, esercita il suo incarico con insolenza; eccolo cardinale, posseduto dalla «rabbia papale»; questa rabbia gli fa vincere la sua natura; seppellisce nell'oscurità la sua persona e il suo carattere: si atteggia ad umile, si finge moribondo. Viene eletto papa: questo restituisce alla molla, che la politica aveva piegato, tutta la sua elasticità a lungo compressa: adesso è il più fiero e il più dispotico dei sovrani.

Naturam expellas furca, tamen ipsa redibit.

La religione, la morale mettono un freno alla forza del naturale: non possono distruggerla. L'ubriacone in un chiostro, ridotto a un mezzo bicchiere di sidro per pasto, non si ubriacherà più, ma penserà sempre con desiderio al vino.

L'età indebolisce il carattere; è un albero che non produce più che qualche frutto degenere, ma sempre della stessa natura: si copre di nodi e di musco, diventa tarlato, ma resta sempre una quercia o un pero. Se potessimo cambiare il nostro carattere, ce ne daremmo uno e saremmo padroni della natura. Ma possiamo, noi, darci qualcosa? Non riceviamo tutto? Cercate di spingere un indolente ad una attività continua, di smorzare con l'apatia l'animo bollente dell'impetuoso, d'ispirare il gusto per la musica e la poesia a chi manca di gusto e d'orecchio: non riuscireste meglio che se tentaste di ridare la vista a un cieco nato. Noi perfezioniamo, mitighiamo, nascondiamo quel che la natura ha messo in noi; ma non ci mettiamo niente.

Si dice a un coltivatore: «Avete troppi pesci in questo vivaio; non potranno prosperare; troppo bestiame nei vostri prati e troppa poca erba: dimagrirà.» Dopo questa esortazione si arriva al fatto che i lucci mangiano metà delle carpe del nostro uomo, e i lupi metà dei suoi montoni; quello che resta vivo ingrassa. Si rallegrerà della propria economia? Questo campagnolo sei tu; una delle tue passioni ha divorato le altre, e tu credi d'aver trionfato di te stesso. Non somigliamo quasi tutti a quel vecchio generale di novant'anni che, incontrati alcuni giovani ufficiali mentre facevano un po' di chiasso con delle donnine allegre, urlò loro infuriato: «Signori, è forse questo l'esempio che io vi do?»






[Modificato da Claudio Cava 04/06/2007 19.48]






“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
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CATECHISMO CINESE, OVVERO DIALOGHI DI CU-SU, DISCEPOLO DI CONFUCIO, CON IL PRINCIPE KU, FIGLIO DEL RE DI LU, TRIBUTARIO DELL'IMPERATORE CINESE GNEN-VAN, 417 ANNI PRIMA DELLA NOSTRA ERA VOLGARE

(Tradotto in latino dal padre Fouquet, ex gesuita. Il manoscritto si trova nella Biblioteca Vaticana, n. 42759)





Dialogo primo

KU

Che devo intendere quando mi si dice d'adorare il cielo (Shang-ti)?

CU-SU

Non d'adorare il cielo materiale, che vediamo; perché questo cielo non è che aria, e quest'aria è composta da tutte le esalazioni della terra; sarebbe una follia ben assurda l'adorare dei vapori.

KU

Tuttavia non ne sarei sorpreso. Mi sembra che gli uomini abbiano commesso follie anche più grandi.

CU-SU

È vero; ma voi siete destinato a governare; perciò dovete essere saggio.

KU

Ci sono tanti popoli che adorano i cieli e i pianeti!

CU-SU

I pianeti non sono che terre come la nostra. La luna, per esempio, avrebbe tanta ragione d'adorare la nostra sabbia e il nostro fango, quanto noi d'inginocchiarci davanti alla sabbia e al fango della luna.

KU

E allora che significa quando diciamo: il cielo e la terra, salire in cielo, essere degni del cielo?

CU-SU

Che diciamo un'enorme sciocchezza. Il cielo non c'è: ogni pianeta è circondato dalla sua atmosfera come da un guscio, e ruota nello spazio attorno al suo sole. Ogni sole è centro di molti pianeti che viaggiano continuamente attorno a lui: non c'è né alto né basso, né salita né discesa. Voi capite che, se gli abitanti della luna dicessero che si sale in terra, che bisogna rendersi degni della terra, direbbero una cosa insensata. Noi pronunziamo una frase priva di senso, quando diciamo che bisogna rendersi degni del cielo; è come se dicessimo: bisogna rendersi degni dell'aria, o della costellazione del dragone, o dello spazio.

KU

Credo di capire. Bisogna adorare soltanto Dio, che ha fatto il cielo e la terra.

CU-SU

Senza dubbio: bisogna adorare soltanto Dio. Ma quando diciamo che egli ha fatto il cielo e la terra, diciamo piamente una grande banalità. Perché se noi intendiamo per cielo lo spazio prodigioso nel quale Dio ha acceso tanti soli e fatto ruotare tanti mondi, è molto più ridicolo dire «il cielo e la terra» che dire «le montagne e un granello di sabbia». Il nostro globo è infinitamente più piccolo di un grano di sabbia, a paragone di quei miliardi di universi davanti ai quali noi scompariamo. Tutto quel che possiamo fare è di unire la nostra debole voce a quella degli innumerevoli esseri che rendono omaggio a Dio nell'abisso dello spazio.

KU

Ci han dunque ben ingannati quando ci hanno detto che Fo discese tra noi dal quarto cielo, in forma di elefante bianco.

CU-SU

Sono favole che i bonzi raccontano ai bambini e alle vecchiette: noi dobbiamo adorare solo l'eterno creatore di tutti gli esseri.

KU

Ma come ha potuto un essere crearne altri?

CU-SU

Guardate quella stella: essa è a millecinquecentomila milioni di li dal nostro piccolo globo: da lei partono raggi che producono sui vostri occhi due angoli eguali al vertice; essi producono gli stessi angoli negli occhi di tutti gli animali: non è questo il segno di un piano deliberato? di una legge ammirevole? Ora, chi compie un'opera se non un operaio? e chi emana leggi se non un legislatore? C'è dunque un operaio, un legislatore eterno.

KU

Ma chi ha creato quest'operaio? E come è fatto?

CU-SU

Principe, passeggiavo ieri vicino a quel gran palazzo fatto costruire dal re vostro padre; sentii due grilli che dicevano l'uno all'altro: «Che immane edificio!» «Sì,» rispose il compagno, «per quanto orgoglioso io sia, confesso che chi ha compiuto questo prodigio è qualcuno molto più potente dei grilli; ma non ho la minima idea di questo essere: vedo che c'è, ma non so che cosa sia.»

KU

E io vi dico che siete un grillo più istruito di me; e quel che mi piace in voi è che non pretendete di sapere quel che ignorate.



Dialogo secondo

CU-SU

Ammettete dunque che c'è un essere onnipotente, che esiste per se stesso, supremo artefice di tutta la natura?

KU

Sì. Ma se egli esiste per se stesso, niente può limitarlo: dunque è dappertutto; esiste dunque in tutta la materia, in tutte le parti di me stesso?

CU-SU

E perché no?

KU

Dunque io stesso sarei una parte della divinità?

CU-SU

Questa, forse, non è una conseguenza necessaria, Questo pezzetto di vetro è penetrato da ogni parte dalla luce, ma è forse luce lui stesso? no, non è che sabbia, nient'altro. Certo, tutto è in Dio: ciò che anima tutto deve essere dappertutto. Dio non è come l'imperatore della Cina, che abita nel suo palazzo e manda i suoi ordini per mezzo dei «Kolao». Per il fatto stesso che esiste, l'essere suo pervade necessariamente tutto lo spazio e tutte le sue opere. E poiché egli è in voi, questo è un ammonimento continuo a non far nulla di cui possiate arrossire davanti a lui.

KU

E che cosa bisogna fare per poter guardare se stessi senza ripugnanza e senza onta, davanti all'Essere supremo?

CU-SU

Essere giusti.

KU

E poi?

CU-SU

Essere giusti.

KU

Ma la setta di Laokium sostiene che non c'è né giusto né ingiusto, né vizio né virtù.

CU-SU

La setta di Laokium sostiene forse che non c'è né salute né malattia?

KU

No: essa non sostiene un così grave errore.

CU-SU

L'errore di pensare che non c'è né salute dell'anima né malattia dell'anima, né virtù né vizio, è altrettanto grande e più funesto. Coloro che han detto che tutto è uguale sono dei mostri: è la stessa cosa nutrire il proprio figlio o schiacciarlo contro una pietra, soccorrere la propria madre o piantarle un pugnale nel cuore?

KU

Mi fate rabbrividire. Io detesto la setta di Laokium. Però ci sono tante sfumature del giusto e dell'ingiusto. Quanto spesso siamo nell'incertezza. Quale uomo sa con precisione quel che è permesso e quel che è proibito? Chi potrà fissare con sicurezza i limiti che separano il bene dal male? Quale regola mi darete per riconoscerli?

CU-SU

Quella di Confucio, il mio maestro: «Vivi come vorresti aver vissuto quando ci penserai in punto di morte; tratta il tuo prossimo come vorresti che egli ti trattasse.»

KU

Queste massime, lo riconosco, devono essere il codice del genere umano; ma che m'importerà, in punto di morte, di aver ben vissuto? Che ci guadagnerò? Quest'orologio, quando sarà distrutto, sarà felice d'aver suonato con precisione le ore?

CU-SU

Quest'orologio non sente, non pensa, non può avere rimorsi, mentre voi ne avete, quando vi sentite colpevole.

KU

Ma se, dopo aver commesso molti delitti, riuscissi a non avere più rimorsi?

CU-SU

Allora bisognerebbe strangolarvi. E state sicuro che fra gli uomini, che non amano essere oppressi, si troverà qualcuno che vi toglierà la possibilità di commettere nuovi delitti.

KU

E così Dio, che è in essi, permetterà loro d'essere malvagi, dopo averlo permesso a me?

CU-SU

Dio vi ha dato la ragione: non abusatene, né voi né loro. Non solo sarete infelici in questa vita, ma chi vi ha detto che non possiate esserlo anche in un'altra?

KU

E chi vi ha detto che c'è un'altra vita?

CU-SU

Solo per il fatto che ne dubitate, dovreste comportarvi come se ci fosse.

KU

E se fossi sicuro che non c'è?

CU-SU

Vi sfido a provarlo.



Dialogo terzo

KU

Mi sfidate, Cu-Su? Bene. Perché io possa venir ricompensato o punito quando non ci sarò più, bisogna che sussista in me qualche cosa che senta e pensi dopo di me. Ora, come prima della mia nascita niente di me aveva sentimento o pensiero, perché dovrebbe averne dopo la mia morte? e che potrebbe essere questa parte incomprensibile di me? Forse il ronzio di quest'ape resterà nell'aria quando non ci sarà più l'ape? La vegetazione di questa pianta sussisterà quando la pianta sarà stata divelta? La vegetazione non è forse una parola di cui ci serviamo per significare il modo inesplicabile con cui l'Essere supremo ha voluto che la pianta traesse i suoi succhi dalla terra? Così l'anima è una parola inventata per esprimere debolmente e oscuramente le energie della nostra vita. Tutti gli animali si muovono; e questa facoltà di muoversi noi la chiamiamo «forza attiva»: ma non esiste un ente distinto che sia questa forza. Noi abbiamo passioni, e memoria e ragione; ma queste passioni, questa memoria, questa ragione non sono, indubbiamente, enti a parte, piccoli individui che abbiano un'esistenza propria; sono semplicemente termini generici, inventati per fissare le nostre idee. E dunque l'anima, che significa la nostra memoria, la nostra ragione, le nostre passioni, non è che una parola. Chi imprime il moto alla natura? Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi fa muovere gli animali? Dio.

Se l'anima umana fosse una personcina rinchiusa nel nostro corpo per dirigerne i movimenti e le idee, questo non indicherebbe nell'eterno artefice del mondo un'impotenza e un artificio indegni di lui? Dio, dunque, non sarebbe stato capace di creare degli automi che avessero in sé il dono del movimento e del pensiero? Voi mi avete insegnato il greco, m'avete fatto leggere Omero. Io giudico Vulcano un fabbro divino, quando foggia dei tripodi d'oro che si muovono da soli per andare al concilio degli dei; ma questo stesso Vulcano mi sembrerebbe un volgare ciarlatano se avesse nascosto, nell'interno di quei tripodi, qualcuno dei suoi garzoni che, non visto, li facesse muovere.

Certi frigidi sognatori han creduto una bella idea che i pianeti possano essere mossi da geni che li spingono senza posa: ma non possiamo credere che Iddio sia stato ridotto a questo misero artificio. In breve, perché adoperare due forze per un'opera, quando ne basta una? Non oserete negare che Dio abbia il potere di rendere animato quell'ente assai poco conosciuto che noi chiamiamo «materia»; Perché dunque dovrebbe servirsi di un altro ente per animarla?

Ma c'è di più: che cosa sarebbe quest'anima, che voi elargite così liberalmente al nostro corpo? Da dove verrebbe? E quando? Dovremmo immaginare il Creatore dell'Universo continuamente intento a spiare ogni accoppiamento degli uomini e delle donne per cogliere il momento esatto in cui un germe esce dal corpo dell'uomo ed entra nel corpo della donna, e inviare, in un baleno, un'anima in quel germe? E se quel germe muore, che sarà di quell'anima? Sarà stata creata inutilmente o dovrà attendere un'altra occasione?

Mi sembra, ve lo confesso, una strana occupazione per il padrone dell'Universo. E non solo egli dovrebbe sorvegliare continuamente ogni copulazione delle specie umana; ma dovrebbe fare lo stesso anche con tutti gli animali: perché essi han tutti, come noi, memoria, idee, passioni; e se crediamo necessaria un'anima per formare questi sentimenti, questa memoria, queste idee e queste passioni, dobbiamo anche credere che Dio lavori senza posa a fabbricare anime per gli elefanti e per le pulci, per i gufi, per i pesci e per i bonzi. Che immagine sarebbe questa dell'architetto di tanti milioni di mondi, obbligato a fabbricar di continuo tante molle invisibili per perpetuare l'opera sua?

Ecco una piccolissima parte delle ragioni che possono farmi dubitare dell'esistenza dell'anima.

CU-SU

Voi ragionate in buona fede, e questo sentimento virtuoso, quand'anche fosse erroneo, sarebbe gradito all'Essere supremo. Potete anche ingannarvi, ma dal momento che non ne avete l'intenzione, siete scusabile. Ma pensate che finora mi avete proposto soltanto dei dubbi; e questi dubbi sono tristi. Vogliate ammettere delle verosimiglianze più consolanti. È duro essere annientati: cercate di sperare di sopravvivere. Voi sapete che un pensiero non è materia, che non ha nessun rapporto con la materia: perché dunque vi sarebbe così difficile credere che Dio abbia messo in voi un principio divino che, non potendo mai essere dissolto, non può essere soggetto alla morte? Osereste affermare che è impossibile che abbiate un'anima? No, senza dubbio; e se ciò è possibile, non è verosimile che ne abbiate una? Potreste respingere un sistema così bello e così necessario al genere umano? Solo qualche difficoltà basterà a scoraggiarvi?

KU

Vorrei abbracciare questo sistema, ma vorrei che mi venisse provato. Non è in poter mio credere a qualcosa che non mi risulti evidente. Io sono sempre stato colpito da questa grande idea, che Dio abbia creato ogni cosa, che sia dovunque, che penetri in tutto, e a tutto dia moto e vita; e se egli è in tutte le parti del mio essere come egli è in tutte le parti della natura, non vedo che bisogno posso avere di un'anima. Che me ne faccio di questo piccolo essere subalterno, quando sono animato da Dio stesso? A che mi servirebbe quest'anima? Non siamo noi a darci le nostre idee, poiché le abbiamo quasi sempre nostro malgrado, ne abbiamo persino quando dormiamo; e tutto avviene in noi senza che ce ne occupiamo. L'anima avrebbe un bel dire al sangue e agli spiriti animali: «Circolate, vi prego, in questo modo, per farmi piacere.» Essi circoleranno sempre nel modo prescritto loro da Dio. Preferisco essere la macchina di un Dio che mi è dimostrato, che non la macchina di un'anima della quale dubito.

CU-SU

Ebbene, se Dio stesso vi anima, attento a non macchiare con dei delitti quel Dio che è in voi; e se egli vi ha dato un'anima, che quest'anima non lo offenda mai. Secondo l'uno o l'altro sistema, voi avete una volontà, siete libero; vale a dire, avete il potere di fare ciò che volete: servitevi di tale potere per servire il Dio che ve lo ha dato! È bene che siate filosofo, ma è necessario che siate giusto. Lo sarete ancora di più se crederete di avere un'anima immortale.

Degnatevi di rispondermi: non è forse vero che Dio è la suprema giustizia?

KU

Senza dubbio; e quand'anche fosse possibile ch'egli cessasse di esserlo (e questa è una bestemmia), io vorrei pur sempre agire con equità.

CU-SU

Non è forse vero che, quando sarete sul trono, il vostro dovere sarà di ricompensare le azioni virtuose e di punire quelle criminali? Vorreste forse che Dio non facesse quel che voi stesso avete il dovere di fare? voi sapete che in questa vita ci sono, e ci saranno sempre, virtù disgraziate e delitti impuniti; è dunque necessario che il bene e il male trovino il loro giudizio in un'altra vita. È quest'idea, così semplice, così naturale, così generale, quella che ha istituito in tanti popoli la credenza nell'immortalità delle nostre anime e nella giustizia divina che le giudicherà quando esse avranno abbandonato le spoglie mortali. C'è un sistema più ragionevole di questo, più confacente alla Divinità, e più utile al genere umano?

KU

Ma perché, allora, tante nazioni non hanno adottato questo sistema? Voi sapete che nella nostra provincia vivono circa duecento famiglie di antichi Sinus, che una volta abitavano una parte dell'Arabia Petrea: né costoro, né i loro antenati hanno mai creduto nell'anima immortale. Essi hanno i loro Cinque Libri, come noi abbiamo i nostri Cinque King; ne ho letto la traduzione: le loro leggi, necessariamente simili a quelle di tutti gli altri popoli, ordinano loro di rispettare i loro padri, di non rubare, di non mentire, di non essere né adulteri né omicidi; ma queste stesse leggi non parlano né di ricompense né di castighi in un'altra vita.

CU-SU

Se quest'idea non è ancora sviluppata presso questo povero popolo, lo sarà senza dubbio un giorno. Ma che ci importa una sventurata piccola nazione, quando i babilonesi, gli egiziani, gli indiani e tutte le nazioni civili hanno ricevuto questo dogma salutare? Se foste malato, rifiutereste un rimedio approvato da tutti i cinesi, col pretesto che alcuni barbari delle montagne non han voluto servirsene? Dio vi ha dato la ragione: essa vi dice che l'anima deve essere immortale; è dunque Dio stesso che ve lo dice.

KU

Ma come potrò essere ricompensato o punito, quando non sarò più io, quando non sarò più niente di ciò che costituisce la mia persona? Solo in virtù della mia memoria io sono sempre io: se durante la mia ultima malattia perdo la memoria, bisognerà dunque che dopo la mia morte un miracolo me la restituisca per farmi rientrare nell'esistenza che ho perduto?

CU-SU

Se un principe avesse sgozzato la sua famiglia per regnare, se avesse tiranneggiato i suoi sudditi, credete che se la caverebbe dicendo a Dio: «Non sono più io, ho perduto la memoria, tu t'inganni, non sono più la stessa persona.» Credete che Dio si contenterebbe di questo sofisma?

KU

Ebbene, sia, m'arrendo. Volevo fare il bene per me stesso, lo farò anche per piacere all'Essere supremo; pensavo che bastasse che la mia anima fosse giusta in questa vita, spererò ch'essa sia felice in un'altra. Vedo che questa opinione è buona per i popoli e per i principi, ma il culto di Dio mi mette in imbarazzo.








“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
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04/06/2007 19:54
 
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Dialogo quarto

CU-SU

Cos'è che vi urta nel nostro Shu-King, questo primo libro canonico così rispettato da tutti gli imperatori cinesi? Voi coltivate un campo con le vostre mani regali per dare l'esempio al popolo e ne offrite le primizie allo Shang-ti, al Tien, all'Essere supremo; gli sacrificate quattro volte l'anno; siete re e pontefice; promettete a Dio di fare tutto il bene che sarà in vostro potere. C'è in questo qualcosa che vi ripugna?

KU

Me ne guardo bene dal trovarvi da ridire. So che Dio non ha nessun bisogno né dei nostri sacrifici né delle nostre preghiere; il suo culto non è stabilito per lui, ma per noi. Amo molto pregare: ma vorrei anzitutto che le mie preghiere non fossero ridicole; perché, quando avrò ben gridato che «la montagna dello Shang-ti è una montagna grassa e che non bisogna guardare le montagne grasse»; quando avrò fatto fuggire il sole e inaridire la luna, queste insensatezze saranno gradite all'Essere supremo, utili ai miei sudditi e a me stesso?

Soprattutto non posso soffrire la demenza delle sette che ci circondano: da un lato vedo Lao Tze, concepito da sua madre in virtù dell'unione del cielo e della terra, e di cui essa rimase incinta ottant'anni: io non ho maggior fede nella sua dottrina dell'annientamento e del deperimento universale di quanto ne abbia nei capelli bianchi con cui nacque, o nella vacca nera sulla quale salì per andare a predicare la sua dottrina.

E nemmeno il dio Fo m'impressiona di più, anche se ha avuto per padre un elefante bianco, e promette una vita immortale.

Ciò che soprattutto mi contraria è il fatto che tali fantasticherie sono predicate ogni giorno dai bonzi, che seducono il popolo per governarlo; essi si rendono rispettabili con mortificazioni che insultano la natura: gli uni si privano per tutta la vita degli alimenti più salutari, come se non si potesse piacere a Dio se non mangiando male; gli altri si mettono attorno al collo una catena da forzato, della quale talvolta si rendono degnissimi; si piantano chiodi nelle cosce, come se queste fossero delle tavole; e il popolo li segue in folla. Se un re emana qualche editto che loro non approvano, vi dicono freddamente che quell'editto non si trova nei commentari del dio Fo e che è meglio obbedire a Dio che agli uomini. Come rimediare a una malattia popolare così stravagante e pericolosa? Voi sapete che la tolleranza è il principio del governo della Cina e di tutti quelli dell'Asia; ma quest'indulgenza non è poi funesta, quando espone un impero ad essere sconvolto dalle opinioni dei fanatici?

CU-SU

Che Shang-ti mi preservi dal voler spegnere in voi questo spirito di tolleranza, questa virtù così rispettabile, che è per le anime ciò che la possibilità di nutrirsi è per i corpi. La legge naturale permette a ciascuno di credere quel che vuole, come di nutrirsi di quel che preferisce. Un medico non ha il diritto di uccidere i suoi malati perché non hanno osservato la dieta prescritta. Un principe non ha il diritto di far impiccare quei sudditi che non la pensano come lui: ha però il diritto di impedire i disordini; e, se è saggio, gli sarà facile sradicare le superstizioni. Sapete cosa accadde a Daone, sesto re della Caldea, circa quattromila anni fa?

KU

No, non ne so niente; mi fate cosa grata se me lo racconterete.

CU-SU

I sacerdoti caldei ebbero la bella idea di adorare i lucci dell'Eufrate; pretendevano che un famoso luccio, chiamato Oannes, avesse loro insegnato una volta la teologia; che questo luccio fosse immortale, lungo tre piedi e con una piccola mezzaluna sulla coda. Per rispetto a questo Oannes era proibito mangiar lucci. Scoppiò una grande disputa tra i teologi per sapere se il luccio Oannes fosse maschio o portasse uova. Le due fazioni si scomunicarono a vicenda e vennero più volte alle mani. Ecco cosa escogitò il re Daone per far cessare il disordine.

Egli ordinò un rigoroso digiuno di tre giorni ai due partiti; dopo di che fece venire i partigiani del luccio con le uova e li fece assistere al suo pranzo; si fece portare un luccio lungo tre piedi, al quale aveva fatto mettere una mezzaluna sulla coda. «Sarebbe questo il vostro Dio?» chiese ai dottori. «Si, Maestà, perché ha una mezzaluna sulla coda e ha sicuramente delle uova.» Il re dette ordine di aprire il luccio, che risultò essere invece un bellissimo maschio. «Vedete bene,» disse, «che non è questo il vostro Dio, perché è maschio.» E il luccio fu mangiato dal re e dai suoi satrapi, con grande soddisfazione dei teologi delle uova, i quali vedevano che il Dio dei loro avversari era stato fritto.

Poi, il re mandò a cercare i dottori del partito contrario: fu mostrato loro un Dio lungo tre piedi, con una mezzaluna sulla coda; costoro assicurarono che quello era il dio Oannes, e che era maschio: fu fritto come l'altro e, aperto, trovato pieno di uova. Allora, essendo i due partiti rimasti assai confusi e delusi e non avendo pranzato, il buon re Daone disse di non avere altro che lucci da offrir loro. Essi ne mangiarono ingordamente, lucci maschi e lucci femmine. La guerra civile si placò, e ciascuno benedisse il buon re Daone; e i cittadini, da allora in poi, mangiarono tutti i lucci che vollero.

KU

Mi è molto simpatico questo re Daone, e mi riprometto d'imitarlo alla prima occasione che mi si offrirà. Impedirò sempre, finché potrò (senza fare violenza a nessuno), che si adorino dei Fo e dei lucci.

So che nel Pegu e nel Tonchino ci sono piccoli dei e piccoli talapoini che fanno scendere la luna nel suo ultimo quarto, e che predicono chiaramente l'avvenire; insomma, vedono chiaramente quel che non esiste, poiché l'avvenire non esiste. Impedirò fin che potrò che i talapoini vengano da me a prendere il futuro per il presente e a far scendere in terra la luna. Che miseria che ci siano delle sette che vanno di città in città a raccontare i loro sogni, come i ciarlatani che vendono droghe! Che vergogna per lo spirito umano, che certe piccole nazioni pensino che la verità stia dalla loro parte, e che il vasto impero della Cina sia perduto nell'errore! L'Essere eterno non sarebbe altri che il Dio dell'isola di Formosa o di Borneo? e avrebbe abbandonato tutto il resto dell'universo? Mio caro Cu-Su, Dio è padre di tutti gli uomini; egli permette a tutti di mangiare il luccio; e il più degno omaggio che si possa rendergli è di essere virtuosi; un cuore puro è il più sacro di tutti i templi, come diceva il grande imperatore Hiao.



Dialogo quinto

CU-SU

Poiché amate la virtù, come la praticherete quando sarete re?

KU

Non commettendo ingiustizie, né contro i miei vicini né contro il mio popolo.

CU-SU

Non basta non fare il male: dovrete fare il bene; nutrirete i popoli, occupandoli in lavori utili, e non premiando l'ozio; abbellirete le grandi strade; farete scavare canali; costruirete edifici pubblici, incoraggerete tutte le arti, ricompenserete il merito in ogni campo, perdonerete le colpe involontarie.

KU

È quel che io chiamo non essere ingiusto: dato che questi sono altrettanti doveri.

CU-SU

Pensiero degno di un re. Ma c'è il re e c'è l'uomo: la vita pubblica e la vita privata. Presto vi sposerete. Quante mogli contate di avere?

KU

Credo che una dozzina mi basterà; un numero maggiore potrebbe sottrarmi il tempo destinato agli affari. Non mi piacciono affatto quei re che hanno trecento mogli, settecento concubine, e migliaia di eunuchi per servirle. Questa mania degli eunuchi, soprattutto, mi sembra un troppo grave oltraggio alla natura umana. Ammetto tutt'al più che si castrino i galli: diventano più buoni da mangiare; ma nessuno ha ancora infilzato degli eunuchi allo spiedo. A che serve la loro mutilazione? Il Dalai Lama ne ha cinquanta per cantare nella sua pagoda: vorrei sapere se lo Shang-ti gode veramente nell'ascoltare le voci bianche di quei cinquanta castrati.

Trovo anche molto ridicolo che ci siano bonzi che non si sposino. Si vantano di essere più saggi degli altri cinesi: ebbene, facciano allora dei figli saggi! Bella maniera d'onorare lo Shang-ti: privandolo di adoratori! Singolare modo di servire il genere umano, dando l'esempio di come annientarlo! Il buon piccolo Lama chiamato Stelca ed isant Errepi usava dire che «ogni prete doveva fare più figli che poteva»; egli ne dava l'esempio, e fu un uomo assai utile al suo tempo lo farei sposare tutti i lama e tutti i bonzi, e le lamesse e le bonzesse che avranno vocazione per questa santa opera: diventeranno certamente migliori cittadini, credo che con ciò farò un gran bene al regno di Lu.

CU-SU

Oh, che buon principe avremo in voi! Mi fate piangere di gioia. Ma non vi accontenterete di avere solo mogli e sudditi; perché, certo, non si può passare la giornata a fare editti e bambini. Avrete senza dubbio degli amici.

KU

Ne ho già, e buoni, che mi avvertono dei miei difetti; io mi prendo la libertà di riprendere i loro; essi mi consolano, io li consolo; l'amicizia è il balsamo della vita, vale più di quello del chimico Erueil ed anche dei sacchetti del gran Ranoud. Sono sbalordito che non si sia fatto dell'amicizia un precetto religioso: ho voglia d'inserirlo nel mio rituale.

CU-SU

Guardatevene bene: l'amicizia è già sacra in se stessa; non fatene mai un obbligo; bisogna che il cuore sia libero; e poi, se faceste dell'amicizia un precetto, un mistero, un rito, una cerimonia, ci sarebbero mille bonzi che, predicando e scrivendo le loro fantasie, la renderebbero ridicola: non bisogna esporla a questa profanazione.

Ma come tratterete i vostri nemici? Confucio raccomanda in venti passi d'amarli. Non vi sembra un po' difficile?

KU

Amare i propri nemici? Mio Dio, niente è così facile.

CU-SU

Cosa intendete?

KU

Come bisogna intenderlo, credo. Ho fatto il mio tirocinio di guerra sotto il principe di Décon, contro il principe Vis-Brunck: quando uno dei nostri nemici era ferito e cadeva nelle nostre mani, ci prendevamo cura di lui come di un fratello; spesso abbiamo ceduto il nostro letto ai nostri nemici feriti e prigionieri, coricandoci vicino a loro, in terra, su pelli di tigre; li abbiamo serviti noi stessi: che volete di più? Che li amassimo come si ama la propria amante?

CU-SU

Sono molto edificato da quello che mi dite, e vorrei che tutte le genti vi sentissero: perché m'assicurano che ci sono dei popoli tanto insolenti da osar dire che noi non conosciamo la vera virtù; che le nostre buone azioni non sono che splendidi peccati, e che abbiamo bisogno delle lezioni dei loro talapoini, per imparare i buoni principi. Ahimè! Disgraziati! Da ieri soltanto hanno imparato a leggere e a scrivere, e pretendono di dar lezione ai loro maestri!



Dialogo sesto

CU-SU

Non starò a enumerarvi tutti i luoghi comuni che si continuano a ripetere fra noi da cinque o seimila anni su tutte le virtù. Ce ne sono alcune che servono solo a noi stessi, come la prudenza per guidare le nostre anime, la temperanza per governare i nostri corpi: sono semplici precetti di politica e di salute. Le vere virtù sono quelle che sono utili alla società, come la fedeltà, la magnanimità, la beneficenza, la tolleranza ecc. Grazie al cielo, non c'è tra noi vecchietta che non insegni tutte queste virtù ai suoi nipotini: sono i rudimenti della nostra educazione, in campagna come nelle città. Ma c'è una grande virtù che comincia a cadere in disuso, e me ne dolgo.

KU

Qual è? Ditemelo, presto, e cercherò di rimetterla in onore.

CU-SU

È l'ospitalità. Questa virtù così sociale, questo vincolo sacro fra gli uomini, comincia ad allentarsi da quando abbiamo le locande. Questa perniciosa istituzione ci è venuta, dicono, da certi selvaggi dell'Occidente. A quanto pare, quei miserabili non hanno case per accogliere i viaggiatori. Che piacere accogliere, nella grande città di Lu, un generoso straniero che arrivi da Samarcanda, per il quale io divento da quel momento un uomo sacro, e che sarà obbligato da tutte le leggi umane e divine a ricevermi a casa sua quando viaggerò in Tartaria, e ad essermi intimo amico!

I selvaggi di cui vi parlo non ricevono gli stranieri se non per denaro in disgustose catapecchie; e vendono cara quest'infame accoglienza. Poi sento dire che quei disgraziati si credono superiori a noi: si vantano d'avere una morale più pura. Pretendono che i loro predicatori siano migliori di Confucio; e che infine spetti loro insegnarci la giustizia, forse perché essi vendono del pessimo vino lungo le strade maestre, e le loro donne vanno in giro come pazze per le strade, e ballano, mentre le nostre allevano bachi da seta.

KU

Io trovo bellissima l'ospitalità; la esercito con piacere, ma ne temo gli abusi. C'è gente, verso il gran Tibet, che abita in case molto misere, cui piace andare di qua e di là e che viaggerebbe per un nulla fino in capo al mondo; ma quando poi, voi andaste nel gran Tibet per godere presso di loro del diritto dell'ospitalità, non trovereste né letto né cena; e questo può portare a disgustarci della nostra cortesia.

CU-SU

È un lieve inconveniente; e sarà facile rimediarvi ricevendo solo persone ben raccomandate. Non c'è virtù che non abbia i suoi pericoli: proprio per questo è bello praticarla.

Quant'è saggio e santo il nostro Confucio! Non c'è virtù ch'egli non ispiri; la felicità degli uomini è legata ad ogni sua sentenza; eccone una che mi ritorna alla memoria, la cinquantesimaterza:

«Ricambia i benefici con i benefici, e non ti vendicare mai delle ingiurie.»

Quale massima, quale legge potrebbero opporre i popoli dell'Occidente a una morale così pura? E in quanti luoghi Confucio raccomanda l'umiltà! Se questa virtù venisse praticata non si avrebbero mai liti sulla terra.

KU

Ho letto tutto quel che Confucio e i saggi dei secoli precedenti hanno scritto sull'umiltà; ma mi sembra che essi non ne abbiano mai dato una definizione abbastanza precisa. Forse c'è poca umiltà nell'osare criticarli; ma io ho almeno l'umiltà di confessare che non li ho capiti. Ditemi cosa ne pensate.

CU-SU

Obbedirò umilmente. Io credo che l'umiltà sia la modestia dell'anima: perché la modestia esteriore è semplicemente urbanità. L'umiltà non può consistere nel negare a se stessi la superiorità che si sia acquisita sugli altri: un buon medico non può nascondersi di saperne più del suo malato in delirio; chi insegna astronomia deve riconoscere che ne più dei suoi discepoli; non può impedirsi di crederlo, ma non deve presumere troppo di sé. L'umiltà non è l'abiezione; è il correttivo dell'amor proprio, come la modestia è il correttivo dell'orgoglio.

KU

Ebbene, è nell'esercizio di tutte queste virtù e nel culto di un Dio semplice e universale che io voglio vivere, lontano dalle chimere dei sofisti e dalle illusioni dei falsi profeti. L'amore del prossimo sarà la mia virtù sul trono, e l'amore di Dio la mia religione. Disprezzerò il dio Fo e Lao Tze e Visnù, che si è incarnato tante volte tra gli indiani, e Sammonocodom che discese dal cielo per giocare all'aquilone fra i siamesi, e i Camni, che arrivarono in Giappone dalla luna.

Sventura a quel popolo così stupido e barbaro da credere che ci sia un Dio soltanto per la sua provincia. È bestemmia. Come! La luce del sole rischiara gli occhi di tutti, e la luce di Dio non dovrebbe rischiarare che una piccola e debole nazione in un angolo del globo? Che orrore! e che idiozia! La Divinità parla al cuore di tutti gli uomini, e i legami della carità devono unirli da un capo all'altro dell'universo.

CU-SU

O saggio Ku! Voi avete parlato come un uomo ispirato dallo stesso Shang-ti. Sarete un degno principe. Ero il vostro maestro, e voi siete diventato il mio.






“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
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CATECHISMO DEL CURATO



ARISTONE

Ebbene, caro Teotimo, state per diventare parroco di campagna?

TEOTIMO

Sì, m'han dato una piccola parrocchia, e io la preferisco a una grande. Non ho che una porzione limitata d'intelligenza e attività; non potrei certo dirigere settantamila anime, dato che io ne ho una sola. Ho sempre ammirato la fiducia di coloro che si caricano sulle spalle immensi distretti; quanto a me non mi sento capace di una tale amministrazione; un gregge numeroso mi spaventa, mentre potrò fare un po' di bene a uno piccolo. Ho studiato giurisprudenza abbastanza da impedire, fin tanto che lo potrò, che i miei poveri parrocchiani si rovinino con i processi. So quel che basta di medicina da indicare loro i rimedi più semplici quando saranno ammalati. Conosco abbastanza l'agricoltura per poter dare loro, qualche volta, utili consigli. Il signore del luogo e sua moglie, gente onesta, nient'affatto bigotta, mi aiuteranno a fare del bene. Mi lusingo di riuscire a vivere abbastanza felice, e che gli altri non si trovino male con me.

ARISTONE

Non vi addolora il fatto di non avere moglie? Sarebbe una grande consolazione; sarebbe dolce, dopo avere predicato, cantato, confessato, comunicato, battezzato, seppellito, trovare a casa una donna gentile, piacevole e onesta, che si prendesse cura della vostra biancheria, e della vostra persona, che vi tenesse allegro quando state bene e vi curasse quando siete ammalato, che vi desse dei graziosi bambini, la cui buona educazione sarebbe utile allo Stato. Vi compiango, voi che servite gli uomini, d'essere privato di una consolazione così necessaria agli uomini:

TEOTIMO

La Chiesa greca si preoccupa d'incoraggiare i parroci al matrimonio; la Chiesa anglicana e quelle protestanti hanno la medesima saggezza; la Chiesa latina ha una saggezza contraria: bisogna che io mi sottometta. Forse oggi che lo spirito filosofico ha compiuto tanti progressi, un concilio farebbe leggi più favorevoli all'umanità di quelle del concilio di Trento. Ma, nell'attesa, io devo conformarmi alle leggi vigenti. Mi costa molto, lo so; ma tanti che valevano più di me si sono sottomessi, e non sarò certo io a mormorare.

ARISTONE

Voi siete istruito e sapete parlare con saggia eloquenza. Come pensate di predicare a gente di campagna?

TEOTIMO

Come predicherei davanti ai re. Parlerò sempre di morale, mai di controversie religiose. Dio mi guardi dall'approfondire la grazia concomitante, la grazia efficace, alla quale si resiste, la grazia sufficiente, che non è sufficiente; dall'esaminare se gli angeli che mangiarono con Abramo e con Loth avevano un corpo o se fecero finta di mangiare. Ci sono mille cose che il mio auditorio non capirebbe, e io neppure. Cercherò di formare uomini dabbene, e d'essere tale anch'io; ma non ne farò dei teologi, e io stesso lo sarò meno che potrò.

ARISTONE

Che buon curato! Voglio comperare una casa di campagna nella vostra parrocchia. Ditemi, vi prego, come vi comporterete nella confessione.

TEOTIMO

La confessione è una cosa eccellente, un freno ai delitti, inventato nell'età più remota; la celebrazione di tutti gli antichi misteri comprendeva la confessione; noi abbiamo imitato e santificato questa saggia pratica. Essa è ottima per predisporre i cuori ulcerati dall'odio a perdonare, e per indurre i ladruncoli a restituire quanto possono aver rubato al loro prossimo. Ha però diversi inconvenienti. Ci sono molti confessori indiscreti, soprattutto fra i monaci, che insegnano talvolta alle ragazze più stupidaggini di quante potrebbero indurle a fare tutti i giovanotti di un villaggio. Niente particolari, nella confessione: non è un interrogatorio giudiziario, ma la confessione delle proprie colpe che un peccatore rende all'Essere supremo nelle mani di un altro peccatore, che poi si confesserà a sua volta. Questa confessione salutare non è fatta per soddisfare la curiosità di un altro uomo.

ARISTONE

E di scomuniche, ne farete uso?

TEOTIMO

No. In certi rituali si scomunicano le cavallette, gli stregoni e i commedianti: io non proibirò alle cavallette d'entrare in chiesa, dato che esse non ci entrano mai; non scomunicherò gli stregoni, perché non esiste nessuno stregone; e, riguardo ai commedianti, siccome sono pensionati dal re e autorizzati dal magistrato, mi guarderò bene dal diffamarli. Vi confesserò anzi, in tutta confidenza, che mi piacciono le commedie, quando non offendono i costumi. Mi piacciono molto Il misantropo, Atalia e altri drammi che mi sembrano scuole di virtù e di buone maniere. Il signore del mio villaggio fa rappresentare nel suo castello di queste commedie da giovani di talento: queste rappresentazioni ispirano la virtù attraverso il piacere; formano il gusto; insegnano a parlare e a pronunziar bene. Le reputo un piacere innocentissimo e utilissimo; mi riprometto di assistere anch'io a questi spettacoli per mia istruzione, ma in un palchetto munito di una grata, per non scandalizzare gli spiriti deboli.

ARISTONE

Più mi scoprite i vostri sentimenti, e più desidero diventare vostro parrocchiano. Ma c'è un punto molto importante che mi preoccupa. Come farete per impedire ai contadini di ubriacarsi nei giorni di festa? È il loro antico modo di celebrarli. Vedete gli uni, oppressi da un liquido veleno, la testa penzoloni sui ginocchi, le braccia cascanti, ridotti a non vedere né capire più niente, in uno stato molto inferiore a quello dei bruti, riportati a casa vacillanti dalle mogli disperate, incapaci di lavorare il giorno dopo, spesso malati e abbruttiti per il resto della loro vita. Ne vedete altri diventati furiosi per il vino bevuto, suscitare liti cruente, picchiare ed essere picchiati; e qualche volta, queste scene orribili che sono la vergogna del genere umano, eccole esplodere in un delitto. Bisogna confessarlo: lo Stato perde più sudditi nei giorni di festa che in guerra. Come riuscirete a far diminuire nella vostra parrocchia un abuso così esecrabile?

TEOTIMO

Ho già deciso: permetterò, anzi li inciterò a coltivare i loro campi anche nei giorni di festa, dopo il servizio divino, che celebrerò di primo mattino. È l'ozio della festa che li spinge all'osteria. I giorni di lavoro non sono mai giorni di disordini e di omicidi. Il lavoro moderato contribuisce alla salute del corpo e a quella dell'anima; per di più questo lavoro è necessario allo Stato. Supponiamo cinque milioni di uomini che ogni giorno producono, in media, per dieci soldi, e questo calcolo è molto modesto; rendete questi cinque milioni di uomini inutili trenta giorni all'anno: fa trenta volte cinque milioni di monete da dieci soldi che lo Stato perde in manodopera. Ora, certamente Dio non ha mai ordinato né questa perdita né l'ubriachezza.

ARISTONE

Così concilierete le preghiere e il lavoro; Dio ordina l'una e l'altro. Così servirete Dio e il Prossimo. Ma nelle dispute ecclesiastiche, quale partito prenderete?

TEOTIMO

Nessuno. Non si discute mai sulla virtù, perché essa viene da Dio; si disputa su opinioni, che vengono dagli uomini.

ARISTONE

Che buon curato. Che buon curato.



CATECHISMO DEL GIAPPONE



L'INDIANO

È vero che una volta i giapponesi non sapevano fare cucina, che avevano sottomesso il loro regno al gran lama, il quale decideva in modo sovrano e del loro bere e del loro mangiare, e vi inviava di tanto in tanto un piccolo lama, che veniva a raccogliere i tributi e vi dava in cambio un segno di protezione, fatto con le due prime dita e con il pollice?

IL GIAPPONESE

Ahimè, è vero. Figuratevi che tutti i posti di canusi, che sarebbero i grandi cucinieri della nostra isola, erano conferiti dal lama, e non erano dati per l'amor di Dio. Inoltre, ogni casa dei nostri secolari pagava annualmente un'oncia d'argento a quel gran cuoco del Tibet. Egli ci dava, come unica ricompensa, certi piatti di sapore abbastanza cattivo, chiamati «resti». E quando gli veniva qualche nuova fantasia, ad esempio quella di far guerra ai popoli di Tangut, ci imponeva nuovi tributi. Il nostro paese si lamentò spesso, ma senza alcun frutto; anzi, ad ogni lamentela finiva col pagare un po' di più. Finalmente l'amore, che fa tutto per il meglio, ci liberò da questa servitù. Uno dei nostri imperatori litigò col gran lama per una donna; ma bisogna confessare che quelli che più ci aiutarono in questa storia furono i nostri canusi, o peiscopi; dobbiamo a loro di essere riusciti a scuotere il giogo. Ed ecco come.

Il gran lama aveva una curiosa mania: credeva di aver sempre ragione: il nostro dairi e i nostri canusi vollero aver ragione anche loro, almeno qualche volta. Il gran lama trovò assurda questa pretesa; i nostri canusi tennero duro e ruppero per sempre con lui.

L'INDIANO

Bene. Da quel momento sarete stati certo felici e tranquilli.

IL GIAPPONESE

Niente affatto. Per quasi due secoli ci siamo perseguitati, lacerati e divorati. I nostri canusi volevano aver ragione ad ogni costo: solo da cento anni sono diventati ragionevoli. Così, da allora, possiamo fieramente considerarci una delle nazioni più felici della terra.

L'INDIANO

Ma come potete godere di tanta felicità, se è vero quello che mi hanno detto: che avete nel vostro impero dodici specie di cucine? Avrete dodici guerre civili all'anno.

IL GIAPPONESE

Perché? Se ci sono dodici osti, ciascuno dei quali ha una ricetta differente, bisognerà per questo tagliarsi la gola invece di mettersi a tavola? Al contrario, ognuno mangerà quel che preferisce, dal cuoco che riterrà migliore.

L'INDIANO

È vero che non si deve mai disputare sui gusti; ma invece se ne disputa, e la lite divampa.

IL GIAPPONESE

Dopo aver disputato a lungo, e aver capito finalmente che tutte quelle diatribe insegnano agli uomini solo a nuocersi, si prende alla fine la risoluzione di tollerarsi a vicenda; e questo è innegabilmente ciò che si può fare di meglio.

L'INDIANO

E chi sono, di grazia, questi osti che si dividono la vostra nazione nell'arte di mangiare e bere?

IL GIAPPONESE

Ci sono prima di tutto i berei, che non vi daranno da mangiare ne sanguinacci né lardo; essi sono attaccati all'antica cucina; preferirebbero morire piuttosto che lardellare un pollo; grandi calcolatori, del resto: se c'è un'oncia d'argento da dividere tra loro e gli altri undici cucinieri, cominciano col prenderne per sé la metà, e il resto è per quelli che sanno meglio contare.

L'INDIANO

Penso che voi non ceniate mai con questa gente

IL GIAPPONESE

No. Ci sono poi i pispati, i quali, in certi giorni della settimana, e anche per un lungo periodo dell'anno, preferirebbero cento volte mangiare per cento scudi di lumache, trote, sogliole, salmoni, storioni, piuttosto che una fricassea di vitello da pochi soldi.

Quanto a noi canusi, ci piace molto il bue, e un certo pasticcio che si chiama in giapponese pudding. Del resto, tutti ammettono che i nostri cuochi sono infinitamente più istruiti di quelli dei pispati. Nessuno ha approfondito meglio di noi il garum dei romani, né meglio conosciuto le cipolle dell'antico Egitto, la pasta di cavallette degli antichi arabi, la carne di cavallo dei tartari; c'è sempre qualcosa da imparare nei libri dei canusi, comunemente chiamati peiscopi.

Non perderò tempo a parlarvi di quelli che mangiano soltanto alla Terluo, né di quelli che sono per il regime di Vioncal, né dei batistatani, né degli altri; ma i queccari meritano un'attenzione particolare. Sono i soli convitati che non ho mai veduto ubriacarsi né bestemmiare. È molto difficile ingannarli, ma loro non vi inganneranno mai. Sembrerebbe che il precetto d'amare il nostro prossimo come noi stessi sia stato fatto solo per loro; perché, in verità, come può un buon giapponese vantarsi d'amare il suo prossimo come se stesso, quando va, per un po' di denaro, a tirargli una palla di piombo nel cervello o a sgozzarlo con un kriss largo quattro dita, il tutto secondo le ottime regole dell'arte della guerra? Certo, espone anche se stesso a essere sgozzato o a ricevere una palla in testa; e perciò si può dire con molta più verità che egli odia il suo prossimo come se stesso. I queccari non hanno mai avuto di queste frenesie: dicono che i poveri umani sono vasi di argilla fatti per durare pochissimo, e che non vale la pena che se ne vadano a cuor leggero gli uni contro gli altri a farsi a pezzetti.

Vi confesso che, se non fossi canuso, non mi dispiacerebbe essere queccaro: dovete riconoscere che è difficile attaccar lite con cuochi così pacifici. Ce ne sono poi altri, in grandissimo numero, che vengono chiamati diesti: costoro danno da mangiare a tutti indifferentemente e da loro siete liberi di mangiare tutto quello che vi piace, con lardo o senza, con le uova, con l'olio, pernice o salmone, vino bianco o vino rosso; tutto ciò per loro è indifferente; purché voi rivolgiate qualche preghiera a Dio prima o dopo il desinare, o anche semplicemente prima di colazione, e siate gente dabbene, rideranno con voi a spese del gran lama (cui ciò non farà alcun male) e di Terluo, di Vioncal, di Memnone ecc. È solo necessario che i nostri diesti ammettano che i nostri canusi sono dottissimi cuochi, e soprattutto che non parlino mai di ridurre le nostre rendite; e allora vivremo tutti insieme nel più pacifico dei modi.

L'INDIANO

Ma, infine, bisogna pur che ci sia una cucina dominante: quella del re.

IL GIAPPONESE

È vero. Ma quando il re del Giappone ha mangiato bene, deve essere di buon umore e non deve impedire la digestione dei suoi fedeli sudditi.

L'INDIANO

E se, in barba al re, dei testardi volessero mangiare delle salsicce per le. quali il re prova avversione, e si riunissero in quattro o cinquemila, armati di graticole per farle cuocere, insultando quelli che non ne mangiano?

IL GIAPPONESE

Allora bisogna punirli come ubriachi che turbano la quiete pubblica. Noi abbiamo ovviato a questo pericolo. Solo coloro che seguono la cucina del re possono ricevere cariche dallo Stato; gli altri possono mangiare a loro gusto, ma sono esclusi dalle cariche. Gli assembramenti sono assolutamente vietati e puniti subito, senza remissione; tutte le liti a tavola sono accuratamente represse, secondo il precetto del nostro grande cuoco giapponese, che ha scritto in lingua sacra, Suti Raho Cus flac.

Natis in usum laetitiae scyphis

Pugnare Thracum est...

il che vuol dire: «Il pranzo è fatto per un piacere moderato e non per buttarsi in faccia i bicchieri.»

Con queste massime, qui da noi si vive felici. La nostra libertà è sicura sotto i nostri «taicosema»; le nostre ricchezze aumentano, abbiamo duecento giunche di linea, e siamo il terrore dei nostri vicini.

L'INDIANO

E perché allora quel buon verseggiatore Recina, figlio del grande poeta indiano Recina così delicato, esatto, armonioso ed eloquente, ha detto, in un poema didattico in rima, intitolato La Grâce e non Les Grâces:

Le Japon, où jadis brilla tant de lumière,

N'est plus qu'un triste amas de folles visions?

IL GIAPPONESE

Il Recina di cui parlate è lui stesso un gran visionario. Quel povero indiano ignora forse che noi gli abbiamo insegnato cos'è la luce, e che se oggi si conosce in India il vero corso dei pianeti, è merito nostro: che noi soli abbiamo insegnato agli uomini le leggi fondamentali della natura e il calcolo dell'infinito; che, se vogliamo scendere a cose d'uso più comune, la gente del suo paese ha imparato da noi a costruire le giunche secondo proporzioni matematiche, e che essa deve a noi perfino quelle calze tessute al telaio con cui si copre le gambe? Sarebbe mai possibile che, avendo inventato tante cose ammirevoli ed utili, noi non fossimo che dei pazzi, e che l'unico saggio fosse un uomo che ha messo in versi i sogni altrui? Ditegli che ci lasci cucinare a modo nostro, e lui faccia, se vuole, dei versi su argomenti più poetici.

L'INDIANO

Che volete! Ha i pregiudizi del suo paese, quelli della sua setta, e i suoi personali.

IL GIAPPONESE

Un po' troppi, già!






“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
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04/06/2007 20:59
 
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CATECHISMO DEL GIARDINIERE, OVVERO DIALOGO DEL PASCIÀ TUCTAN E DEL GIARDINIERE KARPOS



TUCTAN

Eh si, amico Karpos, li vendi cari i tuoi ortaggi, ma sono buoni... Di che religione sei, adesso?

KARPOS

Sinceramente, pascià, sarei imbarazzato a dirvelo. Quando la nostra piccola isola di Samo apparteneva ai greci, mi ricordo che mi facevano dire che l'aghion pneuma procedeva solamente dal tu patru; mi facevano pregare Dio in piedi, le mani giunte e mi proibivano di bere latte in quaresima. Poi sono venuti i veneziani, e allora il mio parroco veneziano mi ha fatto dire che l'aghion pneuma veniva dal tu patru e dal tu uiu; mi ha permesso di bere il latte e m'ha fatto pregare Dio in ginocchio. Poi sono tornati i greci, che hanno cacciato i veneziani, e così ho dovuto rinunciare al tu uiu e al latte. Voi infine avete cacciato i greci, e io vi sento gridare Allah illa Allah a perdi fiato. Io non so più bene quel che sono: amo Dio con tutto il cuore, e vendo i miei ortaggi a un prezzo molto ragionevole.

TUCTAN

Hai dei fichi bellissimi.

KARPOS

Pascià, sono al vostro servizio.

TUCTAN

Dicono che hai anche una figlia graziosa.

KARPOS

Sì, pascià, ma lei non è al vostro servizio.

TUCTAN

E perché mai, straccione?

KARPOS

Perché sono un uomo onesto; e l'onestà mi permette di vendere i miei fichi, ma non mia figlia.

TUCTAN

E per quale legge non ti è permesso di vendere anche quel frutto?

KARPOS

Per la legge di tutti i giardinieri onesti; l'onore di mia figlia non è mio: appartiene a lei e non è una merce.

TUCTAN

Tu non sei dunque fedele al tuo pascià?

KARPOS

Fedelissimo nelle cose giuste, finché sarete il mio padrone.

TUCTAN

Ma se il tuo papa greco facesse una cospirazione contro di me, ti ordinasse in nome del tu patru e del tu uiu di prendervi parte, non saresti così devoto da ubbidirgli?

KARPOS

lo? Niente affatto. Me ne guarderei bene.

TUCTAN

E perché rifiuteresti di obbedire al tuo papa greco in una così bella occasione?

KARPOS

Perché ho giurato obbedienza a voi, e so bene che tu patru non ordina a nessuno di cospirare.

TUCTAN

Ne sono contento. Ma se per disgrazia i tuoi greci riconquistassero l'isola e mi cacciassero, mi saresti ancora fedele?

KARPOS

Eh, come potrei restarvi fedele, se voi non foste più il mio pascià?

TUCTAN

E il giuramento che mi hai fatto, che fine farebbe?

KARPOS

Quella dei miei fichi, che non vi servirebbero più. Non è forse vero, con tutto il rispetto, che se voi foste morto, nel momento in cui parlo, non vi sarei più obbligato?

TUCTAN

Quest'ipotesi è incivile, ma la cosa è vera.

KARPOS

Ebbene, se veniste scacciato, è come se foste morto; perché avreste un successore al quale dovrei fare un altro giuramento. Potreste esigere da me una fedeltà che non vi servirebbe a nulla? Sarebbe come se, non potendo più mangiare i miei fichi, voleste impedirmi di venderli ad altri.

TUCTAN

Ragioni bene: hai dunque i tuoi principi?

KARPOS

Sì, a modo mio. Non sono tanti, ma mi bastano; se ne avessi di più, m'imbarazzerebbero.

TUCTAN

Sarei curioso di saperli, questi tuoi principi.

KARPOS

Essere un buon marito, un buon padre, un buon vicino, un buon suddito e un buon giardiniere. Non vado più in lì, e spero che Dio mi userà misericordia.

TUCTAN

E credi che Dio userà misericordia anche a me, che sono il governatore della tua isola?

KARPOS

E come volete che lo sappia? Sta forse a me indovinare come Dio si comporta con i pascià? È una faccenda tra voi e lui, e io non me ne immischio certo. Tutto quel che penso è che, se voi siete un buon pascià come io sono un buon giardiniere, Dio vi tratterà molto bene.

TUCTAN

Per Maometto! Questo idolatra m'è molto simpatico. Addio, amico; che Allah ti protegga.

KARPOS

Grazie tante, Theos abbia misericordia di voi, pascià.



CATENA DEGLI AVVENIMENTI



Da molto tempo si sostiene che tutti gli avvenimenti sono concatenati fra loro da una fatalità invincibile: il Destino, che in Omero è più forte dello stesso Giove. Questo signore degli dei e degli uomini dichiara francamente di non poter impedire che suo figlio Sarpedone muoia nel tempo prestabilito. Sarpedone era nato nel momento in cui era necessario che nascesse, e non poteva nascere in un altro momento; non poteva morire se non sotto le mura di Troia; non poteva essere seppellito che in Licia, e il suo corpo doveva produrre, nel tempo prestabilito, certi legumi che si sarebbero trasformati nella sostanza di alcuni lici; i suoi eredi dovevano stabilire un nuovo ordine nei suoi Stati; questo nuovo ordine avrebbe influito sui regni vicini; ne sarebbe risultata una nuova condizione di guerra e di pace con i vicini dei vicini della Licia: così, progressivamente, il destino di tutta la terra è dipeso dalla morte di Sarpedone, la quale dipendeva da un altro avvenimento, che era legato ad altri, fino all'origine delle cose.

Se uno solo di questi fatti si fosse svolto in modo diverso, ne sarebbe risultato un altro universo; ma non era possibile che l'universo attuale non esistesse: dunque, non era possibile a Giove - sebbene fosse Giove - salvare la vita di suo figlio.

Questo sistema della necessità e della fatalità è stato inventato ai giorni nostri da Leibniz, a quanto egli dice, sotto il nome di ragione sufficiente; ma è in realtà molto antico; non è da oggi soltanto che non c'è effetto senza causa, e la più piccola causa può produrre grandissimi effetti.

Lord Bolingbroke dichiara che le piccole liti fra lady Marlborough e lady Masham fecero nascere l'occasione di stipulare il trattato particolare tra la regina Anna e Luigi XIV; questo trattato portò poi alla pace di Utrecht, che a sua volta insediò Filippo V sul trono di Spagna; Filippo V poi tolse alla casa d'Austria Napoli e la Sicilia; il principe spagnolo che oggi è re di Napoli deve evidentemente il suo regno a lady Masham; e non lo avrebbe avuto, e non sarebbe forse neanche nato, se la duchessa di Marlborough fosse stata più compiacente con la regina d'Inghilterra. La sua esistenza a Napoli dipendeva da una sciocchezza in più o in meno alla corte di Londra. Esaminate le condizioni di tutti i popoli del mondo: tutte fondate su una serie di fatti che sembrano di nessun peso, ma da cui tutto dipende. Tutto è ingranaggio, puleggia, corda, molla, in questa immensa macchina.

Lo stesso accade nell'ordine fisico. Un vento che soffia dal fondo dell'Africa e dai mari australi porta con sé una parte dell'atmosfera africana, la quale ricade in pioggia nelle valli delle Alpi; queste piogge fecondano le nostre terre; il nostro vento del nord, a sua volta, spinge i nostri vapori sulle terre dei negri; noi facciamo del bene alla Guinea, e la Guinea a sua volta ne fa a noi. Questa catena si estende da un capo all'altro dell'universo.

Però mi sembra che si abusi stranamente della verità di questo principio. Se ne è concluso che non c'è atomo, per minuscolo che sia, che non abbia influito sulla sistemazione attuale del mondo intero; che non c'è accidente così piccolo, sia tra gli uomini che tra gli animali, che non sia un anello essenziale della grande catena del destino.

Intendiamoci: ogni effetto ha evidentemente la sua causa nell'abisso dell'eternità; ma, se discendiamo fino alla fine dei secoli, non tutte le cause hanno avuto il loro effetto. Tutti gli avvenimenti sono prodotti gli uni dagli altri, lo riconosco: se il passato ha partorito il presente, il presente partorisce il futuro. Tutto ha un padre, ma non tutto ha sempre dei figli. Avviene qui come negli alberi genealogici: ogni casata risale, come si sa, ad Adamo; ma in ogni famiglia molti sono i membri morti senza lasciare posterità.

C'è un albero genealogico degli avvenimenti di questo mondo. È incontestabile che gli abitanti della Gallia e della Spagna discendano da Gomez, e i russi da Magog, suo fratello minore: si trova, questo, scritto in tanti grossi libri! Partendo da ciò, non si può negare che noi dobbiamo a Magog i sessantamila russi che oggi sono in armi sui confini della Pomerania, e i sessantamila francesi che si trovano presso Francoforte. Ma sia che Magog abbia sputato a destra o a sinistra, dalle parti del Caucaso, e abbia così prodotto il movimento di due o tre cerchi nell'acqua di un pozzo, o che abbia dormito sul fianco destro o sul sinistro, non vedo come questo possa aver influito molto sulla decisione presa dall'imperatrice di Russia, Elisabetta, di inviare un esercito in aiuto dell'imperatrice dei romani, Maria Teresa. Che, dormendo, il mio cane sogni o non sogni, non vedo proprio il rapporto che quest'affare così importante può avere con quelli del gran Mogol.

Bisogna considerare che, nella natura, non tutto è assoluto e che ogni movimento non si comunica da un punto all'altro, sino a fare il giro del mondo. Gettate in acqua un corpo di densità uguale e calcolerete facilmente che, dopo un certo tempo, il moto di questo corpo e quello che esso ha comunicato all'acqua si arresteranno; ogni moto cessa e riprende: dunque, il movimento che Magog poté produrre sputando in un pozzo non può avere influito su quello che succede oggi in Russia o in Prussia. Dunque, gli avvenimenti odierni non sono i figli di tutti gli avvenimenti di ieri; hanno le loro linee di discendenza diretta, ma mille piccole linee collaterali non servono loro a niente. Ancora una volta, ogni essere ha un padre, ma non tutti hanno dei figli. Ne diremo forse qualcosa di più quando parleremo del Destino.



CATENA DEGLI ESSERI CREATI



La prima volta che lessi Platone e vidi quella gradazione di esseri che si elevano dall'atomo più minuscolo fino all'Essere supremo, restai preso d'ammirazione. Ma poi, quando considerai il tutto attentamente, quel grande fantasma svanì, come una volta tutti gli spettri fuggivano al canto del gallo.

L'immaginazione si compiace dapprima nel vedere il passaggio impercettibile dalla materia bruta alla materia organica, dalle piante agli zoofiti, dagli zoofiti agli animali, da questi all'uomo, dall'uomo ai geni, e da questi geni, dotati d'un minuscolo corpo aereo, a sostanze immateriali, e, finalmente, a mille ordini diversi di tali sostanze, che, di perfezione in perfezione, si innalzano sino a Dio stesso. Una tale gerarchia piace molto alla brava gente, che crede di vedere il papa e i suoi cardinali, seguiti dagli arcivescovi e dai vescovi; e dietro, in fila, i curati, i vicari, i semplici preti, i diaconi, i sottodiaconi e poi ancora i monaci, e, in coda, i cappuccini.

Ma c'è un po' più di distanza tra Dio e le sue più perfette creature, che fra il Santo Padre e il decano del sacro collegio; questo decano può diventare papa, ma il più perfetto dei geni creati dall'Essere supremo non può diventare Dio: tra Dio e lui c'è l'infinito.

Questa catena, questa pretesa gradazione, non esiste neppure tra i vegetali e gli animali; e la prova è che certa specie di piante e d'animali sono estinte. Oggi non si trovano più i murici. Agli ebrei era proibito mangiare carne di issione e di grifone; queste due specie sono scomparse dal mondo, checché pretenda il Bochart. Dov'è, dunque, la catena?

E quand'anche non avessimo perduto alcune specie, è chiaro che se ne possono distruggere. I leoni, i rinoceronti cominciano a diventare assai rari.

È probabilissimo che siano esistite razze d'uomini di cui oggi non si ha più traccia. Ma voglio anche ammettere che siano sopravvissute tutte: come i bianchi, i negri, i cafri, cui la natura ha dato un grembiule di pelle che pende loro dal ventre fino a mezza coscia; i samoiedi, le cui donne hanno mammelle di un bel nero d'ebano ecc.

Non c'è forse, visibilmente, un vuoto tra la scimmia e l'uomo? Non è forse facile immaginare un animale bipede implume, intelligente, anche se non ha l'uso della parola, né il nostro aspetto, che noi potremmo addomesticare, che risponda ai nostri segni e ci serva? E tra questa nuova specie e la specie umana, non potremmo immaginarne altre ancora?

Oltre l'uomo, voi collocate in cielo, o divino Platone, una quantità di sostanze celesti; noi crediamo, oggi, a qualcuna di esse, perché la fede ce lo insegna. Ma voi, che ragione avevate di credervi? A quanto pare, non avete parlato col demone di Socrate; e quel brav'uomo di Er, che risuscitò apposta per insegnarvi i segreti dell'altro mondo, non vi ha rivelato niente di queste sostanze.

La pretesa catena è del pari interrotta nell'universo sensibile.

Quale gradazione c'è, di grazia, fra i nostri pianeti? La Luna è quaranta volte più piccola del nostro globo. Quando avrete viaggiato nel vuoto oltre la Luna, troverete Venere: essa e grande circa come la Terra; di là arriverete a Mercurio, che descrive un'orbita molto differente da quella di Venere ed è ventisette volte più piccolo di noi: mentre il Sole è un milione di volte più grande, Marte cinque volte più piccolo e compie la sua orbita in due anni; Giove, suo vicino, ne impiega dodici e Saturno trenta; Saturno, il più lontano di tutti, è più piccolo di Giove. Dov'è questa pretesa gradazione?

E poi, come volete che nei grandi vuoti ci sia una catena che tutto collega? Se ce n'è una, è certo quella che Newton ha scoperto; quella che fa gravitare tutti i globi del mondo planetario gli uni verso gli altri, in quel vuoto immenso.

O Platone, tanto ammirato! Ci avete raccontato delle favole; e oggi, in quell'isola di Cassiteride, dove ai vostri tempi gli uomini andavano nudi, è sorto un filosofo che ha insegnato al mondo verità tanto grandi quanto erano puerili le vostre fantasie.



CERTO, CERTEZZA



«Quanti anni ha il vostro amico Cristoforo?» «Ventotto anni; ho veduto il suo contratto di matrimonio e il suo certificato di battesimo; lo conosco fin dall'infanzia; ha ventotto anni, ne ho la certezza, ne sono certo...»

Ho appena ascoltato la risposta di quest'uomo, così sicuro di quel che dice, e di venti altri che mi confermano la stessa cosa, quando vengo a sapere che il certificato di battesimo di Cristoforo, per ragioni segrete e per un intrigo singolare, è stato antidatato. Quelli con cui avevo parlato non ne sanno ancora niente; tuttavia han sempre la certezza di ciò che non è.

Se voi aveste domandato al mondo intero, prima dei tempi di Copernico: «Il sole s'è levato? è tramontato quest'oggi?», tutti vi avrebbero risposto: «Ne abbiamo l'assoluta certezza.» Si sentivano certi, ed erano nell'errore.

I sortilegi, le divinazioni, le ossessioni diaboliche, sono stati per secoli e per tutti i popoli la cosa più certa del mondo. Quali folle innumerevoli videro tutte queste belle cose, e ne son state certe! Oggi questa certezza s'è un po' smorzata.

Viene a trovarmi un giovanetto che comincia a studiare geometria; è appena arrivato alla definizione dei triangoli. «Non sei certo,» gli dico, «che i tre angoli di un triangolo equivalgano a due angoli retti?» Egli mi risponde che non solo non ne è certo, ma che non ha neppure un'idea precisa di questa proposizione. Io gliela dimostro; ora ne è certissimo, e lo resterà per tutta la vita.

Ecco una certezza ben differente dalle altre: quelle erano semplici probabilità, e tali probabilità, esaminate a fondo, sono diventate errori; ma la certezza matematica è immutabile ed eterna.

Io esisto, penso, sento dolore; tutto questo è altrettanto certo quanto una verità geometrica? Sì. Perché? Perché queste verità sono provate in virtù dello stesso principio che una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo. Io non posso nello stesso tempo esistere e non esistere, sentire e non sentire. Un triangolo non può avere a un tempo centottanta gradi, che sono la somma di due angoli retti, e non averli.

La certezza fisica della mia esistenza, del mio sentire, e la certezza matematica hanno dunque lo stesso valore, benché siano d'ordine differente.

Lo stesso non può dirsi della certezza fondata sulle apparenze o sulle relazioni unanimi degli uomini.

«Ma come,» direte, «non siete certo che Pechino esiste? Non avete in casa vostra stoffe di Pechino? Uomini di differenti paesi, di differenti opinioni, che hanno scritto attaccandosi con violenza, e han tutti infine predicato la verità a Pechino, non vi hanno assicurato dell'esistenza di questa città?» Io rispondo che per me è estremamente probabile che ci sia stata un tempo una città chiamata Pechino, ma che non sarei affatto disposto a scommettere la testa sulla sua esistenza; mentre scommetterò sempre la testa sul fatto che la somma degli angoli di un triangolo è di due angoli retti.

Nel Dictonnaire Encyclopédique è stata stampata una cosa assai curiosa: vi si sostiene che un uomo dovrebbe essere altrettanto sicuro, altrettanto certo che il maresciallo di Sassonia è risuscitato, se tutta Parigi glielo dicesse, quanto è certo che il maresciallo di Sassonia vinse la battaglia di Fontenoy, poiché tutta Parigi glielo dice. Vedete un po', vi prego, che ragionamento ammirevole: «Io credo a tutta Parigi quando mi dice una cosa moralmente possibile; dunque, debbo credere a tutta Parigi anche quando mi dice una cosa moralmente e fisicamente impossibile.»

Probabilmente l'autore di questo articolo voleva scherzare e l'altro autore che alla fine dell'articolo si mostra estasiato e scrive contro se medesimo, voleva scherzare anche lui.



CERVELLO STORTO



Ci sono, tra noi, dei ciechi, dei guerci, degli strabici, dei presbiti, dei miopi, uomini dalla vista acuta o confusa, o debole o instancabile. Tutto questo è un'immagine abbastanza fedele del nostro intelletto. Ma non ci sono occhi che vedono una cosa per un'altra: non c'è quasi nessuno che scambi un gallo per un cavallo, o un vaso da notte per una casa. Perché si incontrano così spesso cervelli, abbastanza lucidi nel giudicare le piccole cose, ma assolutamente ottenebrati nei riguardi di quelle importanti? Perché quello stesso siamese, che non si lascerà mai ingannare quando si tratterà di contargli tre rupie, crede con tanta sicurezza alle metamorfosi di Sammonocodom? Per quale strana bizzarria degli uomini sensati somigliano a don Chisciotte, che credeva di vedere giganti dove gli altri uomini non vedevano che mulini a vento? E don Chisciotte era molto più scusabile del siamese il quale crede che Sammonocodom sia sceso molte volte sulla terra, o del turco convinto che Maometto si sia infilato metà della luna nella manica; perché don Chisciotte, ossessionato dall'idea di dover combattere dei giganti può figurarsi uno di essi con un corpo grosso quanto un mulino e le braccia lunghe quanto le pale del mulino; ma da quale supposizione può partire un uomo sensato per persuadersi che metà della luna è entrata in una manica, e che un Sammonocodom è sceso dal cielo per venire a giocare con il cervo volante nel Siam, abbattere una foresta e fare giochi di bussolotti?

Anche i più grandi geni possono ragionar storto su un principio accolto senza debito esame. Newton ragionò malissimo quando commentò l'Apocalisse.

Tutto ciò che certi tiranni delle anime desiderano è che gli uomini che istruiscono abbiano il cervello storto. Un fachiro educa un ragazzo che promette molto; egli impiega cinque o sei anni a ficcargli in testa che il dio Fo apparve agli uomini in forma d'elefante bianco, e persuade il ragazzo che sarà frustato, dopo morto, per cinquecentomila anni, se non crede a tali metamorfosi. Poi aggiunge che alla fine del mondo il nemico del dio Fo verrà a combattere contro questa divinità.

Il ragazzo studia e diventa un fenomeno; argomenta secondo le lezioni del suo maestro e scopre che il dio Fo non poteva tramutarsi che in un elefante bianco, perché questo è il più bello degli animali: «I re del Siam e del Pegu,» dice, «si son fatti la guerra per un elefante bianco; certo, se Fo non fosse stato nascosto in tale elefante, quei re non sarebbero stati tanto insensati da combattere per il possesso di un semplice animale.

«Il nemico di Fo verrà a sfidarlo alla fine del mondo; certamente questo nemico sarà un rinoceronte, perché il rinoceronte combatte l'elefante.» È così che ragiona, diventato adulto, il dotto allievo del fachiro, e diventa uno dei luminari dell'India; più ha il cervello sottile e più lo ha storto; e formerà a sua volta cervelli storti.

Se si insegna a tutti questi energumeni un po' di geometria, la imparano abbastanza facilmente. Ma, cosa strana, non per questo il loro cervello si raddrizzerà; essi individuano le verità della geometria, ma essa non insegna loro a pesare le probabilità; hanno ormai preso la loro piega: ragioneranno storto tutta la vita, e me ne spiace per loro.



CIELO DEGLI ANTICHI (IL)



Se un baco da seta desse il nome di «cielo» a quel poco di lanugine che avvolge il suo bozzolo, ragionerebbe esattamente come tutti gli antichi, che dettero il nome di «cielo» all'atmosfera, la quale è, come dice benissimo il signor De Fontenelle nei suoi Mondes, la lanugine del nostro guscio.

I vapori che salgono dai nostri mari e dalla nostra terra, e che formano le nubi, le meteore e i tuoni, furono presi da principio per la dimora degli dei. In Omero, gli dei discendono sempre entro nuvole d'oro; per questo i pittori li dipingono ancora oggi seduti su una nube; ma, siccome era più giusto che il signore degli dei stesse più a suo agio degli altri, per portarlo, gli fu assegnata un'aquila, visto che l'aquila vola più in alto degli altri uccelli.

Gli antichi greci, vedendo che i signori delle città dimoravano in cittadelle, sulla cima di qualche monte, pensarono che anche gli dei potessero avere una loro cittadella, e la situarono in Tessaglia, sul monte Olimpo, la cui cima è qualche volta nascosta dalle nubi; di modo che il loro palazzo era alla stessa altezza del loro cielo.

Le stelle e i pianeti, che sembrano attaccati alla volta azzurra della nostra atmosfera, divennero, in seguito, la dimora degli dei: sette di loro ebbero ciascuno il proprio pianeta, gli altri alloggiarono dove poterono. Il concilio generale degli dei si teneva in una grande sala cui si arrivava per la Via Lattea; poiché bisogna bene avessero una sala in cielo, dato che gli uomini avevano i loro palazzi di città sulla terra.

Quando i Titani, specie di enormi animali tra gli dei e gli uomini, dichiararono una guerra abbastanza giusta a quegli dei, reclamando una loro eredità dal lato materno, dato che erano figli del cielo e della terra, non seppero fare altro che mettere due o tre montagne l'una sull'altra, contando che bastassero per impossessarsi del Cielo e del castello dell'Olimpo.

Neve foret terris securior arduus aether,

Affectasse ferunt regnum coeleste gigantes,

Altaque congestos struxisse ad sidera montes.

Questa fisica per fanciulli e nonnette era straordinariamente antica. Tuttavia, è certissimo che i caldei avevano idee altrettanto giuste delle nostre su quello che si chiama «cielo»: essi ponevano il sole al centro del nostro mondo planetario, pressappoco alla stessa distanza dal nostro globo così com'è calcolata da noi; e facevano girare la terra e tutti i pianeti attorno a quell'astro. Così ci insegna Aristarco di Samo; ed è il vero sistema astronomico, che poi Copernico rinnoverà; ma i filosofi tenevano per sé il segreto, per essere più rispettati dai re e dai popoli, o piuttosto per non essere perseguitati.

Il linguaggio dell'errore è così familiare agli uomini, che noi chiamiamo ancora i nostri vapori e lo spazio dalla terra alla luna con il nome di «cielo»; continuiamo a dire «salire in cielo», come diciamo che «il sole gira», pur sapendo bene che non gira affatto; probabilmente, per gli abitanti della luna il cielo siamo noi, e ogni pianeta situa il proprio cielo nel pianeta vicino.

Se si fosse domandato a Omero in quale cielo era andata l'anima di Sarpedone o quella di Ercole, Omero sarebbe rimasto piuttosto imbarazzato; avrebbe risposto con versi armoniosi.

Quale sicurezza si poteva avere che l'anima aerea di Ercole si fosse trovata più a suo agio in Venere o in Saturno che nel nostro pianeta? O che sarebbe andata nel sole? Difficile trovarsi a proprio agio in quella fornace. Infine, cosa intendevano gli antichi per «cielo»? Essi non ne sapevano niente: gridavano sempre «Il cielo e la terra», che è come se dicessimo: «L'infinito e un atomo.» Per dirla chiara, il cielo non c'è: c'è una quantità prodigiosa di astri che girano nello spazio vuoto, e il nostro globo gira come gli altri.

Gli antichi credevano che andare in cielo significasse salire; ma non si sale da un globo a un altro; i globi celesti sono ora sotto, ora sopra il nostro orizzonte. Così, supponiamo che Venere, dopo essere venuta a Pafo, ritornasse nel suo pianeta dopo che esso era tramontato; la dea Venere, per arrivarci, non doveva salire, rispetto al nostro orizzonte, ma scendere: si sarebbe dunque dovuto dire che essa «discendeva al cielo». Ma gli antichi non andavano tanto per il sottile: avevano nozioni vaghe, incerte, contraddittorie su tutto ciò che riguardava la fisica. Si sono scritti volumi su volumi per sapere che cosa pensassero su molte questioni del genere. Bastano tre parole: essi non pensavano.

Bisogna sempre eccettuare un piccolo numero di saggi, che però sono venuti tardi; pochi di loro hanno spiegato i propri pensieri e, quando l'hanno fatto, i ciarlatani della terra li hanno spediti in cielo per la via più breve.

Uno scrittore chiamato, credo, Pluche, ha preteso fare di Mosè un grande fisico; prima di lui, un altro aveva conciliato Mosè con Descartes e dato alle stampe un Cartesius mosaïzans; secondo lui, Mosè aveva inventato per primo i vortici e la materia sottile; ma è abbastanza noto che Dio, che fece di Mosè un grande legislatore, un gran profeta, non volle affatto farne un professore di fisica; egli istruì gli ebrei sui loro doveri, e non insegnò loro neanche una parola di filosofia. Don Calmet, che ha molto compilato e non ha mai ragionato, parla del sistema degli ebrei; ma quel popolo rozzo era ben lungi dal possedere un sistema; non aveva nemmeno una scuola di geometria; non ne conosceva neanche il nome; la sua sola scienza era il mestiere di sensale e l'usura.

Nei suoi libri si trovano poche idee confuse, incoerenti, e in tutto degne di un popolo barbaro, sulla struttura del cielo. Il loro primo cielo era l'aria; il secondo, il firmamento, cui erano attaccate le stelle; questo firmamento era solido e di ghiaccio e sosteneva le acque superiori, le quali sfuggirono da questo serbatoio per mezzo di porte, chiuse e cateratte, ai tempi del diluvio.

Al di sopra di questo firmamento, o di quelle acque superiori, v'era il terzo cielo, o Empireo, dove fu rapito san Paolo. Il firmamento era una specie di mezza volta che abbracciava la terra. Il sole non faceva il giro di un globo, che essi non conoscevano: quando era giunto in Occidente, tornava in Oriente per una via sconosciuta; e se non lo si vedeva, era - come dice il barone de Foeneste - perché se ne tornava di notte.

Per giunta, gli ebrei avevano rubato queste fantasticherie ad altri popoli. La maggior parte di questi, eccettuati i caldei, consideravano il cielo come solido; la terra, fissa e immobile, era più lunga da oriente a occidente, che non dal mezzogiorno al nord, di un buon terzo: di qui i termini «longitudine» e «latitudine», che noi abbiamo adottato. È evidente che, con tale opinione, era impossibile che ci fossero antipodi. Così sant'Agostino tratta l'idea degli antipodi come un'assurdità, e Lattanzio dice espressamente: «C'è dunque gente così insensata da credere che esistano uomini la cui testa sta più in basso dei piedi?»

E san Crisostomo, nella sua quattordicesima omelia, esclama: «Dove sono coloro che pretendono che i cieli siano mobili, e la loro forma circolare?»

Lattanzio dice inoltre, nel terzo libro delle sue Istituzioni: «Potrei provarvi con parecchi argomenti che è impossibile che il cielo circondi la terra.»

L'autore dello Spettacolo della natura potrà dire finché vorrà al signor cavaliere che Lattanzio e san Crisostomo erano dei grandi filosofi; gli risponderemo che erano dei gran santi, e che non è affatto necessario, per esser santi, essere anche buoni astronomi. Possiamo credere che siano in cielo, ma dovremo riconoscere che non sappiamo in quale parte di esso si trovino precisamente.



CINA



Noi andiamo a cercare in Cina della terra, come se non ne avessimo; delle stoffe, come se ne mancassimo; una piccola erba per fare un infuso, come se nei nostri climi non avessimo dei semplici. E, in compenso, vogliamo convertire i cinesi: zelo lodevolissimo, ma non bisogna contestare la loro abilità e dire che sono degli idolatri. Sarebbe giusto se un cappuccino, ben accolto in un castello dell'antica famiglia dei Montmorency, volesse persuaderli che sono nobili di fresca data, come i segretari del re, e li accusasse di idolatria perché ha trovato in quel castello due o tre statue di connestabili per le quali quei nobili mostrano un profondo rispetto?

Il celebre Wolf, professore di matematiche all'università di Halle, pronunziò un giorno un bellissimo discorso in lode della filosofia cinese; elogiò questa antica specie di uomini, che differisce da noi per la barba, gli occhi, il naso, le orecchie e per il modo di ragionare; elogiò, dico, i cinesi, perché adorano un Dio supremo e amano la virtù; rendeva tale giustizia agli imperatori della Cina, ai Kolao, ai tribunali, ai letterati. La giustizia che si rende ai bonzi è di specie diversa.

Bisogna sapere che questo Wolf attirava a Halle un migliaio di studenti di tutte le nazioni. C'era, nella stessa università, un professore di teologia, chiamato Lange, che non attirava nessuno; disperato a forza di gelare dal freddo, solo, nella sua aula, volle, come di ragione, screditare il professore di matematiche; e non mancò, secondo il costume dei suoi simili, d'accusarlo di non credere in Dio.

Alcuni scrittori europei, che non erano mai stati in Cina, avevan dichiarato che il governo di Pechino era ateo. Wolf aveva lodato i filosofi di Pechino, e dunque Wolf era ateo; l'invidia e l'odio non hanno mai prodotto migliori sillogismi. Questo argomento di Lange, sostenuto da una cabala e da un protettore, fu giudicato convincente dal re del paese, che inviò al matematico un dilemma in debita forma: o lasciare Halle entro ventiquattro ore o venire impiccato. Wolf, assai sveglio di cervello, se ne partì subito; la sua partenza costò al re la perdita di due o trecentomila scudi l'anno, che questo filosofo faceva entrare nel regno grazie all'affluenza dei suoi discepoli.

Questo esempio deve fare intendere ai sovrani che non sempre bisogna dar retta alle calunnie e sacrificare un grand'uomo al furore di uno stolto. Ma torniamo alla Cina.

Perché mai ci azzardiamo, noi, nell'estremo occidente, a disputare con accanimento e torrenti di ingiurie per sapere se ci sono stati quattordici principi, o no, prima di Fo-hi, imperatore della Cina, e se questo Fo-hi viveva tremila o duemilanovecento anni prima della nostra era volgare? Se due irlandesi si mettessero a disputare a Dublino per sapere chi fu, nel XII secolo, il proprietario delle terre che io occupo oggi, non è evidente che dovrebbero rivolgersi a me, che ho in mano gli archivi? La stessa cosa si deve fare, a mio giudizio, nei riguardi dei primi imperatori della Cina: bisogna rimettersi al giudizio dei tribunali di quel paese.

Disputate finché volete sui quattordici principi che regnarono prima di Fo-hi; la vostra bella disputa arriverà solo a provare che la Cina era allora molto popolata e che vi regnavano le leggi. Ora vi domando se una nazione riunita, che ha leggi e principi, non presupponga una straordinaria antichità. Pensate quanto tempo occorre perché un singolare concorso di circostanze faccia trovare il ferro nelle miniere, perché venga impiegato nell'agricoltura, perché si inventi la spola e tutte le altre arti.

Chi si diverte a scrivere puerilità ha immaginato un calcolo molto divertente. Il gesuita Petau, con un bellissimo computo, attribuisce alla terra, duecentottantacinque anni dopo il diluvio, cento volte più abitanti di quanti si osi supporre per il presente. I Cumberland e i Whiston hanno fatto calcoli non meno comici: questa brava gente, se avesse consultato i registri delle nostre colonie, sarebbe rimasta sbalordita: avrebbe appreso quanto poco il genere umano si moltiplica, e che spesso diminuisce, anziché aumentare.

Lasciamo dunque, noi che siamo di ieri, noi discendenti dei celti, che abbiamo solo da poco dissodato le foreste delle nostre contrade selvagge, lasciamo che i cinesi e gli indiani si godano in pace il loro buon clima e la loro antichità. Cessiamo, soprattutto, di chiamare idolatri l'imperatore della Cina e il subab del Dekkan! Non bisogna essere fanatici dei meriti dei cinesi: la costituzione del loro impero è la migliore del mondo, la sola che sia tutta fondata sull'autorità paterna (il che non impedisce che i mandarini non bastonino di santa ragione i loro figli); la sola in cui un governatore venga punito quando, lasciando la sua carica, non riceva le acclamazioni del popolo; la sola che abbia istituito dei premi per la virtù, mentre, nel resto del mondo, le leggi si limitano a punire il crimine; la sola che abbia fatto adottare le proprie leggi ai suoi vincitori, mentre noi siamo ancora soggetti alle consuetudini dei burgundi, dei franchi e dei goti, che in altri tempi ci dominarono. Ma bisogna confessare che il popolino, governato dai bonzi, non è meno furfante del nostro; che agli stranieri tutto viene venduto a carissimo prezzo, come da noi; che nelle scienze i cinesi sono ancora al punto in cui noi eravamo duecento anni fa; che essi hanno, come noi, mille pregiudizi ridicoli; che credono ai talismani a all'astrologia giudiziaria, come ci abbiam creduto noi per tanto tempo.

Riconosciamo inoltre che essi sono rimasti meravigliati dal nostro termometro, dal nostro modo di ghiacciare i liquidi col salnitro, e di tutti gli esperimenti di Torricelli e di Otto von Guericke, proprio come lo fummo noi la prima volta che vedemmo questi «giochi» di fisica; aggiungiamo che i medici cinesi, come i nostri, non guariscono le malattie mortali; e che là, come da noi, solo la natura guarisce le malattie leggere; ma tutto ciò non impedisce che i cinesi, quattromila anni or sono, quando noi non sapevamo nemmeno leggere, conoscessero già tutte le cose utili di cui noi oggi ci vantiamo.

La religione dei letterati, ripetiamo, è ammirevole. Nessuna superstizione, nessuna leggenda assurda, nessuno di quei dogmi che insultano la ragione e la natura, e ai quali i bonzi attribuiscono mille significati diversi, perché non ne hanno alcuno. Da più di quaranta secoli, il culto più semplice è sembrato loro il migliore. I cinesi sono come noi pensiamo che fossero Seth, Enoch e Noè; s'accontentano d'adorare un Dio come tutti i saggi della terra, mentre noi, in Europa, ci dividiamo tra Tommaso e Bonaventura, fra Calvino e Lutero, fra Giansenio e Molina.





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
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