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Davanti a San Guido

Ultimo Aggiornamento: 10/08/2007 21:54
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10/08/2007 21:54
 
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Giosuè Carducci


I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.

Mi riconobbero, e - Ben torni omai -
Bisbigliaron vèr me co 'l capo chino -
Perché non scendi? perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.

Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh, non facean già male!

Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido così
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui!

Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei -
Guardando io rispondeva - oh di che cuore!

Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è più quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.

E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù;
Non son più, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro più.

E massime a le piante. - Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò,
E il dì cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.

Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
Ben lo sappiamo: un pover uomo tu se'.

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.

A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol;
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!

E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,

Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;

E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà.

Ed io - Lontano, oltre Appennin, m'aspetta
La Tittì - rispondea -; lasciatem'ire.
È la Tittì come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.

E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano!

Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? -
E fuggìano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.

Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giù de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:

La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sì sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,

Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.

O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!

Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.

Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi più:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.

Ansimando fuggìa la vaporiera
Mentr'io così piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
________________________________________

Superfluo dire ciò che apparentemente la poesia descrive nella sua lettura immediata: il poeta passa con il treno attraverso i luoghi della sua infanzia e fanciullezza (1835-49, dai 4 ai 14 anni circa) e la vista del paesaggio suscita in lui ricordi e sensazioni le più disparate che sembrano avere in sottofondo un profondo senso di rimpianto. Questa a grandi linee è la spiegazione che danno, ai nostri alunni della scuola media o superiore, insegnanti sprovveduti o talvolta faziosi.

Una spiegazione semplice ai limiti della superficialità perché, nel primo caso, probabilmente pochi di essi sanno che Carducci era massone, convinto e praticante; nel secondo caso, lo sanno, ma torna loro più comodo far finta di ignorarlo. Ma anche se qualcuno dei nostri insegnanti ci avesse allora, ai tempi del liceo, informato sull’appartenenza del poeta alla famiglia massonica, ritengo che questo ragguaglio semplicemente biografico avrebbe di poco o nulla cambiato la nostra interpretazione della poesia in oggetto.

Non sono di quelli che vogliono scoprire connessioni massoniche anche nella struttura chimico-fisico-alchimistica della pastasciutta al ragù, ma sono indotto a credere che ogni vero artista, degno di questo titolo, sia spontaneamente portato a trasfondere nella sua opera la parte più intima della propria personalità; nel caso di un Massone, questo avviene raramente in forma palese, ma più spesso il fenomeno si presenta in modo così latente che l’artista sembra quasi rivolgersi ad un gruppo ristretto di amici, ad un pubblico di iniziati ai suoi stessi “misteri”, le sole persone cioè capaci di cogliere completamente l’essenza e la simbologia contenute nella sua opera, di percepirne il messaggio più recondito.

In poche parole, io sono capace di riconoscere l’Ordine, il Segno, il Toccamento e la Parola del massone perché sono tale; se fosse altrimenti, non solo non saprei riconoscerli ma, nel caso che la mia attenzione si ponesse su di essi, potrei dare di questi comportamenti solamente una descrizione e non certo un’interpretazione.

Sul Carducci massone già tanto è stato detto, sulla sua vita all’interno dell’istituzione molto è stato scritto; del suo spirito ribelle e libero, del suo pensiero laico e razionale, è intrisa ogni sua opera; ne sia un esempio l’ ”Inno a Satana” in cui il poeta celebra lo sviluppo della scienza e della tecnica, rappresentato dalla locomotiva vista come un novello Satana, in contrapposizione all’oscurantismo clericale che nega il progresso non solo scientifico ma anche delle idee, vedi Savonarola, Lutero, Giordano Bruno.
Che cosa c’è dunque nella poesia “Davanti San Guido” che possa rifarsi alla simbologia massonica?
O meglio, dove e come lo spirito massonico del Fratello Carducci si è trasfuso nella poesia?

Innanzi tutto il poeta sta compiendo un “viaggio” e tutta l’opera è un’alternanza di visioni e sensazioni ora della vita reale ora di una vita surreale o, meglio, ideale alla quale i cipressi richiamano lo scrittore: ed è in questo dualismo che si sviluppa l’opera: da una parte i cipressi invitano il poeta a tralasciare la vita profana, con tutte le sue passioni, le sue preoccupazioni, i suoi vincoli, e dall’altra l’uomo che nel profano e nelle sue manifestazioni crede di realizzare sé stesso.

All’invito a fermarsi dei cipressi il poeta risponde “…e so legger di greco e di latino… e ho molte altre virtù… non fo per dire ma oggi sono una celebrità…”.
Convinto di questa sua certezza, pensa di aver convinto anche loro ma le piante a lui ribattono “Sì, sì lo sappiamo che sei un pover’uomo…”: roba da gelare il sangue nelle vene!

E qui inizia una serie infinita di allettanti inviti a rimanere, a fermarsi lì tra le colonne,… tra quel duplice filare, dove tante cose ha ancora da imparare, tante cose di cui arricchire il suo spirito.
“Dimani a mezzo il giorno”, l’ora in cui gli apprendisti liberi muratori sono soliti aprire i loro lavori, “ti canteremo noi cipressi i cori che vanno eterni tra la terra e il cielo”, lavoreremo insieme alla G.D.G.A.D.U.

I cipressi, i fedeli amici, ma perché no, i “Fratelli Cipressi”, ai quali non tirerebbe più neanche un sassolino per gioco, gli promettono non le solite cose che allettano ed adescano l’uomo profano, bensì si impegnano ad elevarlo verso una realtà superiore che sfugge all’uomo comune intento a seguire falsi segnali simili a fuochi fatui: un invito a ritrovare in sé stesso quel giusto equilibrio tra sentimento e ragione proprio dell’uomo libero e di sani costumi: “… il dissidio, o mortal, delle tue cure nella diva armonia sommergerà”, “tutto in questo tempio dovrà essere serietà, senno, benefizio e giubilo”.

Il poeta sembra non voler recepire il messaggio dei cipressi portando come scusa la “Tittì” che lo aspetta con ansia perché ha bisogno di lui: considerando il fatto che il vero nome della figlia minore del Carducci era Libertà e alla luce della battuta antimanzoniana due versi più sotto, ci sta che anche in questo caso il poeta abbia voluto lanciare una delle sue sassate contro una certa parte politica che oggi definiremmo radical cattolico scic.

Ho accostato, sopra, i due filari di cipressi alle colonne, agli scranni, dove siedono i Fratelli nel Tempio; a questo voglio aggiungere che i cipressi vanno da San Guido verso Bolgheri in direzione oriente: ed ecco proprio da Oriente discendere la visione della nonna Lucia, la luce: “come il sole apparendo ad oriente… illumina la terra, così il M.V. sedendo all’oriente, istruisce i Fratelli col lume della propria scienza muratoria”.

Nelle tre strofe che introducono la nonna Lucia appaiono riferimenti all’apertura rituale dei lavori: la parlata toscaneggiante della nonna è piena di forza e di bellezza ed è rivolta al saggio: Forza – Bellezza – Sapienza; ed anche le parole con cui il poeta ricorda la novella narrata un tempo dalla nonna sembrano l’incedere di un rituale, ripetitivo e monotono per il profano, ma vivo e sempre nuovo per l’iniziato, “sette paia di scarpe… sette verghe di ferro… sette fiasche… sette anni…”: il rituale si ripete ma la novella è ancora di nuovo bella, di nuovo vera.

“E quello che cercai mattina e sera, tanti e tanti anni in vano, è forse qui…” E’ qui tra questi due filari che noi chiamiamo colonne, tra questi cipressi che noi chiamiamo Fratelli, in questo “dolce piano” che noi chiamiamo Tempio che possiamo anche noi ritrovare ciò che abbiamo cercato per tanto tempo, cioè noi stessi.

Per concludere voglio rivolgere un pensiero a quell’ “asin bigio”; l’ho visto, l’ho conosciuto, è dovunque: sta lì all’angolo di ogni strada, non ti degna di uno sguardo mentre è intento a rosicchiare il suo cardo: è insensibile a tutto ciò che lo circonda, non si scomoda neanche gli crollasse il mondo addosso.
E’ un asin bigio di pura razza bigio asinina, convinto di realizzarsi sgranocchiando un cardo rosso e turchino.
Bisogna però capirlo: aveva un cugino, il quale un giorno, per spaventare gli altri animali o semplicemente per primeggiare su di essi, volle mettersi indosso una pelle di leone … ma finì sbranato.



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