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Diritto a morire: l'inchiesta

Ultimo Aggiornamento: 17/11/2008 01:31
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17/11/2008 01:31
 
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Tutte le Eluana d'Italia

Duemila persone nello stesso stato
della ragazza lombarda. Quante di
loro sceglieranno di staccare la spina?


M. CORBI, G. GALEAZZI
ROMA

Duemila casi «Eluana» in Italia, secondo la Chiesa, preoccupata che la sentenza della Cassazione produca un effetto a cascata in tutto il Paese. Duemila storie che ci raccontano la sofferenza, la vita-non vita dello stato neurovegetativo, il dolore di chi ama quelle persone intrappolate nei corpi, da anni silenziose, immobili.

E il dibattito sulla sorte di Eluana entra in queste stanze, abbraccia i malati e i loro parenti, costringendoli a schierarsi, per chiedere il diritto di morire dolcemente, o che venga rispettato quel respiro che ancora li unisce alla vita e agli affetti. Un dibattito che attenua le divisioni tra cattolici e laici. «Il diritto a morire e far morire, le cure a ogni costo, si intrecciano ai dati che dicono anche (Istituto dei Tumori di Milano) che di 40mila malati terminali, solo 4 vogliono farla finita». Gloria Valenti è la madre di Simone, 18 anni, da tre in un letto per un arresto cardiaco, il suo scopo adesso è stargli accanto e mandare avanti l’associazione «Amicisimone» che si batte perché una famiglia possa essere messa nelle condizioni di tenere un malato in questo stato a casa. «Io non giudico», dice, «ma non farei mai la scelta del papà di Eluana. E lo dico da laica. Perché nel mondo laico, c’è un gruppo robusto, sostenuto, che la pensa come noi. La speranza? Non si perde anche se razionalmente non esiste».

Dialoghi con gli occhi
Bruno Tescari, dell’associazione Luca Coscioni, bloccato in una sedia rotelle, la pensa diversamente: «chi mi conosce sa che vorrei che mi venisse staccata la spina. Penso alla vita, ma anche alla qualità della vita». Anche Severino Mingroni, classe 1956, loocked-in (bloccato nel suo corpo ma cosciente) dal 1995 per una trombosi ha consegnato al testamento biologico il desiderio: «Come Eluana proprio non vorrei “vivere”, o, meglio, vegetare».

Dibattito faticoso, doloroso, in cui i percorsi personali si intrecciano a quelli scientifici. «Ma io vorrei dire a tanti medici di confrontarsi con le famiglie e non solo con politici, teologi, filosofi», dice Luigi Ferraro, marito di Daniela, da cinque anni bloccata nel suo corpo (sindrome di locked-in) e presidente dell’associazione «amicididaniela.it». «Penso a ieri sera a “Porta a Porta” dove si è cantato un inno alla morte e non alla vita». La storia di Daniela inizia cinque anni fa quando a 39 anni una emorragia cerebrale la fa entrare in coma. Cinque mesi dopo è Luigi che si accorge che in quel corpo immobile c’è vita. «Ho chiesto a mia moglie di aprire gli occhi quando sentiva una lettera dell’alfabeto per comporre una frase. E infatti mi ha detto: “perché ho sempre così tanto sonno?”. I dottori non volevano credermi e continuavano a dire che era in uno stato vegetativo persistente, che io ero un illuso. In questi anni quattro cinque volte mi ha chiesto di farla finita, ma poi ha cambiato idea. Per questo dico che certe cose dipende anche dal momento in cui si dicono. E oggi il dubbio più atroce è se in qualche ospedale ci sono locked-in scambiati per stati vegetativi persistenti».

A Budrio, in provincia di Bologna, Mario è in stato vegetativo da 12 anni in seguito a una gravissima malattia vascolare, ma la moglie che lo assiste non intende «staccare la spina». A Tricarico, in provincia di Lecce, Emanuela Lia, è nella stessa condizione di Eluana da 16 anni e anche lei come la Englaro, prima dell’incidente automobilistico, aveva detto ai suoi di non voler essere tenuta in vita artificialmente se le fosse accaduto qualcosa. Adesso però il padre Cesare non vuole interrompere i trattamenti e le sta accanto giorno e notte come «testimonianza d’amore». A Treviso, invece, Maria Ravasin vorrebbe che suo figlio Paolo, da 10 anni malato di Sla, potesse «porre fine al suo calvario». Sara D. è siciliana, ha 25 anni, è in stato vegetativo da due anni e mezzo; suo padre si batte da allora perché in Sicilia ci siano condizioni di assistenza migliori, ed è solidale con il padre di Eluana: «Mia figlia ed Eluana sono doppiamente sfortunate perché oltre ad avere le loro giovani vite spezzate, non hanno potuto rifiutare l’uso della “tecnologia avanzata” delle sale di rianimazione per chiedere di morire secondo natura».

Di anni di coma Cristina Magrini, bolognese di Porretta, ne ha già fatti 18 a causa di un incidente. Durante questi anni di lungo «sonno» sua madre è morta e il padre che la assiste non ha intenzione di porre fine alla sua vita artificiale ed è preoccupato di quando lui non ci sarà più. Per questo ha creato un gruppo di volontari che possano garantirle assistenza. Niente accanimento terapeutico, e volontà di staccare la spina, nei casi di Davide, colpito a Brescia da un virus letale e di Roberto di Sarzana, vicino La Spezia, bloccato da un micidiale infortunio. Da 12 anni è in stato vegetativo a Forlì, Giovanna, però a sua madre Letizia danno speranza gli impercettibili segni di miglioramento, come quando oltre al tubicino per gli alimenti nello stomaco, riesce a darle il gelato per bocca. Istanti di gioia che vincono la disperazione e aiutano ad andare avanti.

www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200811articoli/38222gi...



La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno.
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