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Le cellule del cervello sono capaci di fare musica

Ultimo Aggiornamento: 18/07/2007 15:05
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18/07/2007 15:05
 
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Intervista con il neuroscienziato e artista Diego Minciacchi
M. Ga.


Apocalittico, nella classica accezione di Umberto Eco, sarebbe un buon termine per descrivere Diego Minciacchi. Un artista e scienziato cinquantaduenne poco disposto a trafficare con i consumi culturali o le mode o, semplicemente, le simpatie del suo pubblico. Che esiste e lo guarda con simpatia. E ascolta con curiosità la sua musica che - dice un ritornello - traduce in suoni i meccanismi di funzionamento del cervello.

Nella sua vita, Minciacchi, entrano prima gli studi di neuroscienze o quelli di musica?
Vengono assieme. Per me non è tanto importante parlarne in termini di prima e dopo quanto in termini di interesse. Ci sono periodi di stagnazione in un campo o nell'altro. Ma non mi stacco mai da nessuno dei due.

Le neuroscienze davvero sconvolgono i saperi? Anche in campo musicale?
Quando sono nate erano il più possibile scevre da pregiudizi. Oggi è diverso: si fa molta «ricerca applicata» e spesso vuol dire che è indirizzata a certi risultati e spostata rispetto ad altri possibili. Così i pregiudizi saltano fuori. Ecco un esempio in rapporto al problema della musica. Durante un convegno su neuroscienze e musica mi sono trovato di fronte a un gruppo di ricercatori che asserivano: la musica tonale occidentale è effettivamente la migliore che sia stata prodotta per assecondare il nostro cervello. In sostanza dicevano: la musica è musica quanto più si avvicina a quel modello. Dati i tempi sembra un approccio di tipo preventivo e da esportazione in campo scientifico.

Per lei c'è un rapporto diretto tra l'attività di neuroscienziato e quella di musicista?
Per tanto tempo le due cose non si sono parlate. Ovviamente non era possibile che nel mio cervello non si parlassero. Ma a un certo punto questo fatto è diventato esplicito. Racconto un episodio chiave. Siamo alla fine degli anni '80, io mi trovo all'università di Boston dove sto ultimando una ricerca e nello stesso tempo sto ultimando una composizione commissionata da Darmstadt.
Ho sul tavolo del mio studio due pile di carte affiancate, una di fogli del lavoro musicale e una di fogli della ricerca di neurofisiologia. Porto avanti tranquillamente un po' uno un po' l'altro lavoro. Un giorno ho in mano un foglio della partitura musicale; lo giro e vedo che dall'altra parte è un foglio di un esperimento di laboratorio. Le due cose si erano mischiate e io ho capito che era inevitabile.

Quindi lei è consapevole di immettere nella sua musica elementi della sua attività di ricerca nelle neuroscienze.
In alcune composizioni prendo direttamente le informazioni di alcuni miei esperimenti. Non è un'operazione che faccio sempre, solo quando la ritengo necessaria. Voglio dire: non è questa la mia tecnica di composizione d'elezione, ma uno strumento compositivo. La uso in misure diverse e in occasioni diverse. A volte in misura radicale. C'è un mio lavoro per tre pianoforti ed elettronica, Quintum desertum, eseguito in prima assoluta a Darmstadt nel 2000, in cui tutti i parametri della partitura sono desunti da dati sperimentali del mio lavoro scientifico. Ovviamente sono desunti, non è che il mio approccio compositivo viene a mancare. Facciamo il paragone con una griglia armonica o una griglia polifonica o una tecnica seriale: sono strumenti compositivi.

Ma questi dati sperimentali in che cosa consistono?
Alcuni sono architetture: come sono costruite popolazioni di cellule. Altri sono funzioni: ad esempio registrazioni dell'attività cerebrale.

E come vengono tradotti in suoni?
I processi sono molto diversi. Ma facciamo un esempio semplice: se due cellule sono disposte in un certo modo io posso disporre la successione di due suoni in modo analogo.

Succede qualcosa del genere anche in «Questi nostri giorni»?
Considero il brano la registrazione dell'attività di un cervello che lotta per la propria sopravvivenza.

«Questi nostri giorni»: un titolo impegnativo. Riferimenti al tempo in cui viviamo?
I riferimenti all'oggi ci sono, ma come a un tempo appiattito: oggetti d'uso, la dimensione tecnologica...

Perché ha scelto suoni molto gravi?
Questi suoni vengono prodotti da uno strumento, il flauto iperbasso di Roberto Fabbriciani, che ha aspetti tecnologici avanzati e aspetti di significato sonoro ancestrale. Una bella sfida per me!

Per le parti elettroniche dei suoi lavori ha usato sempre nastri, mai il live electronics. C'è un motivo?
Il live electronics l'ho usato in un caso (Klavierstück Nr. 4: Vae Victis prevede una versione per pianoforte ed elettronica dal vivo, ndr). La netta prevalenza di nastri deriva direttamente dalla mia ossessività di controllo della realtà. Del live electronics penso che sia molto indietro rispetto agli altri strumenti di produzione elettronica. È troppo subordinato agli aspetti organizzativi ed economici della sua realizzazione.

Sappiamo che per la composizione di «Questi nostri giorni» lei ha utilizzato materiali visivi avvalendosi della collaborazione di un videomaker fiorentino, Francesco Sonnati. Ma durante l'esecuzione non è apparso nessun video o film o sequenza di immagini. Dove sta il visivo in quest'opera?
L'elemento visivo fa parte dell'armamentario. Per ora più come esperienza che come fatto fisico visuale magari tradotto in fatto sonoro. Ho incontrato un paio di volte Francesco, lui ha tenuta accesa la telecamera mentre tra noi due e con altri amici che ho coinvolto nell'operazione si discuteva della partitura per il flauto iperbasso, dei suoni fissati nel nastro elettronico, della forma complessiva che andava prendendo il tutto. E si è discusso anche della mia voglia di interagire con la visualità, di avere altre informazioni oltre a quelle che in questa occasione mi danno Fabbriciani e i dispositivi elettronici. Informazioni visuali.

www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/17-Luglio-2007/ar...





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
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