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Testamento biologico: ci vuole una legge

Ultimo Aggiornamento: 17/09/2007 16:37
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16/09/2007 23:48
 
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Riporto da Repubblica del 15 settembre l’intervento del professor Umberto Veronesi:


Pubblicato da don Franco Barbero


Niente di nuovo nelle dichiarazioni della Congregazione per la dottrina della fede sulla nutrizione
artificiale, che non fanno che ribadire le posizioni storiche della Chiesa su questo tema.

Le parole di oggi non spostano la situazione di chi si ritrova in coma vegetativo permanente e dei suoi familiari, perché non è solo la Chiesa a vietare l´interruzione di trattamenti che tengono artificialmente in vita una persona, ma lo Stato italiano.

La posizione su cui riflettere e discutere non è dunque quella del Papa, ma, semmai, quella della nostra legge.

Perché di questo stiamo parlando: se è giusto o no, se è legale o no prolungare con la nutrizione e idratazione artificiale la vita biologica di un corpo umano che ha perso per sempre il suo legame con la coscienza, trovandosi in situazione di coma irreversibile.

Infatti Beppe Englaro, padre di Eluana, da anni non fa che peregrinare da una Corte di Giustizia all´altra, nella speranza di poter porre fine alla straziante esistenza artificiale di sua figlia, che è in coma vegetativo permanente da 15 anni, senza essere accusato di omicidio.

In realtà esiste la dichiarazione di una Commissione di esperti che, come ministro della Sanità, avevo insediato nel 2000. La Commissione, formata da medici, medici legali, esperti di bioetica e
anche giuristi, come Amedeo Santosuosso, era giunta alla conclusione che poiché per somministrare la nutrizione e idratazione artificiale bisogna somministrare anche dei farmaci, di fatto stiamo parlando di trattamenti medici che, come tali, possono essere sospesi in base a una valutazione di utilità per il paziente considerato nella sua globalità.

Subito si levarono le voci di chi sosteneva che in ogni caso bisogna fornire al malato il sostentamento minimo per proseguire l´esistenza biologica.

E su questo si può discutere, ma il dibattito non c´è mai stato: il Parlamento non ha preso una posizione e continua a non decidere e i giudici, per lo più, fanno finta di niente, o quasi. Ora entro settembre il caso Englaro verrà discusso in Cassazione e vedremo se qualcosa succede.

In attesa di un cambiamento culturale nei confronti della vita artificiale io mi sono battuto per uno strumento che potrebbe prevenire i casi alla Englaro. È il testamento biologico, che è appunto l´espressione delle volontà della persona riguardo ai trattamenti che vorrebbe o non vorrebbe ricevere (in primis quelli che tengono artificialmente in vita) in caso di sopravvenuta incapacità di intendere e volere.

Se la giovanissima Eluana avesse messo per iscritto la sua determinazione assoluta a non vivere una vita artificiale, invece che confidarlo al padre e agli amici, oggi Beppe Englaro non sarebbe nella drammatica situazione di non poter esaudire il desiderio di sua figlia circa la sua stessa vita.

Il testamento biologico sarebbe in verità già valido nel nostro Paese, in base alla nostra Costituzione (articolo 32) e alla Convenzione di Oviedo; ma certo una legge che "stabilizzi" le volontà del cittadino e le renda vincolanti, sarebbe auspicabile e necessaria. Resta da sperare che il Parlamento non affossi anche questa proposta.



donfrancobarbero.blogspot.com/



Se sai che non sai clicca qui sotto


17/09/2007 02:05
 
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Metto anche questa vecchia proposta della carta dell'autodetermnazione di Maurizio Moi che quando la lessi mi colpi' molto in cui parlo' della situazione della fame d'aria,situazione cui ando' incontro mio padre che mori' per un cancro al polmone a causa del vizio del fumo.

da www.geocities.com/centrotobagi/unaci3.html

Maurizio Mori
La «Carta dell'autodeterminazione»

Maurizio Mori è componente della Consulta di Bioetica e dirige la rivista "Bioetica".

La Consulta di Bioetica ha avanzato una proposta di legge sul riconoscimento della carta dell'autodeterminazione. Di cosa si tratta?
La carta dell'autodeterminazione, che ogni tanto viene anche chiamata testamento biologico o living will, testamento di vita, o ancora bio-card, per stemperare il pathos, in sostanza è un documento in cui uno lascia per iscritto le disposizioni circa i trattamenti che vuole gli vengano riservati nelle fasi terminali della vita, nel caso avesse perso la capacità di intendere e volere e fosse quindi diventato "incompetente" come noi diciamo.
Senz'altro è un passo decisivo e sostanziale nella questione relativa alla fine della vita, perché si tratta di introdurre anche nell'ordinamento giuridico il riconoscimento dell'autonomia e delle capacità di scelta in tale ambito.
In quali casi è contemplata tale possibilità?
Per adesso è consentito solo nei casi legali, cioè ad esempio per la sospensione delle terapie, che è prevista dall'ordinamento: i medici già potrebbero sospendere le terapie, anche se, di fatto, ciò non succede per un eccesso di autotutela da parte del medico.
Senz'altro più controversa resta invece la questione relativa allo stato vegetativo persistente, perché si tratta di persone che ormai hanno perso le funzioni superiori del cervello, ma rimane il tronco encefalico, per cui si ha ancora respirazione autonoma e questo permette di resistere anni, anche decenni. Questi sono casi non ancora previsti, perché non rientrano nella definizione di "morte cerebrale", anche se per loro non c'è speranza di ritorno a vita cosciente.
Ora, in questo caso uno potrebbe richiedere appunto la sospensione delle terapie oppure di lasciare i propri resti corporei, mortali (bodily remains li chiamano in inglese perché a quel punto non si può neanche più parlare di "corpo") ad esempio, per la sperimentazione scientifica, per testare nuovi farmaci. Ormai la persona non c'è più, non c'è neanche più la capacità di provare piacere o dolore... Ecco, può sembrare brutale, ma secondo me sono già morti, indipendentemente dal fatto che respirino: sono morti in quanto persone, non in quanto esseri umani. La distinzione tra essere umano e persona per me è fondamentale: non tutti gli esseri umani sono persone.
So che sono affermazioni abbastanza impressionanti, sconcertanti, non a caso l'estensione della nostra capacità di autonomia in questi nuovi ambiti crea non pochi problemi. Io però mi chiedo se non sia comunque meglio essere consapevoli e prendere atto del cambiamento intervenuto, casomai anche scegliendo di non accettare questa opportunità di intervento.
Perché proprio oggi si rende opportuno un intervento di questo tipo?
Si tratta evidentemente di una questione controversa. Quello che è certo è che ormai gli avanzamenti tecnici in campo bio-medico, con la capacità di conoscere e sostenere la vita biologica, impongono scelte precise in proposito, che non sono più demandate o demandabili a terzi. E questo non perché, come sostengono molte delle tesi conservatrici e tradizionaliste, la tecnica distrugge ogni valore, ma piuttosto in quanto apre nuove possibilità di scelta. Ecco, se Sartre diceva: "Siamo condannati a essere liberi", sottolineando soprattutto il peso della libertà, possiamo dire che la carta dell'autodeterminazione è un ulteriore passo in quella direzione. D'altra parte, un tempo l'autodeterminazione non esisteva neanche in campo sociale: non occorreva scegliersi il lavoro (arrivati a una certa età, senza neanche rendersene conto, si faceva il lavoro del proprio padre), e nemmeno se, quando o chi sposare (decidevano i genitori). Oggi dobbiamo continuamente scegliere cosa fare, e talvolta è senz'altro un grosso carico, perché il campo di scelta oggi si estende fino a coinvolgere la sfera biologica.
Qui varrebbe la pena di essere chiari anche su un punto: non è vero che sulle questioni che stiamo trattando le decisioni non vengono prese, che vengono prese dalla natura: le prende comunque qualcuno. E allora noi riteniamo che la persona più titolata a prendere tali decisioni sia il soggetto medesimo, appunto lasciando disposizioni conformi alle proprie volontà. Ove questo non accada, o nel caso che la situazione che si verifica non fosse prevista, l'interessato può designare un fiduciario, eventualmente anche un vice, (se l'incaricato risultasse irreperibile oppure fosse la moglie e ci fosse stato un incidente stradale che ha coinvolto entrambi). Noi riteniamo che questo sia un forte avanzamento di civiltà perché, ripeto, le decisioni vengono prese comunque, semplicemente spesso restano occultate. Ora, qui non si discute della bontà o cattiveria di chi decide, ossia i medici.
Il punto è che possono esserci divergenze di visioni del mondo tali da farci pensare che quand'anche si trattasse del migliore medico, preferiamo che la decisione sia demandata al soggetto.
Cade anche l'idea che la vita è sempre un bene, che è anche un baluardo teologico?
L'avanzamento tecnico delle nostre conoscenze, per quanto riguarda la fase terminale della vita, ha svelato che quella convinzione, a prima vista scontata e ovvia, addirittura banale, in realtà è falsa. L'enciclica Evangelium vitae, al n. 34 dice esplicitamente: "La vita è sempre un bene". E aggiunge che questa è un'intuizione, o addirittura un dato d'esperienza, di cui l'uomo è chiamato a cogliere la radice profonda. Ebbene, in realtà che la vita sia sempre un bene non lo crede più neanche la chiesa cattolica, perché allora ci sarebbe il dovere di fare sempre tutto il possibile, e anche l'impossibile, pur di preservarla e non sarebbe mai lecita la sospensione delle terapie. Invece da Pio XII in avanti anche i cattolici ritengono che in circostanze terminali, a un certo punto, è lecito sospendere le terapie e lasciare che la natura faccia il proprio corso. Perché è vero che la vita è un bene nelle circostanze normali, ma oggi la scienza e la tecnica ci hanno costretto a confrontarci con situazioni che, se in passato erano del tutto marginali e quasi inesistenti, oggi sono diventate sempre più visibili e frequenti. Un tempo il processo del morire era caratterizzato da tre aspetti: primo, la morte era prematura, si moriva giovani rispetto alle reali potenzialità dell'organismo; secondo, la morte era imprevista e imprevedibile, anche perché la capacità di diagnosi era limitata (c'era lo sguardo, un po' di tatto e basta); terzo, il processo del morire era di breve durata, con la polmonite, ad esempio, dopo 9 giorni c'era la crisi e nella fase acuta, quando la febbre saliva non c'era niente da fare, semplicemente si aspettava. Oggi invece il morire può essere prolungato di anni, decenni, per cui una situazione prima di dimensioni limitate, si espande e diventa un problema anche sociale.
Non solo, la medicina contemporanea ci costringe a una chiarezza che un tempo potevamo cercare di evitare.
Uno dei tratti salienti dell'umanità per come la conosciamo risiede nell'ambiguità: vedo, non vedo, decido, non decido, so, non so. Carlo De Fanti, ex presidente della Consulta di bioetica, che adesso dirige il più grande reparto di neurologia di Milano Niguarda, osservava come il codice deontologico dei medici, anche l'ultimo, ci mantenesse in questa ambiguità: si deve comunicare la verità senza mai togliere la speranza. Ma come è possibile? Di fronte alle diagnosi di una volta c'era sempre la possibilità della speranza, ma di fronte a certe Tac di oggi... Allora, il punto è che la medicina industriale ci toglie quell'elemento di ambiguità e a mio avviso è proprio questo che la rende disumanizzante. Certo, lo è anche perché a volte ci sono gli infermieri scorbutici, con gli zoccoli che fanno rumore, per la scarsità dei rapporti umani... Ma a mio giudizio c'è un elemento strutturale ben più profondo, legato al fatto che ormai anche il versante più prettamente biologico della nostra vita è entrato nel nostro ambito di decisione. D'altra parte anche da un punto di vista storico questo è un processo ineluttabile. Se pensiamo ai tre grandi cardini della vita sociale -il matrimonio, l'unione, cioè, di due adulti al fine di generare, la nascita, l'apparire, cioè, di un nuovo individuo, e la morte- vediamo che la presa di controllo del matrimonio, iniziata con l'illuminismo, è ormai del tutto acquisita con l'introduzione del divorzio e il controllo della trasmissione della vita attraverso la contraccezione, e che ora stiamo arrivando a controllare anche gli altri due momenti: l'ingresso nella vita e la morte. Questo comporterà una completa riorganizzazione della vita sociale.
La bioetica viene intesa come "disciplina" dei limiti da porre alla scienza?
Secondo mons. Sgreggia, il compito della bioetica è l'individuazione delle barriere etiche da porre all'avanzamento tecnico-scientifico. Quest'idea che ci si deve difendere da qualcosa comporta però la convinzione che ci sia già un ordine, una legge naturale stabilita a priori. Ma se si prescinde da questa concezione della vita e del mondo, che secondo me è insostenibile perché la tecnica la mette in discussione, queste presunte frontiere inviolabili risultano di fatto storiche, ossia determinate dalla nostra incapacità di controllare i processi vitali. Allora, è evidente che la bioetica è diventata così importante, perché comporta una forte riorganizzazione di noi stessi, del nostro modo di vivere. E giustamente il diritto futuro diventerà sempre più intrusivo in questi ambiti, ma non per vietare, bensì per consentire a tutti l'esercizio della propria libertà. Questa è l'idea cruciale.
Trovo invece fuorviante rifarsi, in modo spesso ossessivo, ai diritti dell'uomo, ipotizzando, addirittura, di aggiungere una postilla sulla bioetica. I diritti dell'uomo sono nati in un'epoca in cui questi problemi non c'erano, perché non c'era stata la rivoluzione medico-biologica. Basterebbe osservare che nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, i termini "persona", "individuo", "essere umano" sono usati come normali sinonimi, cosa che andava benissimo fino a quando la scienza non ci ha costretto a vedere meglio i fenomeni di cui abbiamo parlato prima.
Molti dei problemi che oggi noi ci troviamo ad affrontare a mio giudizio dipendono dal superamento e dall'abbandono di quello che io chiamo "il principio di sacralità della vita", che non equivale affatto a non uccidere. Il principio della sacralità della vita equivale al rispetto dei due grandi finalismi biologici: riproduzione e autoconservazione. Capita che per noi non c'è più il dovere di rispettare questi finalismi biologici e questo sposta completamente il quadro logico della situazione e ci costringe a nuovi tipi di intervento.
Per quanto riguarda l'eutanasia, il suicidio assistito, come intendete muovervi?
Il problema dell'eutanasia e del suicidio assistito rientrano pienamente nel discorso che stiamo affrontando. Oggi noi non lo proponiamo, perché in Italia non è consentito dalla legge, ma ciò non toglie che potrebbe essere una delle clausole nella carta dell'autodeterminazione. Ovviamente, su questo bisogna essere molto chiari: nessuno ama l'eutanasia, il problema è che ci sono circostanze in cui l'alternativa è tra il lasciare che la natura conduca a una morte impietosa e straziante oppure morire con dignità decidendo della propria sorte. Questa è la distinzione fondamentale. Il dilemma può essere formulato in questi termini: esiste o meno la situazione infernale, cioè esistono situazioni in cui è meglio non esistere piuttosto che esistere? Evidentemente sì. Ora, una situazione infernale può essere causata artificialmente dall'uomo, con il cosiddetto accanimento terapeutico, che vuol dire mancanza di limiti, e una volontà di strafare, da parte dell'uomo, che provoca dolore e vìola la dignità delle persone. In altre situazioni, però, la situazione infernale viene provocata dalla natura. Allora, la domanda è: se è doveroso evitare la situazione infernale creata dall'uomo, perché di per sé dovrebbe essere lecito lasciare alcuni soggetti nella situazione infernale prodotta dalla natura? In nome di che concedere un tale privilegio al versante della natura? Io sono convinto che in situazioni particolarmente tragiche sia un dovere profondamente morale intervenire.
L'esempio più tipico è quello dei malati di cancro ai polmoni, che arrivati a un certo stadio, quando ormai in pratica il polmone non c'è più, patiscono quella che si chiama "fame d'aria", che è una sofferenza inaudita. A questo punto, attualmente, l'unico modo per risolvere la situazione è la sedazione totale, che già viene praticata per contenere almeno il dolore fisico nelle situazioni infernali, ma qui insorge un grande problema: sedare qualcuno, sapendo che non riprenderà coscienza, non equivale a uccidere?
Quando si parla di eutanasia un'espressione corrente è quella di "china scivolosa". Cosa si intende?
La "china scivolosa" si riferisce all'idea secondo la quale, una volta ammesso il principio che è lecito porre fine alla vita di chi si trova in queste circostanze estreme, non si riesce più a controllare il processo, e si apre un varco all'abuso. La realtà è che la possibilità di abusi esiste sempre, quindi io non escludo a priori tale eventualità, ma bisogna tener presente che questo ragionamento vale anche per la situazione attuale. Anzi, a mio giudizio di solito è molto più grave il paravento di una situazione ufficialmente sicura, piuttosto che un contesto in cui si ammette questo pericolo andando poi a controllare i singoli casi, in modo che gli abusi vengano denunciati, dichiarati e puniti, per quanto possibile. Coloro che son contrari all'eutanasia sono proprio così convinti che oggi non capiti mai? O forse fa comodo far finta che non capiti? Io su questo avrei tante domande. Per esempio: qui in Italia, di bambini con la sindrome di down, nati con l'occlusione all'esofago per i quali si tratta di decidere se operare l'esofago e farli vivere oppure no, non ne nascono mai? Negli Usa questo problema è stato posto ed è dovuta intervenire la Corte suprema. Da noi non si verificano mai situazioni del genere? E poi in Italia i vegetativi persistenti dove sono? Quanti sono? Come muoiono? Muoiono tutti naturalmente e come? E' proprio così sicuro che in Italia di fronte a certe situazioni veramente drammatiche, mossi da una normale benevolenza e pietà per le sofferenze altrui non si intervenga di gia'?
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17/09/2007 12:34
 
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Una volta, nel corso di "Introduzione alla medicina e alle sue conseguenze sociali", il nostro professore invitò da noi un suo caro amico, il primario di un ospedale di Legnano, anestesista specializzato in medicina del dolore e terapie palliative.
Era un ometto basso, simpatico, con un papillon e due occhialoni bordati di nero. Sembrava uscito da un'altra epoca, e parlava con un tono pacato e amichevole.
La lezione doveva durare due ore. Il microfono era malfunzionante, ed essendo l'aula capiente il doppio di quanti eravamo noi (un corso di 75 alunni) molti avevano ben pensato si sedersi a fondo aula per farsi i propri comodi.
Io ero in terza fila.
Sapevo che ci avrebbe parlato di medicina del dolore, mi chiedevo come avrebbero reagito i miei compagni. Era un tema che avevo sempre rispettato e a cui avevo sempre dato grande considerazione. Quasi tutto il gruppo degli studenti seri in cui mi trovavo, era ciellino. A medicina, stimo che quasi il 50% degli studenti del mio anno lo sia.
La lezione iniziò abbastanza male, perché da dietro sentivo degli idioti che facevano chiasso.
L'uomo parlò, con lentezza, iniziando ad introdurre basilarmente i concetti. Era chiaramente una persona colta, che apprezzava la letteratura e citava vari autori italiani e inglesi; a un certo punto ci lesse anche, nel suo discorso, due poesie molto belle per descrivere il concetto di dolore.
Vedevo che molta gente, anche fra quelli che avrei reputato un po' più intelligenti della media, non lo prendeva troppo sul serio. Forse perché all'esame nessuno avrebbe interrogato su una poesia?
"Stupidi!" li giudicai.
Mi faceva irritare la disattenzione a quella lezione. Lui domandava spesso al pubblico; dietro in genere non lo sentivano o fingevano di non sentirlo, mentre davanti chi non poteva fingere restava muto e guardava dall'altra parte, o se interrogato a forza dall'ometto biascicava due stupidaggini di circostanza. Quando chiese cosa significasse "terapia palliativa" NESSUNO seppe rispondergli bene, alcuni spararono volutamente delle cose senza senso, baggianate che avrebbero meritato loro la domanda "ma tu cosa ci fai in questa facoltà?".
Mi stavo irritando, e parecchio. Ma dove vivevano?
Io ho l'abitudine di non intervenire quasi mai, in questo tipo di lezione. Ma quell'uomo chiedeva, chiedeva ancora, e io vedevo tutti i compagni che reputavo "intelligenti" o "studiosi", praticamente tutti ciellini, ostinarsi a restare muti o a distrarsi dalle parole dell'ometto.
Costui chiese di descrivere cosa sia la morte; cosa sia il dolore; cosa sia il paziente; cosa sia l'accanimento terapeutico, la terapia palliativa, la medicina del dolore... e niente tutti si comportavano con imbarazzo, superficialità, ignoranza.
La mia irritazione stava diventando disgusto.
Alla fine, per ottenere l'attenzione e un minimo di collaborazione, l'ometto chiese... o per meglio dire ordinò, a tutti di prendere un pezzo di carta, e di scrivere cinque aggettivi per descrivere secondo noi che cosa poteva essere una morte ideale.
Scoppiò il panico in aula.
Una cacofonia di sussurri:
"Morte ideale?!"
"Ma che cos'ha questo qui in testa, è matto?"
"Boh, che cosa mi invento?"
"Oddio ma come pretende che possiamo inventarci queste cose così sul posto?"
"Tu, non hai in mente nulla?"
"No... maledizione, nulla!"
"..."
Qualcuno, che sapeva le mie opinioni in materia di fede, mi diede una gomitata per farmi voltare. Dal suo viso compresi che era visibilmente imbarazzato all'idea di finire come capro espiatorio delle prime file; mi disse "dai, scrivi tu qualcosa! Non abbiamo in mente niente, alza la mano tu!"
Non l'avrei fatto per lui, né per nessun altro. Anche io oltretutto, ero stato colto alla sprovvista e non avevo nulla di pronto. Afferrai un pezzo di carta e scrissi cinque aggettivi... non so da dove mi fossero venuti fuori, mi sembrarono semplicemente la cosa più logica da dire. Mi sorpresi a chiedermi perché gli altri non ci avessero pensato, che cosa li bloccasse. Volevano avere qualcosa da dire, no? Perché non scrivevano termini come quelli che avevo scritto io?
Possibile che non fossero capaci di pensarli da soli?
Alzai la mano.
"Sì? Lei vuole dirmi che cosa ha scritto, cortesemente?" domandò l'ometto.
Aveva un tono stanco, era pronto a sentire la solita sequela di banalità che non c'entravano nulla.
Io mi drizzai sulla sedia e lessi, a bassa voce perché ero timido.
"Per me la morte ideale dovrebbe essere: consapevole, dignitosa, assistita, sedata, accettata".
L'ometto non rispose, vidi soltanto che per la prima volta a partire dalla lezione, aveva un sincero sorriso sul volto.
"Lo ripeta ancora, per favore. Non so se l'hanno sentita".
Adesso ero arrabbiato. Alzai la voce, volevo che lo sentissero fino all'ultima fila:
"PER ME LA MORTE IDEALE DOVREBBE ESSERE: CONSAPEVOLE, DIGNITOSA, ASSISTITA, SEDATA, ACCETTATA".
Calò il silenzio sull'aula.
"La ringrazio, penso che abbia spiegato con dei termini piuttosto appropriati l'idea che avevo sull'argomento".

Più tardi, alla fine della lezione, passai di fianco alla cattedra dei professori. L'ometto stava chiacchierando con il nostro professore e non badava al flusso degli studenti, così ansiosi di uscire a fare l'intervallo.
Passai accanto alla borsa dell'uomo, con un plico di documenti ancora da infilarci dentro. Erano gli appunti, prestampati, che si era portato dietro per tenere il suo discorso. C'erano varie pagine sparse, e una era quella sul concetto di "morte ideale".
C'erano sopra tre aggettivi stampati a caratteri maiuscoli: "consapevole, dignitosa, assistita".
Non gli ho detto una parola e me ne sono andato al corso successivo, però sorridevo anche io.



[Modificato da Rainboy 17/09/2007 16:37]
17/09/2007 12:46
 
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Che dire,caro Rain? La tua esperienza mostra che fai le cose con "consapevolezza",che ti applichi e che prendi sul serio il mondo della medicina e tra te e i balordi ciellini c'e' stato un'abisso enorme,incolmabile.

Quel povero ometto non faceva altro che chiedere continuamente alla platea : "VOI SIETE CONSAPEVOLI DI COSA SIANO MORTE DOLORE E SOFFERENZA"?

Tu da solo,ateo,hai fatto fuori con una risposta semplice ma densa di consapevolezza e coscienza una mezza platea di deficienti e balordi ciellini!

Io ho compreso perfettamente il senso della tua risposta,perche' ho potuto vedere da vicino morire come un cane mio padre,a causa del fatto che nelle ultime due settimane ricevette la sedazione solo nell'ultimo giorno e dovendosi subire le atroci sofferenze da fame d'aria per un'intera settimana,noi chiedemmo su espressa volonta' di nostro padre la somministrazione della sedazione che induceva uno stato di incoscienza senza dover aspettare gli ultimi due giorni senza essere accontentati!

Un caro saluto

Paolo

[Modificato da pcerini 17/09/2007 12:56]
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17/09/2007 13:51
 
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Quasi tutto il gruppo degli studenti seri in cui mi trovavo, era ciellino. A medicina, stimo che quasi il 50% degli studenti del mio anno lo sia.
ai miei tempi, essere di cl aiutava parecchio a trovare una camera a prezzo equo...parecchi miei amici erano "ciellini d'appartamento"...

per quanto riguarda tutto il resto del tuo intervento: spero di incontrare medici con la tua coscienza. [SM=x789058]
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